.
Ogni persona deve assecondare la parte
migliore del proprio carattere. Seneca. Cicerone. Dostoevskij. Sofocle e Fromm.
Nietzsche. Wilde. La parabola di Kafka con il paraklausivquron anomalo.
Lucio di Apuleio: redde me meo Lucio.
Ortega:
l’infelicità è lo squilibrio tra il nostro essere in potenza e il nostro essere
in atto. Hesse, Márquez. Prendere le
distanze anche dai genitori: Il Vangelo
di Giovanni e quello di Matteo. il Doctor
Faustus di T. Mann (in nota). Stazio: Achille dice alla madre: “paruimus nimium!”. Di nuovo Fromm. Diventare
se stessi prima di morire. L’Adriano della Yourcenar. Màrai. Orwell. Céline. Guido Croci. Pindaro: “diventa quello che sei”.
Nietzsche: Amor fati, das ist meine innerste Natur. Eraclito. Döblin. Menandro:
che cosa gradevole (cariven) è l’uomo,
quando è uomo davvero! Vernant: l’uomo cessa di essere un’entità gradevole quando
non assomiglia (ajeikhv~) a se
stesso.
Dopo
tante considerazioni sui tovpoi, mi sento in dovere di mettere in guardia i giovani
contro i luoghi comuni, letterari e non, se essi non accrescono la vita. Autorizzo questa mia
conclusione attraverso Seneca:"nulla res nos maioribus malis implicat quam
quod ad rumorem componimur " (De
vita beata , 1, 3), nessuna cosa ci avviluppa in mali maggiori del fatto di
regolarci secondo il "si dice".
Sentiamo ancora Seneca che traduce Epicuro: “si ad naturam vives, numquam eris pauper; si
ad opiniones, numquam eris dives” (ep.
16, 7), se vivrai secondo la natura, non sarai mai povero, se secondo i luoghi
comuni, non sarai mai ricco.
Sentiamo anche O.
Wilde: “La morale moderna consiste nell’accettare i luoghi comuni della
nostra epoca, ed io credo che per un
uomo colto l’accettare i luoghi comuni della propria epoca sia la più rozza
forma di immoralità”.
Questi che presnto sono tovpoi
assai nobili, di vario genere, e tra essi è possibile fare delle scelte,
cercando sempre di vivere "ad rationem ", ragionando,
piuttosto che "ad similitudinem
" imitando. Nel ragionamento deve entrare la considerazione del carattere
di ogni individuo, del proprio innanzitutto. Quindi non possiamo ignorare che
ogni persona ha un suo genio e che nessuno può riuscire bene se agisce in
contrasto con il proprio demone:"nihil decet invita Minerva, ut aiunt,
id est adversante et repugnante natura", nulla si addice contro il volere di Minerva, come
dicono, cioè con l'opposizione e la riluttanza della natura. Quindi ciascun
giovane dovrebbe essere aiutato a trovare e valorizzare la propria natura
originale:"id enim maxime quemque decet, quod est cuiusque maxime suum", a ciascuno infatti soprattutto si addice quello che
è soprattutto suo.
“Ma ecco, non bisogna essere come gli altri”.
suggerisce Alioscia Karamazov allo
studente Kolia. “Continuate,
dunque, a essere diverso dagli altri;
anche se doveste rimanere solo, continuate lo stesso”.
L'uomo formato sui classici non può accontentarsi di un'identità gregaria.
Facciamo un esempio: Creonte
domanda ad Antigone:"E tu non
ti vergogni se la pensi in maniera diversa da questi?", e la ragazza
risponde: “No perché non è per niente vergognoso onorare quelli nati dalle
stesse viscere”.
La propaganda di ogni tirannide tende a
inculcare la necessità del conformismo. Creonte sa che i più sono capaci
soltanto di un'identità gregaria basata su un sentimento di appartenenza alla
massa. Ma la figlia di Edipo è di altra stoffa, e, ben lontana dal vergognarsi,
è fiera della propria diversità. Per lei anzi è inconcepibile che ci sia gente
pronta "a rinunciare alla libertà, a far sacrificio del proprio pensiero,
per essere uno del gregge, per conformarsi e ottenere così un sentimento di
identità, benché illusorio".
