giovedì 26 settembre 2024

Ifigenia CXLIX. La pioggia catartica poi la corsa.


 

Domenica 5 agosto fu una giornata piena di meditazioni pullulate da stati d’animo in contrasto tra loro. Alle 11, come al solito, non trovai la posta che aspettavo da Ifigenia. Pensai che non c’era più posto per me nel suo cuore pefido e nel suo corpo sinuoso e infernale, nonostante il telegramma. La promessa dell’espresso non era stata mantenuta. Sicché la maledissi.

Poi mi aggirai a lungo nel bosco con l’anima buia e il volto probabilmente deformato dal dolore e dall’odio, finché, verso le due, anche il cielo si rabbuiò, quindi si mise a piovere forte.

L’acqua cadeva a righe invece che a gocce. Ero tutto bagnato mentre sentivo il dolore della fine di un’epoca di gioia amorosa. Quella fase era davvero finita.

 Eppure ebbe un momento di ritorno e ripresa parecchi anni oiù tardi. Sarà la notte dell’amore postumo.

 

Breve salto nel futuro rispetto al giorno che sto raccontando. Le stesse cose ritornano ma ogni volta un poco cambiate.

Era il 31 dicembre di uno degli anni Novanta. Da tempo facevamo entrambi altre vite, vite diverse. Io avevo una relazione con una donna sposata, una collega  che per le vacanze di Natale mi aveva ricordato i divieti quasi sempre  imposti all’amante da  una maritata, pure malmaritata.

Dunque ero solo a Bologna. Nel pomeriggio sentìi squillare il telefono. Credetti che fosse la sposa infedele  andata nel garage o nel bagno per farmi gli auguri di nascosto, come era successo in altre occasioni. Quel rapporto non era equilibrato dunque: lei poteva cercarmi, io solo risponderle.

Dissi “ciao tesoro, buon anno” chiamandola per nome, invece era Ifigenia.

Mi scusai. Mi chiese se volevo vederla. “ E come no?”, feci io senza esitare. Ero molto incuriosito dalla inopinata proposta e curioso di vedere come era diventata, di sentirne le novità. Andai a prenderla e facemmo un giro sui colli. Ci fermammo sul monte Donato dove salivamo con le biciclette quando eravamo più giovani.

La scrutavo, le facevo domande, la ascoltavo con attenzione. Era parecchio ingrossata nel corpo e indebolita all’interno: parlava con qualche difficoltà, senza chiarezza. Il viso ancora attraente, però alquanto afflosciato: le guance apppesantite erano già un poco cadenti, dagli occhi era sparita l’antica luce ricca di pathos, la bocca molto dipinta era tutta slentata.  Tuttavia poi si andò a casa mia e si fece il massimo consentito a due povere creature mortali destinate alla putrefazione.

 

  Ma torniamo alla tempesta, emotiva e atmosferica, del 5 agosto del 1979.

Il vento scuoteva i rami dei salici piegati in basso e tuffati nell’acqua fluttuante del lago  agitato dal vento. Si muovevano in modo strano come i remi stregati di un vascello fantasma. L’abito letterario mi fece rammemorare Leopardi: “ dovrei essere pensoso di cessar dentro quell’acque la speme e il dolor mio?”

“Neanche per sogno-mi risposi- e non solo perché quell’acque sono poco profonde e mi farebbero restare con la bocca asciutta”

Quindi mi resi conto che la vita, tolto il dolore irragionevole della lettera mai arrivata, era varia, piena e ricca di ogni bellezza. “Ma sì, mi dicevo-se ne ha trovato un altro, uno del suo stampo, tanto meglio per lei e pure per me. Negli ultimi tempi aveva cercato di ingelosirmi, per sottomettermi. Mezzucci  da donnicciole che non ottengono il risultato sperato con un uomo della mia levatura. Io merito un amore senza sospetti, pensieri maliziosi, ignobili partite a scacchi, menzogne triviali.

Di pulizia e chiarezza ho bisogno”.

Il vento scuoteva le foglie facendomi cadere le gocce di pioggia  sulla testa che ne veniva ribattezzata. L’aria  era pulita come non la vedevo da tempo. In quell’atmosfera Ifigenia non aveva più posto.

Alcuni ragazzini passavano con le biciclette dentro grandi pozze di acqua sollevando alti spruzzi. A casa avevo la mia Colnago che mi aspettava per altre scalate e per i giri autunnali nella campagna autunnale quando il grano emerge rinato e rinnova la vita.

Allora come sempre mi sarei inginocchiato sussurrando con le lacrime agli occhi : “ecco io mi prostro o benedetti al suolo” incurante di chi passando  gridava: “Eh, che brutta sbronza già a quest’ora!”.

Un amore vecchio, cattivo e malato per una donna che non mantiene le promesse è un cancro: antiquus amor cancer est[1]. Una orribile relazione: operabile,  da operare. Mi mossi verso lo stadio per correre i 5000 metri dovuti alla mia  ritrovata salute fisica e spirituale.

La pista di terra rossa era bagnata e pesante: non pensavo di fare un buon tempo. Invece presi subito un ritmo elevato. Al posto delle gambe snelle sentivo di avere delle ali. Schivavo le pozze dove si abbeveravano i cani, saltavo quelle più piccole con vespe, calabroni e farfalle. Talora dovevo allungare il percorso scostandomi dalla corsia più interna, prossima al prato di un verde lucente. Correvo bene: procedevo con pathos e con logos, con tutta la potenza che avevo e sapevo di avere, con gioia. Il terriccio bagnato che ogni tanto mi schizzava addosso, non mi rallentava punto. Un quarto di giro oltretutto lo correvo lottando contro il vento, ma ero così forte e fiducioso in me stesso che avrei assorbito un uragano, come gli uomini dell’avvenire immaginati da József Attila: “essi saranno la mitezza e la forza”[2].

Impiegai 19 minuti e 27 secondi: il mio record fino a quel momento. Lo dedicai alle donne del mio avvenire.

 

Pesaro  26  settembre 2024 ore 9, 17 giovanni ghiselli

p. s.

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[1] Cfr. Satyricon, 42.

[2]  Ok lesznek az erő és szelídség . Gli uomini dell’avvenire.

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