mercoledì 18 giugno 2025

Ifigenia CLXV Cittadella e Carmignano di Brenta. Antonia, la mia amica più cara. Intrecci di sentimenti.

Il 25 giugno andammo a Carmignano di Brenta. Volevo salutare Antonia la mia migliore amica, quindi proseguire per Moena. Intendevo presentare a Ifigenia alcune realtà molto importanti della mia vita.  Volevo che uscissimo dal nostro vivere idiotamente  cioè nella  ijdiwteiva, vita privata, chiusi nel nostro particolare fatto soprattutto, spesso perfino esclusivamente, di sesso.  

Ero andato a prenderla verso le dieci.

 Come la vidi con una valigia grande e gonfia non le domandai se avesse preso quanto sarebbe stato necessario in montagna: glielo avevo detto la sera prima e mi sembrava una segno di sfiducia e una scortesia, quasi una violenza verbale, incalzarla con le domande che si pongono alle persone delle cui capacità mentali si dubita.

Lo facevano con me le due zie più attempate che mi consideravano  intelligente- in quanto bravo a scuola- e pure deficiente siccome incapace in quasi tutto il resto.

Il fatto è che volevo vivere come pareva bene a me mentre a loro la mia vita appariva vissuta male in certe circostanze,

L’ho pagata con tanta solitudine ma ho fatto quello che mi garbava in quanto adatto a me e funzionale ai miei progressi.

 

Arrivammo a Cittadella nel primo pomeriggio. Ci fermammo per prenotare una stanza nel grosso motel dove avevo passato in solitudine i pomeriggi e le notti del venticinquesimo anno di vita, bramando e sognando una donna giovane, bella e vivace: invano.

Le scolare non erano donne, bensì bambine, e le colleghe non mi si addicevano punto siccome erano in cerca di un fidanzato da sposare per passare insieme una vita triste, orribile: senza colore.

Consideravo tale approdo un porto delle nebbie.

Allora mi confortava il ricordo bello di Helena ceca amata durante la primavera di Praga e la speranza della successiva amante a Debrecen in luglio. Avrei in effetti incontrato la prima, in ordine temporale, delle mie finlandesi, e avremmo fatto una scorpacciata di sesso, ghiotti  e famelici come ne eravamo entrambi. Fu un rapporto simpatico ma piuttosto terrestre che celeste.

L’amore celeste, figliolo di Venere Celeste, l’avrei incontrato solo nel 1971 con Helena, la finlandese augusta. Ma questo l’ho già raccontato[1].

 

Noi due compagni di viaggio dunque eravamo seduti su una panchina di ferro situata tra la strada rumorosa e il motel Palace che ci stava alle spalle alto e incombente. Oggi nemmeno lui c’è più.

Ifigenia era muta. Le domandai perché. Muta metu pensai, ricordando l’Ifigenia di Lucrezio.

“Tu per me sei l’uomo ideale, mentre io per te sono soltanto un esperimento. Non è così?”

Faceva una scena. Voleva mettermi alla prova. Stava giocando una partita a scacchi. Mi diede fastidio. Ma decisi di stare al gioco.

“Ma no, cosa dici? La nostra situazione non è ancora completa: non siamo del tutto armonizzati, ma, vedrai che ci arriveremo. L’armonia per ora invisibile è più forte di altre già visibili. E’ discordia conciliata. Del resto la sintonia più bella è proprio quella che deriva da elementi discordanti [2]”.

Parole generiche e quasi imbarazzate.

Quindi aggiunsi una terza citazione  per non mentire dicendo che lei era la donna della mia vita

Ad pulchritudinem tria requiruntur: integritas, consonantia, claritas” Tu bella sei bella, quindi i tre requisiti della bellezza eterna, dell’arte cui aspiriamo entrambi, possiamo spremerli o mungerli dalla tua persona e nutrircene”. Ero stato quasi offensivo, ora lo comprendo.

Ifigenia, cresciuta alla mia scuola, replicò con un’altra citazione: “Non basta un anno e nemmeno un biennio a mostrarci un uomo: voi siete tutti stomaci e noi tutte soltanto cibo; ci mangiate avidamente e quando siete pieni ci rigettate. Prima la mungitura poi la macellazione.

“Brava: Emilia nell’Otello di Shakespeare! Se vuoi possiamo ricordarlo in inglese”

“Lascia perdere!”, disse e fece un gesto di ripulsa.

Aveva studiato inglese a scuola ma non sapeva parlarlo; me ne accorsi il mese successivo quando sarebbe venuta a Debrecen con me e Fulvio.

Intanto sopra di noi gravava il mortorio opprimente di un cielo innaturalmente grigio. Piovigginava anche e faceva freddo.

Sicché pensavo: “ero più contento nel giugno rovente, apocalittico del 1970, quando scalavo il monte Grappa sulla mia bicicletta da solo, mangiavo e dormivo da solo, e studiavo per preparare i ragazzini di terza media all’esame finale del loro triennio.

Ma in quel tempo mi aspettavo l’amore di una donna della mia levatura. Ero un ragazzo non alto, tuttavia capace di piacere a diverse donne. Anche a me stesso. Sentivo con gioia  l’attrazione esercitata sulle femmine umane e la contraccambiavo. Diverse giovani donne mi trattavano bene, mi corteggiavano. Perciò ero felice, nonostante la solitudine della mia vita da anacoreta. Avevo il cuore pieno di attese e speranze pur nel mio eremitaggio. Almeno cinquanta amanti promettevo a me stesso. Non una di meno e non invano. Non mi lamento. Tra Bologna, Debrecen e qualche altra università ci sarebbe stato un intreccio di simpatie più o meno corrisposte.

Invece quel giorno freddo e triste Ifigenia si lamentava. E mi disturbava.