"Della
nostra esistenza dobbiamo rispondere a noi stessi, di conseguenza vogliamo
agire come i reali timonieri di essa e non permettere che assomigli ad una
casualità priva di pensiero…E' così provinciale obbligarsi a delle opinioni
che, qualche centinaio di metri più in là già cessano di obbligare…Al mondo vi
è un'unica via che nessuno oltre a te può fare: dove porta? Non domandare,
seguila".
“Quanto poi alla vita rovinata, credetemi, una vita è
rovinata in quanto ne è arrestato lo sviluppo”.
“Il gregge avverte l’eccezione, tanto al di sopra di
sé quanto al di sotto di sé, come qualcosa che ha per esso riflessi ostili e
dannosi…La diffidenza è rivolta contro le eccezioni; essere eccezione è
ritenuto una colpa”.
Essere se stessi dunque è difficile, persino
pericoloso, ma non diventare quello che si è significa non vivere la propria
vita, bensì quella degli altri: “Nihil
ergo magis praestandum est quam ne pecorum ritu sequamur antecedentium gregem,
pergentes non quo eundum est sed quo itur”, niente allora dobbiamo fare con cura maggiore che
evitare di seguire il gregge di coloro i quali ci stanno davanti, alla maniera
delle bestie, dirigendoci non dove dobbiamo andare ma dove si va.
Nel Processo di Kafka
c’è una parabola con un paraklausivquron anomalo, quasi rovesciato: si
tratta infatti di un'attesa ansiosa e
querula davanti a una porta aperta, quella della legge, aperta proprio per
colui che attende ma non ha il coraggio
di entrare.
E' la parabola che
il cappellano delle carceri racconta a
K. nel Duomo :"Davanti alla legge
c'è un guardiano. A lui viene un uomo di campagna e chiede di entrare nella
legge. Ma il guardiano dice che ora non gli può concedere di entrare.
L'uomo riflette e chiede se almeno potrà entrare più tardi. "Può
darsi" risponde il guardiano, "ma per ora no". Siccome la porta
che conduce alla legge è aperta come sempre e il custode si fa da parte, l'uomo
si china per dare un'occhiata, dalla porta, nell'interno. Quando se ne accorge,
il guardiano si mette a ridere:"Se ne hai tanta voglia, prova pure a
entrare nonostante la mia proibizione. Bada, però: io sono potente, e sono
soltanto l'infimo dei guardiani. Davanti a ogni sala sta un guardiano, uno più
potente dell'altro. Già la vista del terzo non riesco a sopportarla nemmeno
io". L'uomo di campagna non aspettava tali difficoltà; la legge, pensa,
dovrebbe pur essere accessibile a tutti e sempre, ma a guardar bene il
guardiano avvolto nel cappotto di pelliccia, il suo lungo naso a punta, la
lunga barba tartara, nera e rada, decide di attendere piuttosto finché non
abbia ottenuto il permesso di entrare. Il guardiano gli dà uno sgabello e lo fa
sedere di fianco alla porta. Là rimane seduto per giorni e anni. Fa numerosi
tentativi per passare e stanca il guardiano con le sue richieste. Il guardiano
istituisce più volte brevi interrogatori, gli chiede notizie della sua patria e
di molte altre cose, ma sono domande prive di interesse come le fanno i gran
signori, e alla fine gli ripete sempre
che non può farlo entrare. L'uomo, che per il viaggio si è provveduto di
molte cose, dà fondo a tutto per quanto prezioso sia, tentando di corrompere il
guardiano. Questi accetta ogni cosa, ma osserva:"Lo accetto soltanto
perché tu non creda di aver trascurato qualcosa". Durante tutti quegli
anni l'uomo osserva il guardiano quasi senza interruzione. Dimentica gli altri
guardiani e solo il primo gli sembra l'unico ostacolo all'ingresso nella legge.
