NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

Ciclo di incontri alla biblioteca «Ginzburg». Protagonisti della storia antica

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domenica 30 novembre 2014

Twitter, LXX antologia

30 novembre

Sul vaccino mortale


Chi lucra sul vaccino letale, mente sulle morti provocate da quelle misture. Ma da tempo la natura ha condannato a morte anche loro, gli speculatori, i cambiavalute dei corpi.

La difesa ufficiale del vaccino che ammazza i deboli è segno della sconfinata intimità e complicità tra potere e crimine organizzato.

I cambiavalute dei corpi negano l'evidenza.
 Costoro sono le iene dei terremoti, gli sciacalli delle influenze, i programmatori e profittatori delle crisi che li arricchisce e impoverisce il popolo.

Si vaccinano i vecchi indeboliti, generalmente pensionati, o altri sovvenzionati, per la loro debolezza, da quello che resta dallo stato sociale. La loro morte è un risparmio di denaro.
Dunque si deve  dire che il vaccino salva le vite, anche se è evidente che può uccidere, che uccide. Non c’è invece alcuna prova che quel presunto farmaco protegga dall’influenza, che sia più efficace di un’aspirina. Non possiamo sapere infatti che cosa sarebbe successo  a quanti lo prendono, e non sono morti,  se non l’avessero preso.
 Sappiamo invece per certo che almeno dieci persone che l’hanno preso sono morte. Più che un antidoto all’influenza è un antidoto alla sopravvivenza. Eppure c’è chi ha la spudoratezza di continuare dire che   le vaccinazioni contro l’influenza devono continuare. Come la guerra e gli altri crimini che dovrebbero essere banditi quali tabù. C’è solo da sperare non le rendano obbligatorie.


giovanni ghiselli


Il blog è arrivato a 196575. State realizzando il mio auspicio dei duecentomila contatti entro questo Natale, quando i preziosi minuti di luce saranno già aumentati, seppure di poco. E’ comunque una rinascita. 

venerdì 28 novembre 2014

L’aiuto ricevuto da giovani donne buone. Il sadico di Debrecen. Debrecen 1966, IX capitolo

De Sade

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Debrecen 66
IX capitolo

L’aiuto ricevuto da giovani donne buone. Il sadico di Debrecen


Verso la fine del corso, una delle ragazze italiane mi ascoltò mentre mi lamentavo dell’ aspetto anzitempo senile, “privo di ogni cavriς”[1], dicevo, e, rincarando la dose, aggiungevo, con tetragggine integrale,  che ero “oltraggiato, sconciato e sfigurato dal dolore, oramai disumanizzato quasi del tutto”.
Forse esageravo ma in ogni caso sentivo la colpa e la pena di avere perduto quella parte  di bellezza, di finezza e di fascino che apparteneva alla mia stirpe e alla mia identità. Avevo smarrito la somiglianza con le figure belle e fini di casa mia e perfino il somigliare a me stesso. Ero orrendamente dissimile da mia madre, dalle mie zie, dalla sorella mia, dal nonno, da come ero stato da bambino e da adolescente. Grasso ero, foruncoloso, malvestito, poco lavato. Insomma sconciato. Da studioso e sportivo ero diventato un transito di cibo, un filtro di varie bevande  
La giovane mi rispose che se volevo rendermi più accettabile, magari forse, anche, perché no, alquanto piacevole un giorno non troppo lontano, dovevo dimagrire, mettermi le lenti a contatto, lavarmi i capelli più spesso, vestirmi meglio, valorizzarmi insomma come faceva lei e gli altri giovani. Consiglio davvero prezioso e dettato dalla benevolenza, poiché non è vero che le donne ci sono per natura nemiche come mi aveva insegnato il poeta suicida[2], casomai siamo noi a renderle tali, comportandoci come se lo fossero: non habemus illas hostes sed facimus, pensai quel giorno ricordando Seneca[3].
Quella brava persona che aveva quasi trent’anni e già insegnava, per cui doveva sentirsi quasi una mamma con me, concluse il suo tentativo di salvarmi dal naufragio della disperazione dicendo che a dimagrire e a sostituire gli occhiali funerei dovevo pensarci da solo, con calma e con il tempo, però ai capelli arruffati e luridi per mesi o anni di incuria poteva cercare di porre un rimedio lei con l’aiuto delle sue contubernali. Si erano già sistemate le chiome a vicenda non senza risultati discreti, diceva, siccome una di loro aveva fatto la parrucchiera per qualche tempo. Pensai che per migliorare me, mal messo com’ero, non c’era bisogno di chissà quale perizia. Tuttavia temevo il ridicolo, l’umiliazione, le beffe  delle quali mi avevano reso timoroso e sospettoso i malvagi che me le avevano inflitte più volte. Cerco di trarre universalia a particularibus, sapendo che questo mio dolore antico può essere l’eco di innumerevoli dolori sofferti da tanti altri giovani antichi e recenti. Un pianto che viene dal fondo dei secoli e non è ancora finito. Voglio insegnare a questi ragazzi sensibili come si può reagire per non venire schiacciati come gli scarafaggi.
La visione dell’infelicità attira la malvagità dei sadici, il loro bisogno di umiliare. 
Quattro giovani donne italiane dunque si affaccendarono intorno alla mia testa, me la lavarono e  mi tagliarono troppi capelli e li tagliarono male. Insomma dopo l’operazione non ero men brutto. Ricostruisco i retroscena attraverso il racconto che me ne fece una di loro anni dopo, quando andai a insegnare nel Veneto ed entrammo in confidenza totale nel mio appartamentino fighetto di piazza Garibaldi di Padova. Allora, nel 1972, dopo le due Elene, potevo ridere di quell’episodio come se fosse capitato a un’altra persona. Compiuta la tosatura canina dunque, le quattro  tonsores si accorsero di avere sortito l’effetto opposto a quello desiderato  e promesso a un infelice. Eppure mi avevano fatto comunque del bene poiché mi avevano aiutato a capire che il mio aspetto dopo diverse modifiche poteva pure interessare. Un piccolo interessamento una breve attenzione è un dono grande per un disgraziato.
Comunque dopo il taglio riuscito male si misero d’accordo e passarono la voce: tutte le italiane dell’Università estiva di Debrecen mi avrebbero detto senza ironia che stavo meglio di prima. Io a dire il vero ne dubitai, ma ero grato alle buone intenzioni di quelle ragazze buone.
Ogni dubbio cadde quando un sadico teso a umiliare mi disse: “ti rendi conto di quanto sei ridicolo?”.
“ La cosa più segretamente temuta accade sempre”[4], pensai, ma trovai la forza di  rispondere: “Può essere. In ogni caso, quando mi saranno ricresciuti i capelli, io non farò più ridere nessuno, tu invece sei caduto cadrai e ricadrai nel ridicolo  in saecula saeculorum”.    

giovanni ghiselli

il blog è arrivato a 196334


[1] Grazia, bellezza, fascino.
[2] Cesare. Pavese"Sono un popolo nemico, le donne, come il popolo tedesco" Il mestiere di vivere , 9 settembre 1946.
"Sono tuo amante, perciò tuo nemico". Pavese, Il mestiere di vivere , 18 novembre 1945
[3] Cfr. Ep. 47, 5 : “non habemus illos hostes ed facimus”, non li abbiamo come nemici ma li rendiamo tali. Il maestro di Nerone si riferisce agli schiavi. In fondo, all’epoca si vedevano donne schiavizzate in molte situazioni. Non a casa mia del resto.
[4] Ancora Il mestiere di vivere di Pavese, 18 agosto 1950. E’ il primo pensiero dell’ultimo giorno 

Commento di alcune parti del discorso tenuto da Papa Francesco al parlamento europeo di Strasburgo il 25 novembre 2014

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Cercherò di trovare analogie e differenze tra i punti cruciali dell’allocuzione del Papa e alcuni topoi presenti nei miei autori classici.