A metà pomeriggio andammo a casa di Antonia che ci accolse bene: parlò con noi e ci ascoltò amichevolmente.

Non era mai noiosa perché si prendeva a cuore le persone ed era intelligente. La suvnesi~ piena di benevolenza la autorizzava a dire anche quanto era a[rrhton, indicibile per i vezzeggiatori falsi come Giuda.

L’anno seguente, quando andai a trovarla da solo dopo che Ifigenia fu sparita cercando un ingresso nel mondo cui aspirava, disse che quella ragazza fin dal primo momento mi aveva frequentato con atteggiamento teatrale, ed era quasi sempre in posa mettendosi in mostra per farsi notare. Nel suo sguardo non si vedeva  un’anima pura e commossa, come si nota nel volto di una persona dalla buona sostanza morale. Nella relazione con me aveva voluto fare una lunga scena nella scuola dove era supplente precaria e si sentiva a disagio. Del resto durante il nostro rapporto preparava le esibizioni che sperava di ripetere sulle scene. Io avevo perduto la speranza del suo amore quando avevo capito la teatralità integrale di quel personaggio in cerca di palcoscenico.

In ogni caso la consapevolezza raggiunta aveva accresciuto le mie qualità umane concluse l’amica nel solstizio estivo dell’anno seguente.

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Bologna  18 giugno 2025 ore 15, 33 giovanni ghiselli

 

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[1] Nel romanzo Tre amori a Debrecen che si trova nella biblioteca Ginzburg di Bologna disponibile al prestito.

[2] Ho utilizzato due frammenti di Eraclito (27 Diano e 22 Diano)

Ifigenia CLXIV L’onomastico e la corsa. Tutti gli atti del destino sono collegati tra loro: confatalia.

Il 24 giugno è il giorno dell’onesto Giovanni,  il Precursore di Cristo  che di lui disse: “non surrexit inter natos mulierum maior Ioanne Baptista (N. T., Matteo, 11, 11). Il Battista  apostrofava molti tra Farisei e Sadducei con queste parole: “Progenies viperarum” (3, 7).

Ebbene tutti gli anni in questo giorno di mezza estate sento il dovere di rendere onore a tale magnifico profeta che ispirò mia madre Luisa quando ripetè risoluta, a quanti proponevano altri nomi inappropriati a suo figlio, le parole dette da Elisabetta a chi andò a circoncidere il bambino di otto giorni e voleva venisse chiamato Zaccaria come il padre di lui: “Nequaquam sed vocabitur Ioannes” ( N. T., Luca, I, 60).

In greco: “Oujciv, ajlla; klhqhvsetai  jIwavnne~

A ogni onomastico mi domando: “sono io veramente Giovanni?” Ho la grazia di Dio? Merito questo nome?

Più procedo nella vita più lo credo. Ho avuto l’aiuto divino in tutti i  campi dove ho impiegato e ancora impiego i talenti ricevuti.

Questo è il ringraziamento che ogni mio onomastico rinnovo al mio eponimo , ai miei genitori e a tutti i miei consanguinei.

 

 

La corsa del 24 giugno 1980

 

Il 24 giugno del 1980 dunque corsi i 5000 metri davanti a Ifigenia per rendere onore al mio santo, e per  farmi ammirare dalla mia unica amante non più apprezzata granché, tuttavia ancora abbastanza desiderata.

Bella era pur bella.

 

Bella era anche la serata estiva: calma, purpurea, piena di voli, come è quasi sempre il mio giorno onomastico che prende il nome dall’onesto precursore e battezzatore ed è uno dei giorni più belli dell’anno.

 

Quella sera rimossi il decadimento della mia donna.

 La rivedevo com’era nel  mese della conoscenza: il novembre del ’78 quando  mi consolava del buio precoce, del freddo, della retrocessione nella scuola e della solitudine antica, entrando in camera mia alle cinque dei pomeriggi già privi di luce, con i capelli violacei screziati di candidi fiocchi, lo sguardo lucente, l’anima aperta e fiduciosa di imparare tanto sulla propria vita, sul nostro destino mentre parlava con me prima di fare l’amore  e dopo.

Come entrava, i cristalli di ghiaccio che aveva addosso sembravano chicchi di riso lanciati da mani festose sopra la sposa giovane bella e felice. Ringiovaniva e imbelliva anche me. Mi aiutava a bonificare la palude dell’inconscio che stagnava dentro di me e si era allargata dopo la degradazione subita nel lavoro. Anche l’Es di Ifigenia andava bonificato. All’epoca leggevo Freud. Wo Es war, soll Ich werden”, dov’era l’Es deve subentrare l’Io.

Invero soltanto un anno e mezzo  da quel novembre magico la ragazza si era già sviata su una strada scoscesa. Ma quella sera di giugno feci finta che questa caduta non fosse iniziata e volai verso il traguardo dove la ragazza mi incitava, vestita di bianco, adorna sulle spalle e nel petto delle chiome brune che si arrossavano rispecchiando l’ amaranto del cielo.

 Arrivai sul traguardo in 18 minuti e 39 secondi  e pensai che lo dovevo a lei. Un giorno avrei scritto un capolavoro raccontando la nostra storia. Erano i guizzi estremi di una fiamma lontana che stava perdendo calore e luce. Non c’era verso di impedirlo. Una serie di cause arcane e concatenate ci stava portando alla fine.

Gli atti del fato sono collegati tra loro suneimarmevna li chiama Plutarco

( Peri; eiJmarmevnh~, 569 F) atti del fato collegati,  confatalia,  Cicerone icordando lo scolarca stoico Crisippo (De  fato,  30).

La conclusione di questa storia, come ogni evento era già predisposta da tante cause precedenti non solo quel giorno ma le nostre vite intere e quelle di tutti i nostri antenati: era un esito predestinato ab aeterno come quelli dei miei amori precedenti.

