martedì 24 settembre 2024

Ifigenia CXXIV e CXXV.


 

Ifigenia CXXIV. La partenza e l’arrivo alla festa della conoscenza di Debrecen

 

Vedevo che continuava a parlare con quel biondastro

 Mi dicevo: “Non la capisco. Dopo centinaia di orgasmi, migliaia di pensieri sul suo conto e tante parole scambiate con lei non so chi sia questa giovane donna, né che cosa voglia da me. Né quanto posso aspettarmi da lei. Mi sto ancora chiedendo se la sua bellezza mi faccia bene o mi porti  pena, se sia catartica o demoniaca. Magari un giorni questa Sfinge troverà l’Edipo che risolverà enigmi troppo difficili per me. Oppure Dio, chiunque Egli sia, mi manderà un segno magari durante il mese di Debrecen”.

 Sarebbe andata proprio così, come vedrai lettore.

 

Dopo una decina di minuti Ifigenia tornò, dicendo che la stanza le era stata negata perché già promessa a un altro.

“Quello lì subaffitta la camera”, pensai.

Noi due finimmo da un’affittacamere matta. Ifigenia  precisò di non esserci mai stata prima. Ne aveva solo sentito parlare. Questa scusa non richiesta riattizzò i sospetti, ma tacqui perché volevo fare una scorpacciata di sesso poi partire.

Facemmo l’amore diverse volte con gusto triste. Alle tre della notte eravamo sazi e ci salutammo con una formula che avremmo continuato a usare sebbene già allora fosse discrepante rispetto ai fatti: “Ti amo. Fidati. Mi fido.”

Arrivai a Bologna che era già quasi l’aurora. Non sapevo che cosa sarebbe accaduto. “Lascia fare al destino- mi dissi- il futuro verrà e parlerà svelando ogni latenza”.

 

Partìì da Bologna con Alfredo domenica 22 luglio. Arrivammo a Debrecen con una sola giornata di viaggio: conoscevo molto bene la strada, come puoi immaginare, caro lettore.

 La sera del 23 c’era la festa della conoscenza, quella che negli anni passati mi era servita a incontrare la donna con la quale nel mese successivo avrei scambiato piacere, amore e non poco sapere, conseguendo comunque  una crescita della mia coscienza. Tra le altre, avevo incontrato, una per anno, le tre finlandesi Helena, Kaisa, Päivi, donne molto importanti nella mia vita. Grazie e  Muse che mi hanno spinto a studiare, a parlare e a scrivere per educare. 

Guardavo se c’erano dei  reduci del 1966. Vidi soltanto Alfredo che ancora cercava l’amore. Pensai di stare meglio di lui perché non avevo più l’ansia di trovare una donna. Il dilemma era se tenermi ancora o lasciare perdere quella che avevo e non mi lasciava in pace quasi mai..

Osservavo le ragazze con sguardo non più famelico, né maniacale.

Tra le altre notai una bionda dai lunghi capelli che le ondeggiavano sopra le spalle a ogni mossa della testa. A un tratto si girò nella mia direzione e, come vide che la guardavo, mi rivolse un sorriso. Glielo contraccambiai ma  volli prendere tempo prima di avvicinarla.  La notte passata quasi in bianco mi pesava sul cervello e non mi lasciava le forze mentali necessarie a una conversazione significativa e interessante soprattutto in una lingua che non parlavo da  anni. La bionda sembrava una tedesca tra i Tedeschi e con lei avrei dovuto parlare inglese. Ero fuori esercizio e troppo stanco per farlo decentemente.

Sicché mi ritirai nella solita  camera numero 4 del secondo collegio prima di mezzanotte. Andai subito a letto, contento di non avere fatto mosse affrettate. “C’è tempo- mi dissi- tutto il tempo”. E mi addormentai.

.

 

 

 

Ifigenia CXXV

Il ricevimento del Rettore. Le tre bionde e la bruna. San Terenzio e Giovanni Battista.