Sua santità Francesco ha detto che l’Europa è “alquanto invecchiata e compressa”.
Il tema dell’invecchiamento di una civiltà e della terra sulla quale essa è nata ricorre nella letteratura antica.
La causa di tale senescenza è spesso individuata nell’empietà e nell’immoralità degli uomini.
Nell'Antigone di Sofocle, Tebe è malata[1]: la città che è di tutto il popolo è sottoposta a un morbo violento[2] per l'empietà del tiranno accusato dal vate Tiresia di amare i turpi guadagni (v.1056) e di infliggere violenza ai concittadini (v. 1073).
Nell' Edipo re lo spengersi degli oracoli procede parallelamente al declinare della polis e il Coro depreca la miscredenza nei confronti dei responsi, in particolare dei vaticini delfini :"infatti già estirpano/gli antichi vaticini di Laio consunti/e in nessun luogo Apollo/risplende per gli onori/e tramonta il divino (e[rrei de; ta; qei'a) " ,vv. 907-910.
 Sofocle insomma fa dipendere dalla dussevbeia (empietà) la decadenza della vita umana fino alla sterilità delle donne e perfino a quella della terra e degli animali.
Leggiamo come il sacerdote nel prologo della tragedia descrive il flagello a Edipo:"la città infatti, come anche tu stesso vedi, troppo/già fluttua e di sollevare il capo /dai gorghi del vortice insanguinato non è più capace/e si consuma nei calici infruttuosi della terra,/si consuma nelle mandrie dei buoi al pascolo, e nei parti/senza figli delle donne; e intanto, il dio portatore di fuoco,/scagliatosi, si avventa sulla città, peste odiosissima,/dalla quale è vuotata la casa di Cadmo, e il nero/Ades si arricchisce di gemiti e lamenti" (Edipo re, vv. 22-30).

Empietà secondo Sofocle è la noncuranza degli oracoli e l'abbandono dei riti tradizionali.
  Isocrate nell'Areopagitico (del 356) condanna più in generale lo sconvolgimento delle tradizioni antiche:" ejnovmizon ei\nai th;n eujsevbeian (...) ejn tw''/ mhde;n kinei'n w|n aujtoi'" oiJ provgonoi parevdosan" (30), ritenevano che la devozione stesse nel non cambiare niente di quello che gli antenati avevano loro tramandato.
Su un'analoga linea di tradizionalismo si trova Sallustio il quale lamenta la decadenza della virtus in seguito alla troppo alta considerazione del denaro:"Operae pretium est (…) visere templa deorum quae nostri maiores religiosissumi mortales fecere. Verum illi delubra deorum pietate, domos suas gloria decorabant (Cat.  12), vale la pena di visitare i templi degli dèi che i nostri antenati, uomini religiosissimi, avevano costruito. In effetti quelli ornavano i santuari degli dèi con la devozione, le case con la gloria.

 Gli dèi sono offesi dal venire meno della pietas, dalla immoralità, dall'irreligiosità, dall'idolatria degli uomini adoratori del denaro.
Sentiamo Petronio che “dipinge in una lingua da orafo i vizi d'una civiltà decrepita, d'un impero che si va sfasciando[3]” :"ego puto omnia illa a diibus fieri. nemo enim caelum caelum putat, nemo ieiunium servat, nemo Iovem pili facit, sed omnes opertis oculis bona sua computant. antea stolatae ibant nudis pedibus in clivum, passis capillis, mentibus puris, et Iovem aquam exorabant. itaque statim urceatim plovebat: aut tunc aut numquam: et omnes redibant udi tamquam mures. itaque dii pedes lanatos habent, quia nos religiosi non sumus, agri iacent…" (Satyricon, 44, 17-18), io credo che tutto questo derivi dagli dèi. Nessuno infatti considera il cielo cielo, nessuno rispetta il digiuno, nessuno stima un pelo Giove, ma tutti a occhi chiusi fanno il conto dei loro possessi. Prima le matrone in stola salivano a piedi nudi sul colle del Campidoglio, con i capelli sciolti, i cuori puri, e supplicavano Giove per l'acqua. E così subito pioveva a catinelle: o allora o mai più: e tutti tornavano bagnati come topi. ora gli dèi hanno i piedi felpati. Poiché non siamo religiosi, i campi sono abbandonati.
Sono parole di un liberto ignorante, eppure per l’espressione opertis oculis si può trovare una analogia  nell’Antico Testamento  a proposito degli idolatri:"Gli idoli dei popoli sono argento e oro, opera delle mani dell'uomo. Hanno bocca e non parlano; hanno occhi e non vedono; hanno orecchi e non odono; non c'è respiro nella loro bocca. Sia come loro chi li fabbrica e chiunque in essi confida" (Salmi, 135, 15-18).
Properzio fa dipendere il tramonto degli dèi, della pietas, della fides, della lex, del pudor, dal lusso e dalla lussuria di uomini e donne, e dalla maledetta fame dell'oro già esecrata da Virgilio[4]:"At nunc desertis cessant sacraria lucis:/aurum omnes victa iam pietate colunt./Auro pulsa fides, auro venalia iura,/aurum lex sequitur, mox sine lege pudor" (III, 13, 47-50), ma ora sono trascurati i santuari nei boschi deserti: vinta la devozione, tutti venerano l'oro. Dall'oro è stata messa fuori corso la lealtà, con l'oro si compra la giustizia, la legge obbedisce all'oro, presto il pudore sarà fuori legge. Tutto questo porterà alla caduta di Roma:"frangitur ipsa suis Roma superba bonis" (v. 60), la stessa Roma superba viene spezzata dalle sue ricchezze.  