L’unico modo di farli vivere ancora era raccontarli con parole ornate e  ricche di immagini,

 

Bologna  18 giugno 2025 ore 11, 22 giovanni ghiselli

 

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Ifigenia CLXIII. La tappa del Giro d’Italia sullo Stelvio, la corsa e Lucia. Donne concave e donne convesse.


 

 

Dopo l’utima ora dell’ultimo giorno di scuola, dovevo andare in una pizzeria per incontrare i miei allievi e quelli di Lucia con la sua classe. Ifigenia era altrove. Non insegnava più. Puntava sul teatro.

Passeggiavo nel centro di Bologna, la città che mi aveva dato dolori grandi e pure gioie non piccole da quando ci ero arrivato da matricola, desolato, male alloggiato, carente di identità nell’ottobre del 1963.

Le strade erano rallegrate da adolescenti che festeggiavano la liberazione. Mi comunicavano la loro contentezza. La prospettiva dell’estate con il tempo libero per lo studio, l’abbronzatura e lo sport rendeva allegro anche me.  Erano finiti i consigli di classe, i collegi dei docenti e altre noie del genere.  Tempo sottratto allo studio senza alcuna contropartita. Perdita di tempo senza alcun profitto.

Quel pomeriggio il Giro d’italia avrebbe affrontato lo Stelvio: su per l’attorcigliata salita dovevano contendersi il primato Hinault e Battaglin di Marostica al quale i miei alunni della limitrofa Carmignano avevano detto che il loro professore di lettere era capace di batterlo in salita. L’atleta rispose che dovevo “almanco” provarci. Allora mi diedi ad allenarmi su per i tornanti del monte Grappa partendo da Romano di Ezzelino dove il caro Danilo mi incoraggiava con ebbro ottimismo.

La sfida non si realizzò perché Battaglin doveva fronteggiare avversari ben più degni, davvero competitivi.

Mangiata la pizza dunque,  mi stavo muovendo per andare a vedere  l’agone ciclistico trasmesso dalla televisione. Mi interessava molto perché avevo i miei tempi da confrontare con quelli dei campioni: 1 ora e 45 da Bormio al passo dello Stelvio; 1 ora e 58 da Prato alla cima della salita. Tempi non lontani da quelli di alcuni professionisti, non i più egregi  nelle salite invero. Moser, per esempio.  Ma quelli erano tutti più giovani di me e non facevano altro nella vita. Coppi, il mio idolo ciclistico, quando aveva la mia età di allora, sui trentacinque anni, diceva: “Sento che perdo potenza”.

Vinse l’ultimo giro d’itala nel 1953 a 34 anni non ancora compiuti. Avevo oramai anche io un’età decadente per un ciclista.

Salutai gli allievi e domandai se volevano venire a correre verso sera. Risposero che faceva troppo caldo per loro.

Mi venne in mente che i ragazzini di Carmignano mi apostrofavano con “marochin!” quando li facevo arrabbiare. Ero molto più scuro di tutti in effetti. Fin da bambino ho raccolto con il mio corpo i raggi del sole più che ho potuto. La mamma, che teneva molto all’aspetto, vanesia qual era, mi aveva insegnato che l’abbronzatura è la cosmesi migliore. Abbronzatura e ginnastica.

Non mi costava fatica perché il sole mi piaceva, lo amavo. E pure la bicicletta e la corsa.

Mentre andavo a recuperare la bici, mi raggiunse Lucia dicendo che lei sarebbe venuta al campo sportivo Baumann per vedermi correre. Le avevo detto di questa mia abitudine perché sapesse che ero uno studioso serio sì, ma non un umbraticus doctor.

Trattenni l’emozione e dissi: “Bene, ti aspetto verso le otto”

“Ti prego- fece lei allora- facciamo le sette: alle 8 e mezzo mi attendono casa”.

“Chissà chi è che le fa fretta” mi domandai, mentre la vana emozione si raffreddava.

Quindi citai due versi di Dante per spiazzarla:

 “Già non attendere’ io  tua dimanda

S’io m’intuassi, come tu t’immii”[1]

La ragazza si aspettava una spiegazione ma io ero troppo indispettito, sicché conclusi

“Alle sei e cinquanta sarò al Baumann” perché se ne andasse.

Temevo di non poter seguire la tappa del giro. In fondo quell’agone mi stava a cuore non meno di Lucia.

Come vedete una con il carattere come il mio fa molto bene a non cercare una moglie. Farebbe l’infelicità di entrambi. L’assoluta indipendenza si paga con la solitudine. Il giusto prezzo per un bene tanto grande.

Comunque volevo sfruttare l’occasione di rinnovamento che la graziosa collega, spesso desiderata, mi offriva. Nelle ultime ore Ifigenia mi aveva annoiato assai.

una nota.

 

Tornai a casa contento. Potevo dare un nuovo stimolo alla mia vita con un’altra collega e amante. “La mia lista deve aumentare oggi stesso” ,  pensavo pedalando scaldato dall’aria di giugno  e dal fervore interno.  Poi però mi domandai“Non impenderà sul mio capo  la spada di Damocle di nozze funeste?”

 Invece di rispondere mi diedi a cantare un duetto che ricordavo da Le nozze di Figaro:

 “Crudel! Perché finora

farmi languir così?”

 

“Signor, la donna ognora

tempo ha di dir di sì”

 

“Dunque al Baumann verrai?”

 

“Se piace a voi, verrò”

 

“E non mi mancherai?”

 

“No, non vi mancherò”

 

“Verrai?”

 

“Sì”

 

“Non mancherai?”

 

“No”

 

“Dunque verrai?”

 

“No!”