Egli maledice il caso disgraziato, nei primi anni ad alta voce, poi quando
invecchia si limita a brontolare tra sé. Rimbambisce e, siccome studiando per anni il guardiano, conosce
ormai anche le pulci nel suo bavero di
pelliccia, implora anche queste di
aiutarlo e di far cambiare opinione al guardiano. Infine il lume degli
occhi gli si indebolisce ed egli non sa se veramente fa più buio intorno a lui
o se soltanto gli occhi lo ingannano. Ma ancora distingue nell'oscurità uno
splendore che erompe inestinguibile dalla porta della legge. Ormai non vive più
a lungo. Prima di morire, tutte le esperienze di quel tempo si condensano nella
sua testa in una domanda che finora non ha rivolto al guardiano. Gli fa un
cenno poiché non può più ergere il corpo che si sta irrigidendo. Il guardiano è
costretto a piegarsi profondamente verso di lui, poiché la differenza di statura
è mutata molto a sfavore dell'uomo di campagna. "Che cosa vuoi sapere
ancora?" chiede il guardiano, "sei insaziabile". L'uomo
risponde:"Tutti tendono verso la
legge, come mai in tutti questi anni nessun altro ha chiesto di entrare?".
Il guardiano si rende conto che l'uomo è giunto alla fine e per farsi intendere
ancora da quelle orecchie che stanno per diventare insensibili, grida:"Nessun altro poteva entrare qui perché
questo ingresso era destinato soltanto a te. Ora vado a chiuderlo".
"Nella natura
nessuna creatura è più squallida e ripugnante dell'uomo che è sfuggito al suo
genio e adesso sbircia a destra e a sinistra, indietro e ovunque. Alla fine non
è più lecito attaccare un tal uomo, perché egli è tutto esteriorità senza
nocciolo, una veste logora, tinta, rigonfia, uno spettro agghindato, che non
può suscitare paura e certo neppure compassione".
Cfr. il mito di Er in 16. 8.
Nell’ultimo libro dell’Asino d’oro di Apuleio,
Lucio prega la Regina del cielo, la luna che gli è apparsa con uno straordinario
splendore sulla riva del mare, vicino a Corinto, e le chiede la fine delle
fatiche e dei pericolo corsi nella sua vita asinina, una vita senza Iside: “sit satis laborum, sit satis periculorum”.
Quindi la prega di restituirlo alla forma umana, ai suoi affetti e, dopo tutto
a se stesso, al Lucio che è:” Depelle
quadripedis diram faciem, redde me conspectui meorum, redde me meo Lucio” (XI, 2), stacca da me l’orribile aspetto di
quadrupede, rendimi alla vista dei miei, rendimi
al Lucio che sono.
"Qui, proprio qui, sta l'origine
dell'infelicità…Avvertiamo allora lo squilibrio tra il nostro essere in potenza
e il nostro essere in atto. E questa, questa è l'infelicità".
"Molti provavano, per un istante, una penosa
tristezza perché tra la loro vita e i loro istinti c'era un tale dissidio, un
tal conflitto che la loro vita non era affatto una danza, bensì un faticoso e
affannato respirare sotto i pesi: pesi che in fin dei conti essi stessi si
erano accollati".
"Di tutte le offese, quelle arrecate alla mia
vocazione-quando ho mancato di rispondere con passione all'immagine del
cuore-sono le più dolorose. Con i suoi attacchi implacabili, la contrizione
denuncia le insufficienze del cuore".
"Florentino Ariza…l'aveva convinta che uno viene
al mondo con le sue polveri contate, e quelle che non vengono usate per
qualsiasi motivo, proprio o estraneo, si perdono per sempre".
Per diventare se stessi è necessario prendere le
distanze anche dai genitori: lo insegna il Vangelo di Giovanni nel quale il
Cristo dice alla madre: " tiv ejmoi; kai; soiv, guvnai;
-Quid mihi et tibi mulier? "
(2, 4), che cosa ho da fare con te, donna?
Ancora più esplicito è il Cristo nel Vangelo di Matteo: “non veni pacem mittere sed gladium. Veni
enim separare
Hominem adversus patrem suum
Et filiam adversus matrem suam” (10, 34-35), non sono venuto a
portare pace ma una spada. Sono venuto infatti a separare l’uomo dal padre suo
e la figlia dalla madre.