Nella letteratura latina del resto c'è un'altra spiegazione.
 Lucrezio con la visione  materialistica ripresa da Epicuro smonta questo tipo di pietas  legata, secondo lui alla superstizione (religio) e confuta il " tristis… vetulae vitis sator  atque vietae  (De rerum natura, II, 1168), il rattristato coltivatore della vigna vecchia e vizza, il quale  "temporis incusat nomen saeclumque fatigat,/et crepat, antiquum genus ut pietate repletum/perfacile angustis tolerarit finibus aevum,/cum minor esset agri multo modus ante viritim./ Nec tenet omnia paulatim tabescere et ire/ad capulum spatio aetatis defessa vetusto " (vv. 1169-1174), accusa il corso del tempo e insulta la sua età,/e brontola che l'antico genere umano pieno di devozione/sosteneva assai facilmente la vita entro confini ristretti,/sebbene molto minore fosse prima la misura del campo per testa./ E non capisce che tutto a poco a poco si consuma e va/ verso la tomba, spossato da lungo spazio di tempo.
 Sono gli esametri conclusivi del secondo libro.
In questo poema c'è dunque una concezione organica della terra che invecchia come tutto nell'Universo.

Ma torniamo al nostro Papa.
"Una volta - ha detto - c'era la fiducia nell'uomo in quanto persona dotata di una dignità trascendente". Tale fiducia significa non trattare uomini e donne come strumenti da usare e buttare via quando non servono più.
Platone raccomanda agli uomini l’assimilazione a Dio (oJmoivwsiς qew̃/ Teeteto, 176b) quella che sarà l’Imitatio Christi per i Cristiani.
Tale assimilazione alla divinità significa essere buoni.
Agostino ricorda Platone in questi termini: habemus sententiam Platonis dicentis omnes deos bonos esse (civ. Dei, 8, 13).
La deduzione della bontà del creato dalla bontà del creatore si trova, com’è noto, dal Timeo (29a) dove si legge che Dio, creatore di un cosmo bellissimo,  è il migliore degli autori (a[ristoς tw̃n aijtivwn).
Il Timeo viene riecheggiato ripetutamente da Agostino attraverso la traduzione ciceroniana. Per esempio: “hanc etiam Plato causam condendi mundi iustissimam dicit, ut a bono Deo bona opera fierent (civ. Dei, 11, 21), anche Platone afferma che la causa più giusta della creazione del mondo è che le opere buone sono fatte da un Dio buono.
Pure Seneca aveva tradotto il medesimo passo del Timeo: “ ita certe Plato ait: Quae deo faciendi mundum fuit causa? Bonus est (ep. 65, 10)
 E ancora: “Quae causa est dis bene faciendi? Natura. Errat si quis illos putat nocere nolle: non possunt  (ep. 95. 49).
L’uomo che non si è allontanato da Dio dunque è buono e in questo Gli assomiglia.