 

“No?”

 

“Se piace a voi verrò”

 

“Mi sento dal contento

pieno di gioia il cor”

 

Il cuore era contento ma il mio ceffo agitato accusava dei dubbi.

Alle 18 e 45 ero già al campo sportivo. Il sole era ancora al di sopra degli alberi posti sul lato ovest del Baumann sicché nell’attesa della bella potevo abbronzarmi. Mi tolsi la maglietta e rimasi in calzoncini e  scarpe da corsa. Quasi come Lady Chatterly che fugge inseguita da Mellors. I due sono nudi ma lei dopo essersi spogliata  si era messa di nuovo le scarpe di gomma. Non era dunque una ninfa ma una donna svestita

Io quella sera  non ero non un satiro nudo, eccitato, ma un narcisista poco vestito.

 Pensavo: “Le gambe mie sono di ossatura sottile e muscolatura potente: un fisico fatto per correre i 5000 metri, scalare lo Stelvio e amare le donne”, mi compiacqui.

Hinault quel giorno aveva stracciato Battaglin. Alle 19 e 15 la graziosa non era arrivata. “Scorretta però la  deliziosa, onestissima signorina” pensai.

“Ora corro i 5000 che devo a me stesso,  poi vado a cercare Ifigenia”. Lucia era in ritardo, dopo che mi aveva chiesto di anticipare l’ora da me  proposta.

Mi venne un dubbio:“Che sia peggiore di quell’altra? Il tempo rivelerà qual è la meno noiosa. Invero questa o quella per me pari son, se mi  danno fastidio”.

Senza indugiare, iniziai la mia gara a cronometro. Andavo  discretamente: potevo metterci meno di venti minuti: per fare metà del percorso avevo impiegato nove minuti e cinquantaquattro secondi. Dunque non dovevo mollare. Nemmeno se arrivava Lucia.

Dovrà aspettare. Se non viene c’è ancora  quell’altra oppure potrò rintracciare una tra le diverse smarrite.

Poco dopo, a meno duemila metri dalla conclusione della mia prova, Lucia arrivò. Ricordai che da militare ero arrivato secondo dietro un calciatore professionista in una gara di duemila metri appunto, ed ero entrato nella compagnia atleti del battaglione Trieste permeato ancora di un certo irredentismo.

Lucia, che forse poteva essere la mia redentrice, si era appostata sulla linea di arrivo e mi incoraggiava. Terminai in 19 minuti e 35 secondi. La ragazza mi guardava amabilmente e mi faceva i complimenti dovuti. Contraccambiavo i suoi sguardi senza parlare. Indossava una tuta nera aderentissima che le stava bene, snella e pure formosa com’era. Volle provare a correre anche lei: si stancò subito ma non la disprezzai siccome la fatica le donava:  aveva affinato il  suo viso e reso ancora più grandi gli occhi cinematografici.

Verso le otto il sole era arrivato alle cime dei pioppi che orlano il campo. Una brezza tiepida, gradevole, muoveva adagio le foglie imbevute di luce. Poteva essere l’ora del corteggiamento, preludio dell’idillio sognato, della crescita di un’unità nella mia lista durante la notte, ma quella se ne andò: si era fatto tardi per lei.

Feci un  giro in bicicletta dandomi del perfetto imbecille, poi tornai a casa. A mezzanotte telefonò Ifigenia dicendo che si era annoiata a Modena e che le ero mancato. “Meno male”, pensai.

Quell’altra è convessa e tanti saluti, ma questa è ancora concava e io non mi sottrarrò.

 

Bologna 18 giugno 2025 ore 10, 46 giovanni ghiselli

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[1] Dante, Paradiso, IX, 80- 81.

Ifigenia CLXII. La felicità degli ultimi giorni di scuola. L’eterno studente. Corse in bicicletta, battiture e vendemmie.


 

Il 31 maggio corsi i 5000 metri in 19 minuti e 49 secondi sciogliendo il voto. Poco dopo arrivammo all’ultimo giorno di scuola agognato e festeggiato sempre: fin dalla prima elementare alle Carducci di Pesaro. Anche quella mattina del giugno 1980, da eterno studente quale sono tuttora, ne ero contento. Mi venne in mente l’ultimo giorno della prima liceo nel Mamiani di Pesaro nel giugno del 1961. Erano passati diciannove anni da allora. C’era stata la lectio brevis. Più avanti mi sarei accorto che tutta la vita di noi mortali è una lezione ed è breve, per quanto longevi si possa essere. Ma da adolescente, quando teminava l’anno scolastico nel liceo classico di Pesaro ero felice senza alcun sospetto. Avevo dovuto studiare molto per ricevere la pagella più egregia con i voti più alti. Soprattutto le materie che non mi piacevano, quelle dei numeri e delle formule, dovevo studiare per prendere buoni voti anche lì.

Non volevo scendere sotto la media dell’otto che in quel tempo era eccezionale in un liceo classico statale. Nelle materie a me poco simpatiche dovevo dare la precedenza alla congerie di nozioni che potevo afferrare solo con la memoria siccome non colpivano il mio sentimento e non diventavano immagini da elaborare con il pensiero e la fantasia.  Duravo fatica a impararle. Uno studio solo mnemonico e assolutamente brutale. Carta da memoria poi da gabinetto sono le pagine se prive di idèe che fanno pensare, e vuote di sentimenti che aiutano a vivere. Ero tagliato proprio per il liceo classico com’era allora quando la materia principale, quella che faceva la selezione, era il greco come lingua, letteratura, storia politica e filosofia. Poi ero fatto per la corsa e la bicicletta. Ai primi di giugno avevo davanti tre mesi per fare le cose cui ero portato, predestinato: le lettere e le corse.