 

Il 24 luglio c’era il ricevimento del Rettore dell’Università di Debrecen.

Era la bella festa pomeridiana che diede l’avvio ai tre amori più importanti della mia vita: quelli con Elena nel 1971, con Kaisa nel 1972, con Päivi nel 1974.

 Dopo il primo che ha avviato la storia della trilogia amorosa con la più bella e buona dele mie amanti, avevo ritualizzato gli altri due ripetendo le mosse che avevano funzionato bene e scartando quelle improduttive. Verso sera avevo portato le ragazze, una alla volta per carità,  nella csárda di Hortobágy dove avevo cercato di manifestare alle corteggiate il meglio di me per affascinarle e gettare le basi di un amore mensile che poteva però diventare eterno almeno nel ricordo pensato e scritto.

A un tratto la ragazza bionda che avevo notato la sera precedente e mi aveva sorriso contraccambiata,  volse lo sguardo nella mia direzione. L’aurichiomata aveva la carnagione chiara e gli occhi azzurri: come si accorse che la guardavo e non levavo gli occhi da lei, protese verso di me la mano destra che stringeva un bicchiere pieno di “sangue di toro”[1] brillante come un rubino, in segno di brindisi credo, e mi accarezzò  il volto abbronzato con uno sguardo carico di simpatia femminile.

“Ecco di nuovo l’eterno, meraviglioso richiamo dei sessi che invita a prolungare la nostra breve esistenza mortale”, pensai.

Senza indugio ricambiai con piacere il simpatico gesto. Ci guardavamo da un tavolo all’altro. Io ero intruppato con gli Italiani. Dovevo avere conservato una  forma discreta: i mesi dell’intensiva cura erotica ricevuta da Ifigenia mi avevano fatto bene più di quanto quella ragazza balzana mi avesse danneggiato con i suoi scarti di umore. Nel bicchiere avevo messo dell’acqua, ottima[2] tra tutte le bevande, terapeutica più di ogni farmaco, preziosa pura e casta e così via. In ogni caso, che mi astenessi dall’alcol era uno dei segni della forza che sentivo dentro di me.

Il proposito di rimanere fedele a Ifigenia perfino nell’abbondanza di Debrecen, con il senno di adesso mi pare follia e spreco di occasioni che non ritornano se non vengono acciuffate siccome sono tutte calve di dietro, ma quella sera di luglio la volontà di aspettare  il destino a me assegnato, e assecondarlo qualunque esso fosse,  infondeva in me una calma interiore che, trapelando, mi faceva apparire misurato nei gesti, equilibrato, sicuro e perciò più piacente che mai.

Un amore vero o presunto, comunque carnalmente goduto , tra gli altri vantaggi ha pure quello, tutt’altro che trascurabile, di imbellire gli amanti.

 

Dopo la festa pomeridiana, calando la sera, andai a passeggiare sui sentieri del bosco. Camminavo come dentro di me mentre  ritrovavo tante tracce della mia vita  e ci passavo sopra memore e grato: vedevo gli alberi di maestà dodonea, il ponticello sul laghetto, i pesci rossi che vi nuotavano, i cespugli che lo incorniciavano, il vecchio Vigadó e altro.

 Dopo questo ripasso, andai a sedermi in una rientranza della facciata dell’edificio universitario, una specie di nicchia con una panchina di pietra. La fontana antistante, mentre verso le otto e mezza precipitava la notte, si accese di luci multicolori che resero i vigorosi zampilli simili, in formato minore, ai fuochi d’artificio lanciati per la festa solenne del 20 agosto a illuminare il grande scenario di Buda e di Pest, al di qua e al di là del Danubio. Questa era ogni anno l’ultima sera della borsa di studio piena di ricordi e speranze.

 

A un tratto mi venne in mente una fantasticheria del dicembre del ’68 lontano: avevo 24 anni, scrivevo dalla mattina a tarda notte, senza vedere nessuno, per finire la tesi di laurea e consegnarla prima dello scadere del termine ultimo, prossimo assai, al segretario iracondo della mia facoltà. Un buon uomo del resto.