Nell’Achilleide di Stazio il giovanissimo Pelide deve ribellarsi alla madre, che ne
aveva fatto un travestito, per recarsi alla guerra di Troia: “Paruimus, genetrix, quamquam haud toleranda
iuberes,/paruimus nimium: bella ad Troiana ratesque/Argolicas quaesitus eo”
(II, 17-19), ho obbedito, madre, sebbene tu ordinassi cose non tollerabili, ti
ho obbedito troppo: vado alla guerra di Troia sulle navi dei Greci che mi hanno
cercato.
Si ricordi quanto afferma Esiodo dei bambini ritardati,
potenzialmente violenti, che vivevano fino a cento anni con la madre.
Sentiamo di nuovo Fromm: " Rimanendo legato alla
natura, alla madre o al padre, l'uomo riesce quindi a sentirsi a suo agio nel
mondo, ma, per la sua sicurezza, paga un prezzo altissimo, quello della
sottomissione e della dipendenza, nonché il blocco del pieno sviluppo della sua
ragione e della sua capacità di amare. Egli resta un fanciullo mentre vorrebbe
diventare un adulto".
"La capacità d'amare
dipende dalla propria capacità di emergere dal narcisismo e dall'attaccamento
incestuoso per la propria madre e il proprio clan; dipende dalla propria
capacità di crescere, di sviluppare un orientamento produttivo nei rapporti col
mondo e se stessi".
"E' forse questo che si cerca attraverso la vita,
null'altro che quello, la più grande sofferenza possibile per diventare se
stessi prima di morire".
Per questo l'Adriano della Yourcenar ha conquistato il potere sul
mondo:"Volevo il potere. Lo
volevo per imporre i miei piani, per tentare i miei rimedi, per instaurare la
pace. Lo volevo soprattutto per essere
interamente me stesso, prima di morire…Ho compreso che ben pochi realizzano
se stessi prima di morire: e ho giudicato con maggior pietà le loro opere
interrotte. Quell'ossessione di una vita mancata concentrava i miei pensieri su
di un punto, li fissava come un ascesso".
Altrettanto l’imperatore
Giuliano nella commedia di Ibsen: “E
che cos’è la felicità se non il vivere in conformità a se stesso? L’aquila
chiede forse delle penne d’oro? Il leone ambisce avere artigli d’argento? O
forse il melograno desidera che i suoi chicchi siano altrettante pietre
preziose?”.
Diventare quello che si
è costituisce una forma particolare di virtù: “esiste una virtù particolare,
che altro non è se non la fedeltà assoluta alla nostra natura, al nostro
destino e alle nostre inclinazioni”.
“Ed ecco apparire la cosa più sorprendente del
dramma vitale: l’uomo possiede un ampio margine di libertà rispetto al suo io o
destino. Può rifiutarsi di realizzarlo, può essere infedele a se stesso. In
questo caso la sua vita è priva di autenticità…il nostro io è la nostra vocazione. Ebbene, possiamo essere più o
meno fedeli alla nostra vocazione e di conseguenza la nostra vita può essere
più o meno autentica…La cosa di maggior interesse non è la lotta dell’uomo con
il mondo, con il suo destino esterno, ma la lotta dell’uomo con la sua
vocazione. Come si comporta davanti alla sua inesorabile vocazione? Si attiene
radicalmente ad essa, oppure, al contrario, la diserta e riempie la sua
esistenza con un surrogato di ciò che sarebbe la sua autentica vita? Forse l’aspetto più tragico della
condizione umana è che l’uomo può cercare di soppiantare se stesso, cioè di falsificare la sua vita”.
“Lo scopo
della vita è lo sviluppo del proprio io. Il completo sviluppo di se stessi-ecco
la ragion d’essere di ognuno di noi. Gli uomini oggi hanno paura di se stessi”.
Insomma, ripeto con Pindaro:
“gevnoio oi|o~ ejssiv”
(Pitica II v. 72), diventa quello
che sei.