Prendevo accordi con gli amici riguardo alle nostre imprese ciclistiche. Durante l’anno scolastico il tempo concesso dallo studio a qualsiasi altra attività era poco ma qualche giro breve potevo consentirmelo, magari aggravato da indumenti pesanti che nelle salite si bagnavano di sudore, e in discesa si ghiacciavano gelandomi il sangue e incupendomi il volto con l’umore.  Senza contare che mi rimordeva assai, mi dava sensi di colpa trascurare lo studio.

Consideravo i somari svogliati altrettanti  delinquenti.

Chi non era bravo in bicicletta era solo spregevole ai miei occhi ma il somarone era un criminale vero e proprio.

Da giugno a settembre dunque  potevo pedalare seminudo su per i tornanti del San Bartolo fino a Gabicce monte o verso l’interno fino a Tavullia, Montegridolfo, Saludecio, il Tavollo, dove da bambino le zie mi portavano per le battiture del grano, l’amico grano, il fraterno grano che nasce, viene tagliato, seminato e risorge, quale immagine della vita umana. E’ sempre stato il vegetale più amato anche perché il mantenimento  nostro, a quanto capivo, derivava almeno in parte dalla vendita del grano che spettava alla nonna.

In casa mia altri amavano i fiori ma io avevo capito che con tutti i fiori della terra si resta a denti asciutti e magari non avrei potuto nemmeno andare a scuola.

Per fortuna della mia scuola alle zie Rina e Giulia importava molto sicché andavano alle battiture per contare i sacchi di grano che uscivano dalla trebbiatrice e io le aiutavo assordato dallo sferragliare di quel macchinone. Se non avessi potuto studiare, non avrei nemmeno potuto vivere. Con i fiori, figuratevi. Buoni per i morti.

Per me ci volevano centinaia e centinaia di quintali di grano, non senza dell’uva la sorella uva che allietava le colline. Anche alle vendemmie andavo tutto contento.

Nemmeno avere una bicicletta avei potuto senza tali prodotti.

La strada preferita dai nostri giri ciclistici era la panoramica del colle San Bartolo. Percorrendola tutta si poteva vedere ogni cosa come prometteva il suo nome: il mare, la costa marchigiana fino Ancona e la romagnola fino a Ravenna, i monti dell’Appennino fino alla Carpegna, e il cielo pieno di luce e di voli. Nel pedalare mi piaceva lasciare indietro gli amici e osservare la distesa marina striata di scie spumeggianti, screziata da vele multicolori, punteggiata da mosconi celesti, cinta dalla spiaggia variopinta di ombrelloni e capanni. Ogni tanto mi fermavo ad aspettare gli altri ed ero felice. Cantavo: “voglio tornare ancor  qui sul mio bel mare blu, bumbidi aidi, bumbidi aidi , bumbidi aidi bu”.

L’avevo imparata durante i campeggi degli scout  GEI da “lupetto” sulla Carpegna e al Beato Sante.

Sicch

Questo capitolo non è male. Sicché ora voglio fare dei versi di soddisfazione,  come la gallina che ha fatto l’uovo o come il gallo che l’ha fecondata.

 

  Bologna  18 giugno 2025 ore 10, 13 giovanni ghiselli

 

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Ifigenia CLXI La gara di corsa con gli allievi. Paris, Texas il film di Wim Wenders

 

Verso la metà di maggio gareggiai con alcuni allievi maschi nel campo sportivo Baumann di Bologna. Erano le sette di una bella sera dall’aria piena di profumi  e di voli. Ci togliemmo le tute, rimanemmo in calzoncini leggeri, maglie di cotone, scarpe di gomma. Facemmo un giri di riscaldamento, poi partimmo. Ero felice di avere provocato tale situazione classica nei fatti, dopo avere spiegato Pindaro che celebra gli agoni negli stadi

 dove gareggia velocità di piedi tacuta;~ podw`n ejrivzetai-

e vertici ardimentosi di forza; e il vincitore per il resto della vita loipo;n ajmfi; bivoton-ha una dolce serenità (Olimpica I, Strofe 4).

 

Nella nostra corsa c’era l’idea che la cultura deve farsi prassi e potenziare la persona non solo nella mente ma anche nel carattere e nel corpo.

Ifigenia assisteva, prendeva i tempi e mi incoraggiava ad ogni passaggio. Dovevamo percorrere i 400 metri della pista per 12 volte e mezzo: 5000 metri in tutto. Gli allievi sedicenni invero erano meno allenati di me e dopo un paio di giri cedettero tutti tranne Ferrari che aveva i muscoli e il fiato esercitati nella pallacanestro. Correva dietro di me. Mi seguiva come un’ombra. Ero partito veloce cercando di imporre subito un ritmo elevato poiché nella corsa, come nella vita, mi manca lo scatto e non posso vincere lottando negli ultimi metri con antagonisti che non vi siano giunti stremati. Devo arrivare in fondo meno disfatto degli altri. In tutte le mie attività ho più resistenza che scatto. Ho bisogno di tempi lunghi e gare lunghe. A metà del percorso dunque avevo staccato tutti eccetto il giocatore di pallacanestro dalle gambe molto più lunghe delle mie.

Questo era rimasto attaccato alla mia schiena incutendomi nervosismo e paura di essere superato negli ultimi metri:  il grido di vittoria cominciva a strozzarsi nella gola di Ifigenia. Quando mancavano cinque giri, 2000 metri,  Ifigenia che conosceva le mie tattiche e le forze di cui disponevo, mi gridò che dovevo accelerare pima che fosse tardi. Allora sentìi di essere come Odisseo o Diomede sospinto da Pallade Atena e cercai di alzare il ritmo. Mentre aumentavo la frequenza dei passi con cautela e calcoli davvero odissiaci per non restare senza forze né fiato, sentivo il respiro del rivale affrettarsi, accorciarsi, farsi rauco, scomporsi.