Torniamo a Bergoglio.
L’uomo non è una monade, ma una persona associata ad altre con diritti e doveri e il divenire individuale deve svilupparsi in maniera sociale, tendendo al bene comune, non senza dialogo e discussione . Siamo infatti animali politici e animali linguistici. Orrendo, anzi infernale, è, a parer mio, il costume  di tanti individui che invece di dialogare con altre persone, magari addirittura sedute allo stesso tavolo  in quella che dovrebbe essere la comunione del pasto, maneggiano per tutto il tempo telefonini o altri strumenti del genere senza mai rivolgere parola ai vicini o alzare gli occhi per guardarli.
Il Papa ha denunciato il male della solitudine. Ora le persone vi si sprofondano senza nemmeno accorgersene o compiacendosene, data la paura e la diffidenza che distanzia ciascuno dal prossimo suo.
Nella tragedia greca l’isolamento è vissuto come un male tra i peggiori: Filottete[5] lasciato solo dai compagni nella deserta Lemno lamenta di essere  “ a[ndra duvsthnon, movnon,-ejrh'mon[6] w|de ka[filon" ( vv. 227-228), uomo infelice, solo, abbandonato, così e senza amici.
 La solitudine di Filottete dunque è  penosa per un greco antico, tipicamente, come ha notato bene Kierkegaard[7].
Secondo il filosofo danese, per l'uomo greco che viveva nella povli"  democratica la solitudine dell’impolitico è una condizione innaturale :"benché si muovesse liberamente, l' individuo restava nell'ambito delle determinazioni sostanziali, nello stato, nella famiglia, nel fato. Questa determinazione sostanziale è la vera e propria fatalità della tragedia greca, e la sua vera e propria caratteristica."[8]
 L'abitudine e il desiderio di stare soli sono già condannati come disumani da Omero nella figura mostruosa del Ciclope[9], e, dopo Sofocle, da Menandro[10] nel prologo de Duvskolo" dove il misantropo Cnemone[11] viene definito  uomo disumano assai (Knevmwn, ajpavnqrwpov" ti" a[nqrwpo" sfovdra", v. 6). 
Invece più avanti nel tempo, con la degenerazione brutale dei rapporti umani, con la trasformazione delle persone in turba, folla, diventerà non solo dignitoso ma necessario rimanere soli. 
Seneca, tornato dal Circo dove ha assistito a mera homicidia , omicidi veri e propri, scrive:" avarior redeo, ambitiosior, luxuriosior? immo vero crudelior et inhumanior, quia inter homines fui "(Ep. 7, 3), torno a casa più avido, ambizioso, amante del lusso? anzi più crudele e più disumano proprio perché sono stato in mezzo agli uomini. Il consiglio allora è:"recede in te ipse quantum potes ", rientra in te stesso quanto puoi (7, 8).
La posizione si radicalizza nell'incipit di  un'altra lettera: “ Seneca Lucilio suo salutem. Sic est, non muto sententiam: fuge multitudinem, fuge paucitatem, fuge etiam unum” (Ep. 10, 1), Seneca saluta il suo Lucilio. E' così, non cambio parere, evita la folla, evita i pochi, evita anche uno solo.
Infine Nietzsche: “C’è da dir male anche di chi soffre per la solitudine-io ho sempre e soltanto sofferto per la moltitudine”[12].
La solitudine dunque è un portato della difficoltà nei rapporti umani, della loro disumanità.
Eppure noi uomini, come ha scritto l’imperatore Marco Aurelio   “siamo nati per darci aiuto reciproco ("pro;" sunergivan"), come i piedi, le mani, le palpebre, come le due file dei denti. Dunque l'agire  uno a danno dell'altro è cosa contro natura ("to; ou\n ajntipravssein ajllhvloi" para; fuvsin",  Ricordi , II, 1).  .
In questa Europa non più fertile e vivace, ha detto ancora Bergoglio, siamo passati dai grandi ideali ai tecnicismi burocratici.
Chi scrive queste note ha trascorso quasi tutta la vita nella scuola e ha sofferto l’invadenza di troppi tecnicismi anche nel campo che dovrebbe essere quello della cultura. La valutazione del fanciullo (pais), e a maggior ragione la sua paideia,  educazione,  non può ridursi a una serie di questionari o quiz senza anima, senza idèe, né sentimenti, né bellezza, né verità. Una serie di formule da imparare a memoria. So di ragazzi che nella scuola media devono rispondere qual è la differenza tra “favola” e “fiaba” senza avere mai letto nulla di Esopo né di Fedro. Non si leggono più gli autori nelle scuole.
Eppure gli auctores sono i nostri “accrescitori”. Ma se i giovani non crescono mentalmente è più facile tenerlo sottomessi e farne dei consumatori bulimici. 
Prevalgono le questioni tecniche e gli affari economici in una sorta di tirannide contraria all’indagine sui sentimenti, alla discussione sulle idèe.
Questo male viene già denunciato da Giacomo Leopardi : “un franco/di poetar maestro (…) lascia, mi disse,/i propri affetti tuoi. Di lor non cura/questa virile età, volta ai severi/economici studi, e intenta il ciglio/nelle pubbliche cose, Il proprio petto/esplorar che ti val?”[13].
In questo culto dell’economia, del mercato e del profitto l’uomo viene trattato come l’ingranaggio di un meccanismo. E’ la cultura “del consumismo esasperato e dello scarto” ha detto il nostro pontefice.
Il culto  del consumo, del profitto e del PIL arriva a ritualizzare le guerre.
Seneca nel De ira   ricorda che i re incrudeliscono e compiono rapine e distruggono città costruite con lunga fatica di secoli per cercare oro e argento dentro le ceneri delle città:"reges saeviunt rapiuntque et civitates longo saeculorum labore constructas evertunt ut aurum argentumque in cinere urbium scrutentur " (III, 33, 1).
Quindi cito di nuovo la Palinodia al marchese Gino Capponi di Leopardi_ “…coverte/fien di stragi l’Europa e l’altra riva/dell’atlantico mar (…) sempre che spinga/ contrarie in campo le fraterne schiere/di pepe o di cannella o d’altro aroma/fatal cagione, o di melate canne/o cagion qual si sia ch’ad auro torni” (vv. 62-68).
Papa Francesco ha ricordato La scuola di Atene di Raffaello Sanzio urbinate. Ha fatto notare che tra i filosofi presenti e vivi in questo affresco del 1510, Platone punta l’indice della mano destra verso l’alto, mentre Aristotele tiene la  mano davanti a sé, con la palma rivolta verso la terra.
Noi uomini siamo creature anfibie e non possiamo perdere il doppio contatto con la terra e con il cielo, se non vogliamo rinnegare la nostra natura composita. Ciascuno di noi è un suvmbolon, la metà di in segno di riconoscimento, uno spezzone da completare. Dobbiamo congiungere il non eterno con l’eterno: senza spregiare il transitorio, il mortale, dobbiamo trovare in noi l’immortale. Il Faust di Goethe si chiude con il Chorus mysticus che canta: “Tutto l’effimero-è solo un simbolo”[14]
Bergoglio ha poi ricordato la centralità della persona umana e l’educazione che deve dare la famiglia, la scuola, la società. Educazione al rispetto della  dignità propria e di quella del prossimo. Quindi il diritto-dovere del lavoro la cui mancanza inficia la dignità dell’uomo. Quanto alla questione dei migranti, il Papa ha detto che il nostro mare Mediterraneo non deve diventare un grande cimitero.
 Infine la questione centrale dell’identità: tanto quella delle singole persone quanto quella dei popoli  non va portata all’ammasso di una globalizzazione alla  quale non dobbiamo permettere di annientare il principium individuationis con il “conosci te stesso”, proprio mentre con stridente contraddizione incentiva l’egoismo più feroce.
Alcune aggiunte ha fatto Papa Bergoglio parlando al Consiglio d’Europa, sempre il 25 novembre a Strasburgo.
Il pontefice ha indicato la via della pace. Per incamminarci su questa strada e percorrerla “metodicamente”[15] dobbiamo riconoscere nell’altro un fratello da accogliere, da cui imparare. L’umanesimo è amore per l’umanità, come la fanciulla di Sofocle :" ou[toi sunevcqein ajlla; sumfilei'n e[fun", (Antigone, v. 523), certamente non sono nata per condividere l'odio, ma l'amore
Ed è espressione di umanesimo quanto dice Teseo a Edipo nell’ultima tragedia del poeta di Colono : "e[xoid j ajnh;r w[n"( Edipo a Colono v.567), so di essere un uomo. Sapere di essere uomo  è la coscienza della propria umanità senza la quale ogni atto violento è possibile. Sapere di essere uomo significa incontrare una creatura mezza distrutta come è Edipo vecchio, provarne pietà, incoraggiarla ponendo domande:" e sentendo compassione - continua Teseo - voglio domandarti, infelice Edipo, con quale preghiera per la città e per me ti sei fermato qui” (vv.562-563). Poi significa ascoltare e comprendere con simpatia poiché siamo tutti effimeri, sottoposti al dolore e destinati alla morte. "Anche io-dice il re di Atene al mendicante cieco, incestuoso e parricida-sono stato allevato fuggiasco come te. Dunque so di essere uomo e che del domani nulla appartiene più a me che a te"(vv. 567-568).
Una simile dichiarazione di umanesimo, quale interesse per l'uomo e disponibilità ad ascoltarlo, leggiamo nel  più    famoso verso di Terenzio:"  :"Homo sum: humani nil a me alienum puto "[16].
  "Umana cosa è l'aver compassione degli afflitti" sono le prime parole del Decameron.
Papa Bergoglio recentemente ha detto di stare dalla parte dei poveri. In questo è davvero imitator Christi e del santo suo eponimo.
Già Papa Ratzinger ha sottolineato il fatto che “Gesù si identifica con i bisognosi: affamati, assetati, forestieri, nudi, malati, carcerati “Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo dei miei fratelli più piccoli, l’avete fatta a me” (Matteo, 25, 40). Amore di Dio e amore del prossimo si fondono insieme: nel più piccolo incontriamo Gesù stesso e in Gesù incontriamo Dio”[17]
Sentiamolo in latino: “Amen dico vobis: Quamdiu fecistis uni de his fratribus meis minimis, mihi fecistis”
E in greco ‘ajmh;n levgw uJmi`n, ejf j o{son ejpoihvsate eJni; touvtwn tw`n ajdelfw`n mou tw`n ejlacivstwn, ejmoi; ejpoihvsate”.
Anche questa forma di umanesimo, di alta umanità non era ignota ai Greci: Nausicaa nel VI canto  dell’Odissea (vv.207-208) poi Eumeo nel XIV (vv. 57-58) dicono a un Odisseo malridotto che vogliono aiutarlo perché vengono tutti da Zeus gli stranieri e i mendichi, e un dono anche piccolo è caro per loro[18]  

Occorre combattere la cultura del conflitto ha detto il Papa: bisogna fermare la corsa agli armamenti. Dobbiamo opporci al traffico degli esseri umani, alla loro mercificazione, alle nuove forme di schiavitù che possono essere più dolorose e degradanti di quelle antiche. Per fare questo ci vuole coscienza e ci vuole cultura. Coscienza di noi stessi, del presente e del passato. Senza la conoscenza del passato si vive come entità casuali, come un albero senza radici. Non siamo qui per caso. Niente avviene per caso.
“There is a special providence in the fall of a sparrow"   c'è una provvidenza speciale perfino nella morte di un passero (Amleto, V, 2).
 C’è  un fatum che è il fari  (il parlare) di Dio: Fatum nihil aliud est quam series implexa causarum (Seneca, de beneficiis IV 7), una serie di cause concatenate
Paolo VI definì la Chiesa come una istituzione “esperta in umanità”. L’uomo umano ha bisogno di dialogare, di meravigliarsi, di considerare se stesso e la vita intera come problema. Non può accontentarsi dei luoghi comuni della propaganda pubblicitaria avida, interessata al lucro.
E’ necessaria una nuova agorà dove confrontare le idèe, dove cercare la verità che è ajlhvqeia, non latenza[19], disvelamento.
La cultura, paideiva, come educazione e come apprendimento, nasce sempre dall’incontro, dall’attenzione, dall’ascolto e dalla cura degli altri