Dal primo settembre avevo lavorato continuamente, senza concedermi una mezza giornata di pausa.

Il 24 luglio del 1979 dunque, percorrendo all’indietro il fiume del tempo, dello scorrere del sangue e dei sentimenti miei, mi tornò davanti quella notte remota.

Ero a Bologna in una stanza di una casa vecchia e non tanto calda, in via del Borgo.

 Mi ero coricato da poco: fissavo il soffitto segnato da una striscia di luce giallognola che entrava dagli scuri soltanto accostati. Quel giorno della mia vita mortale avevo scritto parecchie pagine dalla mattina presto a mezzanotte, quasi senza intervallo, e, prima di riprendere a lavorare con lena, avrei dovuto dormire, ma non oltre le sette.

Dovevo terminare la tesi, sulla poesia ungherese del Novecento, non più tardi del 5 febbraio; scrivevo da tre mesi ed ero arrivato appena a metà. Volevo dormire, però la paura angosciosa di non compiere il grande lavoro che doveva arrivare a seicento pagine dattiloscritte, non mi lasciava prendere sonno.

Allora decisi di non cercare l’assopimento e di intrattenere pensieri confortevoli: rinnovellare mentalmente le più belle esperienze della mia vita. Pensavo  alle assemblèe studentesche del ‘68, ai discorsi politici che reclamavano giustizia, uguaglianza, solidarietà tra gli umani, alle due estati già passate in Ungheria, al grande bosco di Debrecen,  alle feste nella Nyári Egyetem, alla bionda Eeva Vuortama quando mi portò una rosa la sera dell’ addio, alla grande fontana antistante la bella facciata dell’Università estiva che si specchia nell’acqua multicolore quando schizzano gli zampilli variopinti dalle fonti vivaci intorno alla vasca, e si accendono le tante finestre del maestoso edificio di stile imperiale  insieme con le stelle del cielo sereno, azzurro dopo il tramonto del sole.

Con questi ricordi mi consolavo della vita dura e deserta che menavo da mesi. Quindi pensavo che dopo la laurea avrei cominciato a insegnare, allora bastava volerlo, magari spostandosi verso nord est, poi, in luglio, proseguendo verso oriente, sarei tornato a Debrecen, sarei andato alla festa della conoscenza e a quella del Rettore, quindi, finita queste, mi sarei seduto su una delle panchine di pietra inserite nelle nicchie della facciata dell’Università estiva.

Avrei aspettato il passaggio delle ragazze che uscivano dalle feste tenute nel grande salone dell’Università. Immaginavo che tra quelle studentesse carine ci fosse  una ragazza italiana bella e intelligente, una sul tipo di una splendidissima bionda che avevo sentito parlare con eleganza in primavera dentro l’Università di Bologna occupata da noi studenti, Dadi si chiamava quella ragazza, aveva un dente un po’ fuori posto eppure era bella, espressiva, luminosa: brillava di un fuoco interiore, aveva lunghi capelli, era ben fatta, allettante, armoniosa come una dea, chiara nella pelle liscissima, e aveva occhi d’oro brunito dolci e vivaci. Ebbene, se  quella creatura perfetta mi fosse passata accanto lì a Debrecen, dove Eros faceva incontrare ragazze e ragazzi perché si amassero senza timori né eccessivi pudori, l’avrei chiamata e se non mi avesse sentito, l’avrei inseguita. Le avrei chiesto di stare con me, di mettere al mondo una bambina con me. Il sogno della figlia mi commuove ancora a quasi ottanta anni.

Ho sempre desiderato una figlia da quando educavo mia sorella Margherita, la “citta” che aveva quattro anni due mesi e due giorni meno di me.

 Tali progetti facevo nella desolazione semifredda della stanzetta dove vivevo, da anacoreta, gli ultimi giorni della mia vita universitaria bolognese.