Ne fui incoraggiato e incrementai ancora il ritmo spremendo gran parte delle energie residue per provocare il crollo dell’avversario che  infatti cominciò a respirare con sibili mozzi, poi perse un metro, poi cinque, e infine non si sentì più per niente. Si era fermato. Come passai di nuovo davanti al traguardo, la dea mi fece un sorriso di approvazione. Glielo contraccambiai e terminai la gara senza sfiatarmi in 20 minuti e 12 secondi. Promisi a me stesso che sarei sceso sotto i 20 minuti entro maggio e sotto i 19 nello stadio di Debrecen prima di ferragosto. Nel salutarli chiesi ai ragazzi di allenarsi per sfidarmi di nuovo e cercare di battermi.

Quindi passai una bella serata di festa e di amore con Ifigenia.

 

Sere fa sono tornato a rivedere  Paris, Texas. C’era anche Wenders, il regista del 1945 che ha parlato di questo suo film del 1984.

Ho nominato Wim Wenders come uno dei miei modelli in un capitolo precedente che racconta l’estate del 1979 quando lui e io eravamo molto più giovani. Wenders era già allora un maestro, un modello per me. Un uomo ben tenuto nell’aspetto, laborioso e geniale.  

Il film in questione racconta la storia di un amore troppo bello, felice e intenso perché potesse durare a lungo. Una storia simile alle mie con Helena, Kaisa, Päivi, Ifigenia e qualche altra. Quando lo vidi la prima volta, la ferita dell’ultimo amore fallito non si era ancora cicatrizzata e rimasi molto colpito. Ieri mi sono commosso di nuovo anche vedendo nella bella vecchiaia del regista ben vissuto e ancora vivo qualche similitudine con la mia. Wenders ha sempre tanti progetti. Anche io che pure sono nato otto mesi prima di lui.

Il mio progetto giornaliero di questi tempi è rivedere le  parole scritte fino a quando i verba avranno raggiunto la bellezza universale, ontologica del Verbum poetico.

Quando sentirò di avere raggiunto questa meta sarò libero di riprendere a vivere amando persone vive, oppure di morire ritrovando i miei cari defunti: i consanguinei, le amanti, le amiche, gli amici

Saluti a tutti

 

 

Bologna 18 gennaio 2025 ore 9, 57 giovanni ghiselli

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statistiche del blog. Sono incoraggianti

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martedì 17 giugno 2025

Bellum oppure guerra barbarica con tanto di genocidio. Indignatio facit verba.


 

Non penso oggimai, dato che sono vecchio, di poter cambiare il mondo, tuttavia devo scrivere ancora contro la guerra per sgravarmi la coscienza dal peccato e dall’infamia della complicità.

In televisione si sentono pennivendoli che ricordano ancora il massacro operato dai terroristi di Hamas il 7 ottobre per giustificare i successivi massacri di persone, compresi bambini e uomini inermi, comprese bambine e donne.

La strage dei giovani israeliani è stata un crimine orrendo certamente, ma il genocidio successivo ha colpito soprattutto persone innocenti e del tutto indifese.

 Lo sterminio di Gaza continua  e da alcuni giorni è iniziata una strage che trasforma in concio anche bambini e donne di Teheran.

Una città grande quanto Roma messa a ferro e fuoco. Questa volta la guerra è santa perché gli iraniani stanno preparando armi atomiche.

Non so se sia vero, comunue obietto che armi atomiche sono già in possesso di diversi Stati e se averle è solo male, come credo, non dovrebbe averle nessuno.

Si presenta l’Iran come uno Stato indegno di questo nome data la sua arretratezza. Ricordo che la Persia ha una tradizione di civiltà millenaria e imperiale.  E’ stata sconfitta dagli Ateniesi nel V secolo a. C. in una guerra combattuta da uomini armati contro uomini armati e donne armate come  la prode Artemisia. Un bellum –duellum- cavalleresco non uno sterminio operato dai droni.

Alessandro Magno quando sconfisse il grande re Dario III e ne conquistò l’impero rispettò le sue donne, vendicò il rivale tradito dai satrapi felloni e rispettò le tradizioni persiane.

Questa di oggi non è il bellum-duellum cavalleresco che troviamo già nell’Iliade;   è piuttosto un massacro barbarico le cui vittime crescono ogni giorno.

Consiglio ai giornalisti ignoranti di leggere le Storie di Erodoto, la Ciropedia di Senofonte,  la Vita di Alessandro di Plutarco, l’Anabasi di Alessandro di Arriano, e le Historiae Alexandri Magni di Curzio Rufo e di smettere una buona volta di nausearci con chiacchiere vuote o menzognere.

 

Bologna 17 giugno 2025 ore 19, 27 giovanni ghiselli

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Ifigenia CLX La notte romana. La trasfigurazione di Raffaello Urbinate. Il ritorno.


 

Dopo la cena al tavolo con il collega e amico Giovanni, noi due ci separammo dagli altri e andammo a casa di Antonella, l’amica romana dell’estate di Päivi. Erano già passati diversi anni, senza notizie di lei dopo la notte dei saluti e delle promesse amorose. Dico di Päivi. E di molt’altre.

 Nella vita alcune cose e persone ritornano, altre spariscono inopinate e fulminèe.

A volte si pensa di “trasumanar”, in un modo o in un altro, trasformando comunque la vita impostata con questa o con quella.

Quando Päivi abortì la nostra bambina e disse: “I don’ t  want to see you” arrivai a Capo poi decisi di “significar per verba” il prosieguo della mia vita. Mai più figli né un amore per tutta la vita. Amori a perdere dunque.  Le amicizie erano state meno effimere.