Bologna 27 novembre 2014

Giovanni Ghiselli



[1] nosei' povli", v.1015
[2] biaiva" e[cetai- pavndamo" povli" epi; novsou, v. 1140-1141
[3] J.K. Huysmans, Controcorrente, p. 43
[4] Quid non mortalia pectora cogis , /auri sacra fames!  ",  a cosa non spingi i cuori umani, maledetta fame dell'oro! (Eneide, III, 55-57).
[5] La tragedia Filottete di Sofocle è del 409 a. C.
[6] Questo aggettivo ritorna più volte nelle descrizioni pietose che l'abbandonato fa di sé:"mh; livph/" m j ou[tw movnon,-ejrh'mon" (vv. 470-471), non lasciarmi così solo, abbandonato, dice a Odisseo; e, poco più avanti, lo prega:"ajlla; mhv m j ajfh'/"-ejrh'mon ou{tw cwri;" ajnqrwvpwn stivbou" (vv. 486-487), non lasciarmi nella desolazione così escluso da ogni traccia di uomini. 
[7] "La riflessione di Filottete non si sprofonda in se stessa , ed è tipicamente greco che egli si dolga che nessuno è a conoscenza del suo dolore" (Il riflesso del tragico antico nel tragico moderno, in Enten Eller, tomo II, pp.33-34).
[8] S. Kierkegaard, Enten-Eller , Il riflesso del tragico antico nel tragico moderno,   Tomo Secondo, p. 24..
[9] I Ciclopi non hanno assemblee per consigliarsi né leggi ma vivono sulle cime di alti monti in caverne profonde, ognuno governa i figli e le donne e non si curano l'uno dell'altro (oujd j ajllhvlwn ajlevgousi, Odissea, IX, 112-115).
[10] 342-291 a. C.
[11] Il quale, come vede Sostrato davanti alla porta di casa sua, invoca il suo bene supremo:
"non è possibile ottenere la solitudine da nessuna parte!"( ejrhmiva" oujk e[stin oujdamou' tucei'n, v.169). Sembra un'anticipazione del monachesimo.
[12] Ecce homo, Perché sono così accorto, 10
[13] Palinodia al marchese Gino Capponi, vv. 231-236.
[14] Alles Vergängliche –ist nur ein Gleichniss
[15] Cfr. greco oJdovς, “via”, “strada”.
[16] Heautontimorumenos  ,77.
[17] Lettera Enciclica Deus Caritas est di Benedetto XVI sull’amore cristiano, Libreria editrice vaticana. Città del Vaticano 2006, p. 36).
[18]pro;~ ga;r Dio;~ eijsin a[pante~-xei`noiv te ptwcoiv te, dovsi~ d  j ojlivgh te fivlh te
[19] Cfr. lanqavnw e lateo “rimango nascosto”. L’aj- privativo comporta la “non latenza”,

giovedì 27 novembre 2014

Contro il femminicidio e la retorica scema delle celebrazioni



Il femminicidio è un crimine contro l'umanità, come l'assassinio dei maschi neri e bianchi uccisi a bastonate o a fucilate, e come ogni altra violenza. Né più né meno. Tutte le violenze sono da esecrare, senza distinzione di razza né di sesso. O forse è un male enorme ammazzare le donne e le ragazze, ed è un male molto più piccolo, un peccatuccio veniale ammazzare gli uomini e i ragazzi, soprattutto se drogati, o se scuri di pelle come certi pescatori indiani?
Il sangue di una donna ammazzata, e pure quello di un uomo se non è empio dirlo, offende la madre terra per la simpatia organica che la lega alle sue creature. A tutte.
“Il sangue di un uomo solo sparso per mano del suo fratello è troppo per tutti i secoli e per tutta la terra”, scrive Manzoni nella Osservazioni sulla morale cattolica, (cap.VII).

Recalcati ha scritto che “la violenza contro le donne ha una chiara matrice razzista”. Anche le quote rosa ce l’hanno.
Ha scritto pure che la violenza è alternativa alla parola, soprattutto alle parole belle dei poeti. E’ vero. Allora, invece di fare tante commedie, bisognerebbe insegnare a leggere e a parlare in maniera civile a tutti, e non escludere i poveri dalle università. L’ignoranza genera violenza.
Inoltre: bisognerebbe valorizzare l’incontro tra i sessi come unione tra differenze che possono integrarsi arricchendosi a vicenda. E’ giusto.
Ma la propaganda degli imbecilli invece aizza l’ostilità tra i sessi, approfondisce il solco delle diversità inconciliabili.
Certo, poiché la gente sessualmente infelice è più facile manipolarla e spingerla a consumare schifezze.

La pubblicità e la Sfinge dell’Edipo re di Sofocle.
Assimilo, arbitrariamente, l’infernale pubblicità contemporanea alla Sfinge dell’Edipo re di Sofocle.
La cagna cantatrice (v.391), l’ibrido mostro, " dal canto variopinto che ci spingeva a guardare/quanto era lì tra i piedi (to; pro;" posi;)[1], e a lasciare perdere quello che non si vedeva[2]"(vv.130-131) da un lato è odiosa, tanto che chi annuncia l’interruzione pubblicitaria di solito si scusa e promette che durerà poco, e comunque siamo in molti a cambiare canale, dall’altra può essere seduttiva e dare spinte retrograde, ai più indifesi, i bambini per esempio, verso zone oscure della loro anima impreparata a difendersi da tali suggestioni velenose. Li spinge a consumare cose che per lo più fanno male. L’obesità uccide innumerevoli persone.
La pubblicità è deleteria, è imitatio diaboli.
Mi stupisco che non sia proibita e non sia stata esecrata da Papa con un anatema da apocalisse.
Francesco, vicario di Cristo, io qui t’invoco.

Bene ha fatto Pippo Civati a votare contro lo scellerato patto Renzi-Berlusconi in foedus iniquum per i lavoratori.


giovanni ghiselli

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[1] Le cose terrene
[2] Il divino

martedì 25 novembre 2014

Ancora sulle elezioni del 23 novembre

Berlusconi senza trucco
25 novembre
  

Il sistema elettorale vigente annulla la libera scelta dell’elettore.
La maggior parte dei cittadini emiliani e calabresi ha risposto annichilendo questa forma di elezione che non ha raggiunto il quorum del 50 per cento, dunque è nulla.