Dopo tale fantasticheria della fine del ’68, ero andato avanti altri dieci anni con il metodo degli amori estivi per le finlandesi estive di Debrecen e delle relazioni poco impegnative con donne insignificanti in Italia, senza impiegare il cuore e la mente con le colleghe che incontravo nell’ambiente del lavoro iniziato nel 1969. Tra queste non ne avevo mai visto una della levatura di Marisa la ragazzina coetanea che era stata l’idolo mio quando avevamo tredici anni ed eravamo rispettivamente la femmina e il maschio più bravi della scuola media Lucio Accio di Pesaro.  

Le giovani colleghe di Carmignano  cercavano un fidanzamento santificato dai genitori e non mi piacevano quanto Marisa. Non erano fatte per me. Ero libero e  volevo rimanere tale.

Nell’autunno del ’78 però avevo smesso di procedere metodicamente per la strada degli amori mensili, innamorandomi di Ifigenia, una collega bruna bruna. Sposata invero

Ordunque, il 24 luglio del ’79, mentre ero seduto sulla panchina a ricordare, vidi passare l’aurichiomata tedesca che, se non altro per i capelli e i colori, poteva ricordarmi la Dadi della fantasticheria. La giovane donna si accorse di me, si voltò e mi salutò con un sorriso. Per un momento sentìi l’impulso, quasi il riflesso condizionato, di avvicinarmi e proporle una gita a Hortobágy oppure una cena all’Aranybika. Pensai che molto mi sarebbe stato perdonato se avessi amato molto, ricominciando con quest’altra straniera che mi aveva fatto tornare in mente la Dadi agognata undici anni prima e mi allettava assai.

 

Pesaro 24 settembre 2024 ore 9, 44 giovanni ghiselli

p. s.

Oggi è il dì dedicato a santo Terenzio, patrono di Pesaro. Da bambino frequentavo la parrocchia di San Terenzio, quella dal Duomo. Lì ho imparato tante cose. Mia mamma ha come secondo nome Terenzia.

Al pesce azzurro di Fano dove vado spesso a mangiare di giorno meritandomi il desinare con una pedalata sui colli fino al Metauro.

 In questo dì solenne fanno per noi Pesaresi, ci fanno lo sconto nel refettorio di Fano. Ci andrò anche oggi. Mangerò il pesce e porterò la pastasciutta a casa per la cena che non deve essere intera.

Altrimenti decadrei dalla mia identità di asceta- ajskhthv~-pagano e pure cristiano o meglio cristesco. Il mio Santo Giovanni Battista, l’onesto Giovanni si nutriva solo di miele e locuste: queste per prazo, quello per lo spuntino serale. Lo rappresentano sempre in gra forma. Il dì del precursore di Cristo arrivo sempre in bicicletta fino a una piccola chiesa situata in cima a una salita di cinque chilometri e piuttosto dura. Mi avvicino a petto scoperto e in costume dato che il 24 giugno di solito c’è un bellissimo caldo. Se il prete si affaccia e mi raccomanda la decenza, gli indico un’immagine del mio protettore scolpita sul frontone: l’onesto Giovanni appare a  dorso nudo con uno straccio sui fianchi. Il domine allora allarga le brsaccia e dice: quando è così, entri pure anche in chiesa. Non manco mai di accendere un paio di ceri e lasciare un’ offerta, piccola quasi  solo simbolica per non offendere il provdromo~, il precursore di Cristo e di tanti altri, quorum ego.

 

Statistiche del blog

Sempre1622595

Oggi47

Ieri275

Questo mese7293

Il mese scorso10909

 

 

    

 



[1] E’ il nome di un vino rosso ungherese “Egri bika vér”, sangue di toro di Egere.

[2] Cfr. Pindaro, Olimpica I

Nessun commento:

Posta un commento

Battaglia sul Granico 334-, Sardi, poi la costa asiatica grecizzata del mare Egeo.

“Alessandro non fu cantato da Pindaro come Ierone, Gelone e Terone, e la sua impresa non ebbe la rinomanza di quella di Ciro il Giovane cont...