 Antonella infatti era ancora un’amica. Ricordammo in particolare il bagno nel Danubio del 25 agosto 1974 e le parole che le scrissi in settembre quando rimasi solo nel collegio universitario di Yväskylä da dove la mia compagna pregnante era partita per andare lontano, oltre il circolo polare ad abortire la nostra figliola concepita a Debrecen in luglio.

Il  marito dell’amica mi sembrò un crapulone: mangiava e beveva con gusto, senza porsi problemi di linea né di salute. Quindi fumava dei lunghi sigari sempre con l’aria di chi nella vita è arrivato dove voleva.

Infatti a un certo punto mi fece: “Vedi? Didici esse felix. E tu?”

Dedidici  esse infelix. Mi basta”.

Quando fummo soli, Ifigenia disse che quell’uomo le aveva fatto venire in mente il “globo di continenti peccaminosi” incarnato da Falstaff . La citazione mi piacque. Ifigenia quando ricordava le frasi belle mi eccitava, sicché godemmo con voluttà raffinata, erudito luxu, nel talamo offertoci dagli ospiti 

Dovemmo del resto alzarci assai presto per arrivare nell’alberghetto vicino alla fontana di Trevi dove eravamo alloggiati, prima che si notasse la nostra assenza durante l’adunata mattutina. L’ottimo Giovanni ci avrebbe coperto ma non poteva farlo oltre le nove.

Dopo la colazione non priva di sorrisi, Ifigenia portò alcuni studenti a vedere Cinecittà, mentre io accompagnai un gruppo ai Musei Vaticani dove volli commentare La trasfigurazione di Raffaello Urbinate avvalendomi dell’intepretazione datane da Nietzsche.

Il fanciullo ossesso nella parte bassa del quadro raffigura il terrore del caos con la distruttiva sapienza silenica, Cristo ascendente  è Apollo che con la bellezza giustifica la vita.

Un trasumanare diverso dal mio.

La nascita della tragedia aveva inaugurato il bello  stile del mio insegnamento e da allora avevo continuato a dare grande importanza al maestro tedesco. Anche nel lavoro c’è un ritorno periodico di certi eventi significativi e capitali.

Durante il viaggio di ritorno in treno le due belle supplenti erano sedute davanti a me. Le osservavo con attenzione e le confrontavo. Ifigenia era più grande, più mora, più bella di corpo; Lucia era più fine e più luminosa nel volto. Aveva gli occhi più grandi, espressivi e capaci di luce. In quel momento mi piaceva di più. Mi sembrava più simile a me e alla mia stirpe. Ifigenia se ne accorse con sofferenza e cominciò ad agitarsi: scalpitava con le caviglie snelle e i polpacci torniti. Pensai che questa mi aveva dato comunque molto di più e doveva ricevere  più di quell’altra.

 Come la sera di Helena e Josiane quasi nove anni prima, nell’agosto del 1971[1]. Le stesse situazioni ritornano. Helena non poteva essere la donna da amare a lungo siccome già impegnata altrimenti, però il mese passato felicemente con lei mi aveva aperto la via a successivi amori, ad altre esperienze buone, a borse di studio proficue; probabilmente anche l’ amore con Ifigenia non sarebbe durato a lungo, tuttavia noi due avevamo ancora qualcosa da infonderci a vicenda: un po’ di amore carnale e magari anche spirituale per progredire ciascuno verso la propria meta. Mete comunque remote e distanti pure tra loro

 

Bologna 17  giugno 2025 ore 16, 47 giovanni ghiselli 

 

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[1] Chi tra voi lettori fosse curioso di queste storie di amori con le finlandesi può trovarle nel mio romanzo Tre amori a Debrecen. Non dovete comprarlo: si trova in prestito nella biblioteca Ginzburg di Bologna.

Teocrazia e democrazia.


 

Oggi è di moda  dare a teocrazia il significato negativo di tirannide con prepotenza e ignoranza. La paola  significa potere religioso, potere attribuito a dio - qeov~ e kravto~.

Vero è che durante la prima epoca democristiana abbiamo subito limitazioni nel pensare e nell’agire da parte di questo tipo di regime, almeno dalla fine della guerra a tutto Pio XII. Con Papa Giovanni XXIII è inziato un cambiamento in meglio.

E oggi? Non credo che il sistema odierno il quale per sussistere ha bisogno di ignoranza, di povertà anche materiale di tanti cittadini, perfino di guerre, sia migliore della teocrazia democristiana. Questa poneva dei limiti è vero ma non credo che l’illimitatezza dei crimini degli Stati più forti, l’infinità della violenza anche privata e delle menzogne, la licenza assoluta data alla prepotenza, all’ignoranza e alla falsificazione siano cose migliori della religione pur troppo limitativa di allora.

Ho criticato molto quel regime passato. Oggi per alcuni versi lo rimpiango. Aldo Moro, uomo nobile e antico, l’aveva portato al punto più alto. Perciò l’hanno ammazzato.

Bologna 17 giugno 2025 ore 11, 55

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Traduzione e commento dei versi 117-137. Sofocle Edipo a Colono. Parodo.

Edipo a Colono. Parodo vv. 117-253 Coro di anziani

 

Traduzione e commento dei versi 117-137

 

117Guarda! Chi era dunque? Dove si trova?

dove si è cacciato fuori mano il più

insaziabile -ajkorevstato~- di tutti, di tutti? 119- 120

 

Questi vecchi coreuti rappresentano la diffidenza della gente senza razza, senza identità.

Vedono nel povero, nello sconosciuto straniero una minaccia alla loro vita da gregari.

Hanno bisogno di essere dirozzati.

Per ora incarnano un aspetto dell’eterna piccola borghesia che qui in Italia ha fatto il fascismo bastonando contadini e operai incarcerando o uccidendo  chi si batteva per i proletari.