Che certi politici insulsi e chiacchieroni siano figli delle tenebre, lo dice il buio dei loro sguardi e della loro mente.

Non mi dispiace la cassazione dei politici meritevoli di essere cancellati, però mi spiace l’annichilimento della politica come servizio in favore  del popolo. Continuerò a prendermi cura della polis.

Le forosette di Renzi saranno probabilmente le giovani, graziose e variopinte vittime da sacrificare sull’ ara della sconfitta elettorale invano  deprecata prima, minimizzata poi

 Il popolo detesta la millanteria di una lingua più lunga e più grossa del necessario.
Renzi è un rex mancato. Orazio riferisce una nenia dei pueri ludentes, una cantilena dei ragazzi che giocano: “rex eris-aiunt- si recte facies (epistulae, I, 1, 59-60) sarai re, dicono, se agirai rettamente. Nel suo cesarismo o bonapartismo, il “buon” Renzi avrebbe dovuto tenerne conto.

Il potere da più di trent’anni cerca di disumanizzare i lavoratori. Togliendo loro dignità, mezzi di sussistenza culturale e libertà. Questa elezione ha denunciato la disumanità di governi siffatti.
L’astensionismo non è un problema secondario: significa la totale ricusazione dell’intera classe politica da parte del popolo.

Il povero Berlusconi è oramai ridotto a fare da  filtro a tutto: a cibi, a bevande, a servi riottosi, ad alleati infidi. Mi fa  pena.


giovanni ghiselli

p.s

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lunedì 24 novembre 2014

Le elezioni fallite

23 novembre


Commento a caldo sul vuoto elettorale. Lo schifo dei politici

La percentuale  dei votanti in questa farsa elettorale significa che non c'è un partito né un politico che non faccia schifo alla maggioranza assoluta degli italiani.

Mancano le idèe, mancano le parole significative, mancano gli uomini umani e mancano donne di valore. Le persone non vanno a votare per dei pagliacci pieni di malafede

Queste elezioni hanno deligittimato la politica. Renzi ci aveva messo la faccia. E l'ha persa. Come tutti gli altri buffoni

E' il vuoto culturale e mentale dei candidati che ha svuotato di ogni significato la competizione politica.

Chi verrà eletto, chiunque egli sia, se ha un minimo di dignità deve dimettersi subito. La maggioranza assoluta del popolo lo ha rifiutato.

Renzi e gli altri che ci hanno messo la faccia devono smettere di fare politica. Gli Italiani  non li hanno degnati  nemmeno del loro sdegno, li hanno ignorati.

Il colmo è che dopo una disfatta del genere continuano a mentire, a negare l’evidenza, a fingere che non sia successo niente. Attraverso la sofferenza, l’idiozia. La prossima volta i voti si dimezzeranno ancora. Poi ci sarà la grande conflagrazione .

"Renzi è contento di essere stato sbugiardato da una città come Bologna che era stata una roccaforte del suo partito-padre.
Un'altra di queste vittorie e il figlio degenere andrà a sculacciare le proprie villanelle".


Il mio blog ha  più contatti  di certi pupazzi


giovanni ghiselli

sabato 22 novembre 2014

Ovidio e gli autori pagani e cristiani contrari al teatro

Ovidio

Ovidio e gli autori pagani e cristiani contrari al teatro

Platone, Seneca, Tacito, Tertulliano, Agostino, Leopardi, Tito Livio, Flaubert, Cromwell, Nathaniel Hawthorne, Vittorio Alfieri


Ovidio  nell’Ars amatoria suggerisce al donnaiolo di andare a caccia di donne soprattutto nei teatri ricurvi:  “Sed tu praecipue curvis venare theatris” (I, 89) poiché sono luoghi particolarmente fruttiferi per i tuoi desideri: “haec loca sunt voto fertiliora tuo” (90)
Lì si trova un’ampia selvaggina erotica per entrambi i sessi: le donne più raffinate vanno agli spettacoli molto frequentati, e ci vanno non solo per guardare ma anche per essere guardate: “(Spectatum veniunt, veniunt spectentur ut ipsae", I, 99). Quel luogo è nocivo per il casto pudore.
Ovidio non biasima certo tali approcci, anzi li incoraggia, senza prevedere che la sua polemica libertina con la celebrazione fatta dagli augustei ortodossi Virgilio e Orazio della pietas[1] di Enea castus[2] come i suoi discendenti, gli costerà cara.

Vediamo ora le critiche moralistiche contro il teatro
Platone[3],  attraverso il personaggio dell’Ateniese, nelle Leggi critica gli agoni drammatici frequentati troppo spesso, e male, da un pubblico becero, incompetente, trascinato dalla musica caotica diffusa da poeti ignoranti, maestri di disordinate trasgressioni, i quali mescolano peani con ditirambi, mettendo insieme tutto con tutto (pavnta eij~ pavnta sunavgonte~, Leggi, 700d); di conseguenza le càvee dei teatri  sono diventate, da silenziose, vocianti, e al posto dell’aristocrazia del gusto subentrò una  sfacciata  teatrocrazia per quanto riguarda quest’arte (701). Come se fossero tutti sapienti, diventarono impavidi e l'audacia generò l'impudenza (701b). La causa prima di tale disastro culturale è stata una libertà troppo sfrenata.

Seneca a sua volta  condanna l'efferatezza dei giochi circensi quali mera omicidia ( Ep. 7, 3), omicidi veri e propri. Il filosofo è capitato nel Circo durante uno spettacolo meridiano lusus expectans et sales, aspettandosi giochi e facezie, invece c’erano gladiatori che combattevano fino alla morte di entrambi exitus pugnantium mors est: chi ha ucciso poi si scontra col prossimo che lo ucciderà. Dunque : “nihil vero tam damnosum bonis moribus quam in aliquo spectaculo desidēre