Aggiungo una variante,
considerando che cercare la propria realizzazione significa amare il
compimento, la perfezione del proprio destino, il quale, per stravagante che
sia, è una piccola parte del fato universale: “amor fati è la mia intima natura” , das ist
meine innerste Natur.
Del resto ogni persona secondo Nietzsche coincide
con il suo destino: "Il fatalismo turco contiene
l'errore fondamentale di contrapporre fra loro l'uomo e il fato come due cose
separate…In verità ogni uomo è egli stesso una parte di fato…Tu stesso, povero
uomo pauroso, sei la Moira incoercibile che troneggia anche sugli dèi". Cfr. h\qo~ ajnqrwvpw/ daivmwn di Eraclito.
E' tanto
tipicamente ellenico questo "amore del fato" che nel romanzo
espressionista Berlin Alexanderplatz di
Alfred Döblin leggiamo:" Non si deve fare il grande con la propria
sorte. Io sono nemico del fato. Non sono greco io; sono berlinese".
Possiamo concludere il capitolo con questo frammento di Menandro: "wJ" cariven e[st j a[nqrwpo", a]n a[nqrwpo" h/\” (fr. 484 Kö) "che cosa gradevole è l'uomo quando è uomo
davvero!".
Quando è
che l’uomo smette di essere una cosa gradevole? Quando non assomiglia a se
stesso. Sconcio, scoveniente in greco si dice ajeikhv~, ossia non eijkov~, oggetto neutro non somigliante, non
somigliante a se stesso.
"Quando
è privo di ogni charis , l'essere
umano non assomiglia più a nulla: è aeikelios
. Quando ne risplende, è simile agli dei, theoisi
eoikei . La somiglianza con se stessi, che costituisce l'identità di
ciascuno e si manifesta nell'apparenza che ognuno ha agli occhi di tutti, non è
dunque presso i mortali una costante, fissata una volta per tutte….Oltraggiare-cioè
imbruttire e disonorare a un tempo-si dice aeikizein
, rendere aeikes o aeikelios
, non simile".
Il potere
incentiva questa deformità che è la difformità della persona da se stessa: “Su
che cosa, in fondo, si basa la repressione? Sul falso concetto che l’individuo
ha di se stesso, e quindi sul falso concetto che si fa dei propri desideri:
della propria libido, dei propri bisogni erotici, dell’amore che gli potrebbe
spettare di diritto. La società sfrutta questo misconoscimento di sé, e si
adopera con efficacia a confermare l’individuo in questa sua sbagliata
concezione dell’amore”. E di se stesso.
Bologna 3
gennaio 2024 ore 11, 41 giovanni ghiselli
p. s.
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Questo mese804
Il mese scorso10218
F. Dostoevskij, I
fratelli Karamazov, p. 668. Ho
citato questo romanzo almeno dieci volte, tante quante l’Odissea, o quasi. Mi conforta in questa scelta l’amico Piero
Boitani: “Per il mio compleanno, sul finire di quell’anno 1’anno 1968…mi feci
regalare da una coppia di amici l’Odissea
greca nell’edizione oxoniense dell’Allen: la conservo ancora, naturalmente, con
il loro biglietto di auguri per segnalibro. Da allora, e per almeno dieci anni,
ho riletto il poema, nell’originale e in traduzione italiana o inglese, ogni
anno: insieme ai Fratelli Karamazov,
era il mio libro-e lo è rimasto” (P. Boitani, L’ombra di Ulisse, p. 45).
T. Mann commenta queste parole, da par suo, nel Doctor Faustus:"In fondo, per una madre, il volo di Icaro del figlio
eroe, la sublime avventura virile dell'uomo che non è più sotto la sua
protezione è un'aberrazione tanto colpevole quanto incomprensibile, donde ella
sente risuonare, con segreta mortificazione, le parole lontane e severe:
"Donna, io non ti conosco". E così ella riprende nel suo grembo la
povera, cara creatura caduta e annientata, tutto perdonando e pensando che
questa avrebbe fatto meglio a non staccarsene mai" (p.691).
Fr. 91 Diano, il carattere è il destino dell’uomo).