Oggi certa gente vota per un governo che nega il salario minimo a chi guadagna 5 o 6 euro all’ora.

La chiaroveggenza di Edipo cieco di occhi, non di mente, e l’umanità e la signorilità di Teseo porteranno luce a questi abitanti del borgo dalla natura rigogliosa.

Teseo il re di Atene da gran signore qual è in questa tragedia, accoglierà fraternamente Edipo il collega decaduto a mendicante.

 

Nel romanzo Resurrezione di Toltoj, la bella e nobile ex prostituta e galeotta Katiuscia individua e ammira tra i prigioneri politici i giovani di famiglia ricca  deportati perché avevano preso le parti del popolo: “aveva capito che agivano per il popolo contro i signori; e il fatto che fossero essi stessi dei signori e avessero sacrificato i loro privilegi, la libertà e la vita per il popolo faceva sì che li apprezzasse particolarmente e ne fosse entusiasta” (III, 3).

Una categoria di belle persone quali Engels, Brecht e don Lorenzo Milani.

Sentiamo Bertolt Brecht a questo proposito:

“Io son cresciuto figlio

di benestanti. I miei genitori mi hanno

messo un colletto, e mi hanno educato

nelle abitudini di chi è servito

e istruito nell’arte di dare ordini. Però

quando fui adulto e mi guardai intorno

non mi piacque la gente della mia classe,

né dare ordini né essere servito.

E io lasciai la mia classe e feci lega

Con la gente del basso ceto

(…)

La bilancia della loro giustizia

la tiro giù e mostro

i falsi pesi. E le loro spie riferiscono

che siedo con i depredati quando

tramano la rivolta

(…)

Dove giungo, sono uno marcato a fuoco

per tutti i possidenti; ma i nullatenenti

leggono il mandato di cattura e

mi concedono un rifugio. Quelli, io sento

dire allora, per cacciarti avevano

buone ragioni”[1]

 

Quindi don Milani

“Ci ho messo venticinque anni a sortire dalla classe sociale che scrive e legge L’Espresso e Il Mondo. Non mi devo far ricattare nemmeno per un sol giorno. Mi devono snobbare, dire che sono un ingenuo e un demagogo, non mi devono onorare come uno di loro, perché non sono come loro” (Michele Gesualdi, Don Lorenzo Milani, L’esilio di Barbiana, Introduzione di Tomaso Montanari, p. 7) .

Queste parole mi hanno aiutato a “giustificare” le vessazioni subite da molti nell’Istituzione scolastica.

Avevano ragione: non ero e non sono come loro.

 

 

Torniamo ai coreuti diffidenti della Parodi dell’Edipo a Colono

121Fissalo bene, vedilo con chiarezza,

informati dappertutto. Vagabondo,

un vagabondo planavta~ è il vecchio, non

vagabondo è ripetuto con spregio e paura. E’ il timore del provincialismo e del conformismo dell’abitante dei borghi. Guai a chi è differente da noi è il suo pensiero fisso, dunque: “dagli al diverso!”  

125uno del luogo oujd  j e{gcwro~: infatti non si sarebbe accostato

 

Il vecchio Edipo è sospetto in quanto a[topo~, fuori luogo, insolito.

Nel dialogo Fedro di Platone Fedro dice a Socrate : “tu o mirabile Socrate, sembri un tipo stranissimo- ajtopwvtatov~ ti~ faivnh/ (230C)  in quanto pari un forestiero condotto da una guida, non uno del luogo. Tu non esci dalla città neppure per recarti fuori le mura- exw teivcou~- 230D.

Leopardi si sente:

“quasi romito e strano

Al mio loco natio” (Il passero solitario, 23-35) che è poi il “natio borgo selvaggio” (Le ricordanze 30) di Recanati

 

 126 all'inaccessibile bosco sacro a[lso~

Invero nel bosco sacro delle Eumenidi il re dell’anticittà Tebe decaduto a farmakov~ va a riconsacrasi re benefico per gi Ateniesi.

di queste vergini invincibili

che noi temiamo -trevmomen- di nominare

i coreuti temono tanto che tremano cfr, latino tremo

e passiamo oltre

129 senza guardare, ajdevrkto~:- devrkomai è un fissare con sguardo da serpente-dravkwn

‘senza tirar fuori la voce, voce  jafwvnw~  senza parlare  ajlovgw~. L’ aj-privativo torna tre volte.

i coreuti chiudono gli occhi strozzano la voce e bloccano la lingua e la mente davanti al mistero del sacro. Questo invece può aprire la mente e il cuore oltre l’ambito ristretto del razionale.      

131muovendo la bocca della mente che serba religioso silenzio eujfavmou.

Nella Parodo delle Baccanti di Euripide  il coro canta “stovma t  j eufhmon a[pa~ ejxosiouvsqw”. 70,

e ognuno consacri la bocca che serba religioso silenzio. In latino è favete linguis.

 Ma ora si dice che è giunto uno

che non ha nessun sacro timore oujde;n a{zonq j.

Nella Parodo dell’Edipo re i vecchi tebani pregano Apollo con sacro timore:

“intorno a te con sacro timore-ajzovmeno~- domando che cosa, o di nuovo

o con il volgere delle stagioni un'altra volta

effettuerai per me” (155- 157) .

135 un tale che io pur osservando per tutto il recinto

non posso ancora sapere

dove mai si trovi.

Il vagabondo si occulta, rimane latente e questo nascondersi  dello straniero accresce la diffidenza e il sospetto nei suoi confronti

Bologna 17 giugno 2025 ore 11, 32 giovanni ghiselli

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[1] Scacciato per buone ragioni in Poesie di Svendborg del 1939.