Nel Dialogus de oratoribus[4] di Tacito[5], Messalla biasima propria et peculiaria huius urbis vitia, i vizi particolari di Roma, quelli che sono quasi insiti nel DNA dei Romani si direbbe ora:"paene in utero matris concipi mihi videntur, histrionalis favor et gladiatorum equorumque studia" ( 29), sembrano quasi concepiti nello stesso grembo materno, la simpatia per gli istrioni, la passione per i gladiatori e i cavalli. Nell'animo dei ragazzi  occupatus et obsessus, occupato e bloccato da tali studia, non rimane  spazio per l'interesse nei confronti delle arti liberali.
Questo avvertimento può essere attualizzato con la passione per il calcio o per la musicaccia fatta di rumore.
L'histrionale studium del gaglioffo Percennio, per esempio, la sua esperienza di attore, e il suo essere stato dux olim theatralium operarum (Annales, I, 16) un capo della claque teatrale, ne fa un acclamato duce durante la rivolta delle legioni della Pannonia successiva alla morte di Augusto.
Queste parole di Tacito, secondo Auerbach, denigrano la ribellione dei legionari:"A suo modo di vedere, si tratta soltanto d'arroganza plebea e di mancanza di disciplina. (…) Egli batte e ribatte che è soltanto la schiuma sempre pronta alla ribellione; per il caporione Percennio, ex capo di claques teatrali col suo "histrionale studium", che si atteggia a generale (velut contionabundus"), egli ha il più profondo disprezzo"[6].
Nella Germania, Tacito nota che le donne di quella terra  vivono con la castità ben custodita, senza essere guastate dalla seduzione degli spettacoli né dagli stimoli dei banchetti: "saepta pudicitia agunt, nullis spectaculorum inlecebris, nullis conviviorum inritationibus corruptae" (19, 1).
 Negli Annales lo storiografo denuncia, tra le altre passioni basse  (foeda studia) di Nerone quella di cantare accompagnandosi con la cetra, come si fa negli spettacoli: “ nec minus foedum studium cithărā ludĭcrum in modum canere” (14, 14).
Poco più avanti Tacito ricorda che dopo la conquista dell’Asia e della Grecia, a Roma i giochi si erano organizzati con maggiore cura, “nec quemquam Romae honesto loco hortum ad theatralis artes degeneravisse, ducentis iam annis a L. Mummii triumpho qui primus id genus spectaculi in urbe praebuerit” (14, 21), anche se nessun romano nato in una buona famiglia si era abbassato a fare l’attore per duecento anni dal trionfo di Mummio[7] che per primo aveva fatto vedere a Roma quel genere di spettacolo.

Tertulliano[8] nell’Apologeticum[9] dichiara che agli spettacoli dei pagani (spectacula vestra) i cristiani rinunciano in quanto i vari scaenici e circenses  traggono origine dalla superstizione
Infatti, aggiunge, la nostra lingua, i nostri occhi, i nostri sensi non hanno nulla in comune con la follia del circo né con l'impudicizia del teatro (cum impudicitia theatri ) né con la crudeltà dell'arena (cum atrocitate arenae) né con la vanità del portico ( cum xysti vanitate, 38). 
Quindi nel De spectaculis [10] l’apologista predica contro teatri e circhi in quanto tutta la messinscena degli spettacoli trae la sua essenza ex idolatrīa (IV, 3) dall'idolatria.

Sant'Agostino nelle Confessiones[11] considera la passione per il teatro una follia da lui stesso provata quando lo rapivano  “spectacula theatrica plena imaginibus miseriarum mearum et fomitibus ignis mei" (III, 2), pieni di immagini delle mie miserie e di esche del mio fuoco. Lo spettatore cerca nelle tragedie il dolore che gli dà piacere: quid est nisi miserabilis insania?
Lo spettatore si annoia ed esce deluso se non prova emozioni negative: “Lacrimae ergo amantur et dolores”. Quindi Agostino dice alla propria anima: “cave immunditiam”. Allora io miser, continua, dolere amabam e cercavo sensazioni dolorose. Ero un infelix pecus aberrans a grege tuo e mi infettavo di una brutta scabbia. Cercavo emozioni cattive e superficiali.
Sembra che il teatro servisse a questa pecorella sviata dal gregge del Signore, per  dare brividi  una vita oziosa e vuota.

E’ un poco l’idea che ha del teatro e della letteratura drammatica Giacomo Leopardi il quale sostiene che il genere drammatico, rispetto alla poesia lirica e a quella  epica, “è ultimo dei tre generi, di tempo e di nobiltà. Esso non è un'ispirazione, ma un'invenzione; figlio della civiltà, non della natura; poesia per convenzione e per volontà degli autori suoi, più che per la essenza sua (…) Il dramma non è proprio delle nazioni incolte. Esso è uno spettacolo, un figlio della civiltà e dell'ozio, un trovato di persone oziose, che vogliono passare il tempo, in somma un trattenimento dell’ozio, inventato, come tanti e tanti altri, nel seno della civiltà, dall’ingegno dell’uomo, non ispirato dalla natura, ma diretto a procacciare sollazzo a se e agli altri, e onor sociale e utilità a se medesimo. Trattenimento liberale bensì e degno; ma non prodotto della natura vergine e pura, come è la lirica, che è sua legittima figlia, e l'epica, che è sua vera nepote"(Zibaldone, 4235-4236).
Mi sembra un grave difetto di incomprensione del pur grande e caro Recanatese.
Ancora: “Essa[12] è cosa prosaica: i versi vi sono di forma, non di essenza, né le danno natura poetica. Il poeta è spinto a poetare dall’intimo sentim. Suo proprio, non dagli altrui. Il fingere di avere una passione, un caratt. Ch’ei non ha (cosa necess. al drammat.) è cosa alienis. dal poeta (…) Quanto più un uomo è di genio, quanto più è poeta, tanto più avrà de’ sentimenti suoi propri da esporre, tanto più sdegnerà di vestire un altro personaggio, di parlare in persona d’altrui, d’imitare, tanto più dipingerà se stesso e ne avrà il bisogno, tanto più sarà lirico, tanto meno drammatico” (4357).
 Così si limita il valore anche dell’epica e del romanzo e pure l’elegia e insomma tutte le opere letterarie che hanno parti mimetiche (dialoghi) e diegetiche (narrative).
Platone nel III libro della Repubblica fa dire a Socrate che c’è una poesia la quale si svolge dia; mimhvsewς, per via mimetica. Questa è la poesia drammatica, ossia la tragedia e la commedia; poi c’è la semplice narrazione senza mimesi (a[neu mimhvsewς ajplh̃ dihvghsiς)  attraverso il racconto del poeta stesso, e si tratta dei ditirambi; quindi l’epica che ha entrambi gli aspetti (di j ajmfotevrwn) (394b-c).

Ma torniamo a Leopardi.
Romanzo e novella sono  meno biasimati del dramma : “Il romanzo, la novella ec. sono all’uomo di genio assai meno alieni che il dramma, il quale gli è più alieno di tutti i generi di letteratura, perché è quello che esige la maggior prossimità d’imitazione, la maggior trasformazione dell’autore in altri individui, la più intera rinunzia e il più intero spoglio della propria individualità, alla quale l’uomo di genio tiene più fortemente che alcun altro” (4367).
La stessa cultura ateniese viene considerata manchevole dal Recanatese poiché non ci furono poeti lirici ateniesi.
Io dico che non ci furono perché la letteratura ateniese fu politica, mentre la lirica è impolitica e tendenzialmente soggettiva, anche nel senso peggiore.
Ma sentiamo Leopardi: “Si dice con ragione che quasi tutta la letteratura greca fu Ateniese. Ma non so se alcuno abbia osservato che questo non si può già dire della poesia; anzi, che io mi ricordi, nessun poeta greco di nome (eccetto i drammatici, che io non considero come propriam. poeti, ma come, al più, intermedii fra’ poeti e’ prosatori) fu Ateniese. Tanto la civiltà squisita è impoetica (22. sett. 1828). Però, chi dice che la lett. Gr. fiorì principalm. in Atene, dee distinguere, se vuol parlar vero, ed aggiungere che la poesia al contrario. Ec. (22. Sett. 1828)”[13].

