giovedì 19 settembre 2024

Ifigenia LXXVI e LXXVII


 

Ifigenia LXXVI. Il sogno del prato di Sorte

 

La notte sognai. Sognai Ifigenia  in forma di falce di luna brillante ma tanto sottile che a un piccolo tocco di vento cadeva dal cielo ancora rosso su un prato di colchici viola. Quindi sopraggiungeva la notte. Sul prato si ergevano i boschi e sopra questi i pallidi monti della Valle di Fassa, quelli che mi sembravano grandi e buone figure di eroi, di santi e di sante quando ero bambino. Come ebbi visto precipitare dall’alto la strana, ibrida forma composta di membra femminili e di luna, corsi verso la zona dov’era caduta la contaminata creatura illuminando l’erba e lasciando quasi nel buio il povero cielo vedovo della sua face notturna più bella. Al suo posto era rimasta una nicchia che prefigurava i buchi neri scoperti anni più tardi.

Il prato fosforescente era quello compreso tra il cimitero di Moena e la frazione di Sorte.

Anche questo luogo preannunciava un evento: nel giugno del 1980 avrei passato una notte triste con Ifigenia nella Malga Panna di Sorte.

La ragazza lunare era tutta spezzata: le sue membra erano sparse a terra qua e là.

Le osservai a lungo con gli occhi quasi accecati dal pianto, quindi mi diedi a raccogliere i pezzi più belli che invece di sangue versavano luce. Poi cominciai a intrecciarli tra loro facendone una luminosa corona che mi posai sulla testa. Infine raccolsi dei fiori e ne feci una ghirlanda di cui mi recinsi le tempie. Superbo del duplice serto andai a specchiarmi nell’acqua di un piccolo lago sormontato da pini e rupi appuntite, simile a quello di Carezza che riflette i boschi  e le guglie del Latemar

Nel lago vedevo riflesso il mio volto incorniciato dalle lucide membra femminili e lunari, dai colchici velenosi e dalla catena montuosa. Così sovraccarico di strani orpelli, il viso assumeva un’espressione demoniaca.

Ossrrvavo l’immagine bella e ripugnante: mista di voluttuoso e di ascetico, di depravato e di santo. Il lago poi diventava la fontana antistante la facciata dell’ università di Debrecen. Intorno alla grande vasca passeggiavano le mie tre finlandesi amate da me più di ogni altra donna incontrata sulla terra durante la mia vita mortale.

A un tratto i pezzi della ragazza-luna si ricomposero nel corpo intero, perfetto di Ifigenia che con un balzo tornò nella nicchia lasciata vuota quando era precipitata dal cielo. Questo un poco alla volta si annuvolò lasciando nel buio le rocce, i boschi e il prato dove cadeva una pioggia fredda e pesante che in poco tempo disfece la ghirlanda di fiori. Infine un buio pesto mi tolse la visione del mondo.

Pensai che fosse la morte, invece mi svegliai. Dovevo pensare al significato di queste immagini oniriche numerose e diverse.

 

 

 

Ifigenia LXXVII. Contro le droghe.

 

Nell’ultimo pomeriggio della gita scolastica, a Montefiascone, ascoltai una ragazzina di una classe non mia, una che diceva di assumere droghe leggere.

Le domandai perché lo facesse.  Rispose che aveva iniziato per imitare una sua amica. Diceva che l’ammirava perché l’aveva trovata più degna di rispetto di tanti giovani che deplorano lo squallore della società però vi si adattano e combinano affari meschini. Parlava stancamente e con una tristezza che contrastava con lo scherzare  e il ridere degli altri adolescenti.

Cercai di dissuaderla dal procedere sulla via dell’autodistruzione.

Le dissi: “prova a osservare la vitalità delle gemme, dei fiori, i colori della terra e del cielo, i voli degli uccelli contenti, l’ordine dei movimenti del sole, e cerca di essere più naturale, più viva, più sana e più bella anche tu”. Mi ringraziò e promise che avrebbe cercato di emanciparsi.

 

Oggi penso che quanti si drogano lo fanno perché non trovano a casa né a scuola modelli di forza mentale, caratteriale  e di pulizia morale; viceversa la debolezza, il vuoto spirituale e la prepotenza di cui tanti adulti e ragazzi danno spettacolo osceno da diversi palcoscenici e pulpiti, contagiano gli animi dei poveri d’identità propria, la miseria più esposta al rischio della mortificazione cioè dell’indifferenza, antipatia, ostilità e in definitiva dell’odio per la vita.

 

La sera finalmente telefonai a Ifigenia dicendole che mi mancava  la sua presenza vitale e radiosa. Ne fu contenta e si rassicurò sul mio amore per lei. Fui certo a mia volta del suo per me. Rimasto solo, pensai che non mi avrebbe lasciato o tradito neppure se Giove stesso o Gesù Cristo in persona le avessero fatto la corte.  

Invece un paio di anni più tardi mi abbandonò per seguire un trombone da circo in una notte di mezza estate.

Ora so che questo è stato un bene, ma allora ne piansi al lume della luna, bianco sulla spiaggia e tremulo sul mare di Riccione.

Ogni amore finisce quando non ha più ragione di essere.

Questo si dovrebbe insegnare agli uomini che ammazzano le donne stanche di loro. Dovrebbero ringraziare chi se ne va. Lo scrivo per i miei lettori recenti, degli antichi, discenti del loro maestro  e suoi docenti,  già ognuno lo sa.

 

Pesaro 19 settembre 2024 ore 20, 26 giovanni ghiselli.

p. s

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