Quindi torniamo ad Agostino. Nel De civitate Dei [14] il santo sostiene che  i ludi scenici, introdotti a Roma[15] per placare la pestilenza dei corpi, importarono dall'Etruria la pestilenza nei costumi. Infatti il pontefice, per sedare la pestilenza delle anime, proibiva addirittura la costruzione del teatro (I, 32).
Vediamo il racconto di Livio (VII, 2).
 Nell’anno dei consoli Petico e Stolone (364) pestilentia fuit. Per implorare il favore degli dèi si fece un lectisternium (si portavano fuori dai templi dei divani con le immagini degli dèi e davanti si poneva una tavola imbandita), ma il morbo non cessava, allora, victis superstitione animis, ludi quoque scenici, nova res bellicoso populo, nam circi modo spectaculum fuerat, inter alia caelestis irae placamina istituti dicuntur, ceterum parva quoque, ut ferme principia omnia, et ea ipsa peregrina res fuit. Sine carmine ullo, sine imitandorum carminum actu, ludiones ex Etruria accīti, ad tibicĭnis modos saltantes, haud indecōros modos more Tusco dabant.
Quindi era una danza senza parole né mimesi di parole. Poi però dei giovani cominciarono a imitare quei ludiones, ballerini pantomimi, scambiandosi in aggiunta battute in rozzi versi simul inconditis inter se iocularia fundentes versibus. E i movimenti si accordavano con la voce.    

Insomma il teatro, che tratta spesso della peste[16], è esso stesso latore di peste secondo il vescovo di Ippona.
 Sentiamo un altro prete. In Madame Bovary di Flaubert, il curato di Yonville sembra condividere l'opinione di Ovidio sul lenocinio dei teatri, i quali però, dato il punto di vista critico autorizzato da "tutti i Santi Padri", vengono sconsigliati:"So anch'io" obiettò il curato, "che esistono buone opere, buoni autori, tuttavia, non fosse altro, tante persone di sesso diverso riunite[17] in un locale seducente, ornato di pompe mondane, e poi tutti quei travestimenti pagani, tutto quel belletto, tutti quei candelabri, tutte quelle voci effemminate, tutto insomma deve ingenerare alla fin fine un certo libertinaggio dello spirito e suggerirti pensieri disdicevoli, tentazioni impure. Almeno questa è l'opinione di tutti i Santi Padri. Infine…se la chiesa ha condannato gli spettacoli, significa che aveva la sua ragione di farlo: occorre sottometterci ai suoi decreti"[18].
Questa linea platonico-cristiana di avversione per gli spettacoli teatrali si riscontra fra i Puritani del Seicento: il Lord Protector Cromwell[19] fece chiudere i teatri durante la sua tirannide in Inghilterra.
Per quanto riguarda la presenza di tale ostilità nel Nuovo Mondo, sentiamo La lettera scarlatta di Nathaniel Hawthorne[20], pubblicata nel 1850 ma ambientata nella Boston puritana del XVII secolo:"inutilmente si sarebbe immaginato di vedere quel popolo abbandonarsi ai divertimenti popolari che erano in uso in Inghilterra sotto la regina Elisabetta o sotto re Giacomo. Niente spettacoli teatrali, né musiche di sonatori ambulanti, né canzoni di menestrelli, né trucchi di giocolieri, né lazzi di saltimbanchi. Il fondo del carattere di questa gente - s'è detto - era triste, e tutti questi professionisti dell'allegria sarebbero stati scacciati non soltanto dalla legge, ma dal sentimento popolare che conta assai più della legge"[21]. La protagonista del romanzo è una donna bella e fine, marchiata e messa al bando da questa gente tetra.
Una studiosa della scuola del Dramma dell’università di Washington rileva un nesso tra l’ostilità dei Puritani nei confronti del teatro e il fatto che nel teatro elisabettiano le parti femminili fossero recitate da maschi travestiti. Sicché il palcoscenico poteva essere visto come il sito dell’omoerotismo:  “Several extant Puritan sermons were built upon a quotation in Deutoronomy (22: 5) which specifically forbade cross-dressing: ‘The woman shall not wear that which pertaineth unto a man, neither shall a man put a woman’s garment; for all that do so are an abomination unto the Lord thy God[22], diversi sermoni puritani arrivati sino a noi erano costruiti su una citazione del Deuteronomio che proibiva specificamente I travestimenti: ‘La donna non indosserà quello che appartiene a un uomo, né un uomo si metterà un articolo di vestiario da donna; in quanto tutto questo è abominio nei confronti del Signore tuo Dio’.

Nella propria autobiografia Vittorio Alfieri racconta che cercò ingraziarsi Pio VI, papa Braschi, offrendogli di dedicargli il Saul. Il papa rifiutò l’omaggio e  “ se ne scusò, dicendo che egli non poteva accettar dedica di cose teatrali quali ch’elle si fossero”. “Né io altra cosa replicai su ciò” , conclude l’autore (Vita, IV, 10).
Insomma c'è tutta una letteratura contro il teatro.

Tuttora c’è un’ostilità del potere contro il teatro che presenta l’uomo come problema, e spinge a pensare, pone degli interrogativi, instilla dei dubbi. La televisione non manda più in onda i drammi grandi e meravigliosi dei grandi autori che così perdono visibilità e presenza anche nella scuola.


giovanni ghiselli 10 novembre 2014



[1] Enea, che causò la morte di Didone è menzionato tra gli amanti infedeli;  tuttavia egli "et famam pietatis habet, tamen hospes et ensem[1]/praebuit et causam mortis, Elissa, tuae" (Ars, III, 39-40), ha la nomèa di uomo pio, tuttavia da ospite ti offrì la spada e il motivo della morte tua, Elissa.
[2] Orazio, Carmen speculare, 42.
[3] 427-347 a. C.
[4] Ambientato tra il 75 e il 77 e redatto, probabilmente, un quarto di secolo più tardi.
[5] 55 ca-120 ca.
[6] Mimesis, p. 43.
[7] 146  a. C.
[8] 160 ca-220 ca d.C.
[9] 197 d. C.
[10] Del 200 ca d. C.
[11] In 13 libri composti fra il 397 e il 401  d. C.
[12] La poesia drammatica.
[13] Zibaldone, p. 4389.
[14] In 22 libri composti fra il 413 e il 426 d. C.
[15] Nel 364 a. C. secondo il racconto di Tito Livio (VII, 2-3)
[16] Si pensi, per esempio all’ Edipo re di Sofocle e all’Oedipus di Seneca.
[17] Per questa ragione si dovrebbero chiudere anche le scuole.
[18] G. Flaubert, Madame Bovary (del 1857),  p. 177.
[19] Esercitò una dittatura personale dal 1653 al 1658.  Suo segretario fu John Milton, l’autore di Il paradiso perduto (1667)
[20] Scrittore statunitense: 1804-1864.
[21] N. Hawthorne, La lettera scarlatta, p. 180.
[22] Sue-Ellen Case, Feminism and theatre, p. 24.