NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

Ciclo di incontri alla biblioteca «Ginzburg». Protagonisti della storia antica

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lunedì 29 febbraio 2016

Introduzione alla tragedia greca: Eschilo. Parte V

Scene dal mito di Oreste (Musei Vaticani)

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Oreste prova a difendersi da solo dicendo che il sangue della sua mano "dorme e svanisce"(Eumenidi, v. 280), in quanto oramai "la macchia del matricidio è lavata"(v. 281).
Ma questa volontà unilaterale non basta. Il figlio di Agamennone chiama in aiuto Atena, eponima della città dove si è rifugiato, e in cambio promette che la dea: "conquisterà senza battaglia me e la mia terra e il popolo argivo che sarà giustamente fedele e alleato per sempre"(vv. 289-291). Con questi versi Eschilo vuole dare una base mitico-religiosa alla lega stipulata tra gli Ateniesi e gli Argivi , successivamente al “maggiore errore politico”[1] commesso da Cimone che nel 462 portò aiuto agli Spartani in guerra contro gli Iloti ribelli. Il contingente ateniese venne bruscamente congedato e fallì la politica filospartana di Cimone che fu ostracizzato dagli Ateniesi (461 a. C.). Argo approfittò di tale alleanza per stabilire il suo dominio su Micene e Tirinto. “Nell’alleanza con Argo si intravede anche una motivazione ideologica: Argo aveva trasformato il suo regime in democratico, e le Supplici di Eschilo, datate ormai tra il 463 (o il 466), e il 461 a. C., ne sono un interessante riscontro. Contro l’oligarchica Sparta, l’intesa con Atene ha un profilo ideologico”[2]

Oreste dunque si fa portavoce anche della nuova tendenza antispartana propugnata da Pericle. La corifèa  però cerca di annientarlo apostrofandolo con un:"dissanguato nutrimento dei demoni, ombra"(v.302).
E’ di nuovo l’attualizzazione del mito. A questo proposito sentiamo Dodds: “Argos is not yet a democracy. But Athens, is, or so it would appear. The curious circumstance that in the Eumenides, alone among greek tragedies, Athens lacks a king has hardly received the attention it deserves. True, ‘the sons of Theseus’ are casually mentioned at line 402; but even if this means Akamas and Demophon rather than the Athenians generally (a point which is open to doubt), they are plainly not sovereign. The only sovereign is Athena, cwvra~ a[nassa (288). She it is who, exercising the same royal function in the Supplices, wheighs the grounds for accepting or rejecting the suppliant’s claim; she it is who in the trial scene takes the place of the a[rcwn basileuv~. In mythical time, as her first words show (397-4029, we are still within a few years of the Trojan war, but in historical time we have leapt forward to a new age and a new social order. This telescoping of the centuries is characteristic of the Eumenides, and I believe essential to his purpose. The Athenian audience must have begun to be aware of it when at line 289 Orestes provides a mythological ai[tion for the recent alliance with Argos; and when in the next breath he speculates on the possible presence of Athena in Libya, ‘helping her friends’ (295), I imagine they asked themselves ‘What friends?’ and quickly guessed the answer: ‘Of course, our other ally, those Libyans whose king we are just now helping to break the yoke of Persia.’  ( That the actual campaigns of 459 and 458 were fought not in Lybia but in the Delta is true, so far as our limited knowledge goes, but surely unimportant. The ancients had no war correspondents and no maps of front. Probabily neither the poet nor the majority of this audience would be in position to know just where the battles were taking place; what they would know is that many of their kinsfolk were overseas, fighting for the Libyans. The phrase cwvra~ ejn tovpoi~ Libustikh`~ (292) is in fact studiously vague[3], while the reference to Lake Triton is added only for the sake of the necessary mythological link)[4], Argo non è ancora una democrazia. Ma Atene lo è, o così vorrebbe apparire. La curiosa circostanza che nelle Eumenidi, unica fra le tragedie greche, Atene non ha un re, ha ricevuto appena l’attenzione che merita. E’ vero che ‘i figli di Teseo’ sono casualmente menzionati al v. 402; ma anche se questo significa Acamante e Demofonte piuttosto che gli Ateniesi in generale (un punto che è aperto al dubbio), essi sono chiaramente non regnanti. L’unica sovrana è Atena, cwvra~ a[nassa (288). E’ lei che, esercitando la stessa funzione regale che Pelasgo nelle Supplici, pesa le ragioni per accettare o respingere la richiesta del supplice; è lei che nella scena del processo prende il posto dell’arconte basileus.  Nei tempi mitici, come le sue prime parole mostrano (397-402), noi siamo ancora entro pochi anni dalla guerra di Troia, ma nel tempo storico noi siamo balzati avanti in una nuova età e in un nuovo ordine sociale. La condensazione dei secoli è caratteristica delle Eumenidi, e io credo essenziale al suo scopo.
Il pubblico ateniese deve avere cominciato ad essersene accorto quando, al v. 289, Oreste procura un ai[tion mitologico per la recente alleanza con Argo; e quando nel successivo respiro egli fa una congettura sulla possibile presenza di Atena in Libia, ‘soccorrendo gli amici’ (v.295[5]), io immagino che che si chiedesse ‘Quali amici?’ e ben presto indovinassero la risposta: ‘Naturalmente, l’altro nostro alleato, quei Libici il cui re noi proprio ora stiamo aiutando a spezzare il giogo della Persia.’ (Che le reali campagne del 459 e 458 fossero combattute non in Libia ma sul Delta, è vero, fin dove la nostra limitata conoscenza arriva, ma sicuramente non ha importanza. Gli antichi non avevano corrispondenti di guerra né mappe del fronte. Probabilmente né il poeta né la maggioranza del suo pubblico era in grado di sapere dove le battaglie avevano luogo; quello che essi potevano sapere  è che molti del loro parenti erano oltremare, combattendo per i Libici. La frase “nei luoghi della terra libica” (292) è di fatto volutamente vaga, mentre ilriferimento al lago Tritone è aggiunto solo in grazia del necessario legame mitologico.

Nell'Agamennone (del 458) del resto Ares viene definito "oJ crusamoibo;" d j [Arh" swmavtwn"(v.437), il cambiavalute dei corpi, nel senso che la guerra distrugge le vite e arricchisce gli speculatori.
 invece di uomini
urne e cenere giungono
alla casa di ciascuno"(434-436).

Secondo Gaetano De Sanctis, Eschilo con questa tragedia ha voluto mettere in guardia gli Ateniesi"contro le guerre ingiuste, pericolose e lontane, onde tornano, anziché i cittadini partiti per combattere, le urne recanti le loro ceneri. La lista dei caduti della tribù Eretteide mostra quale eco dovesse avere nei cuori tale monito durante quella campagna d'Egitto (anni 459-454) in cui fu impegnato il fiore delle forze ateniesi"[6].



 
Nel Primo Stasimo (vv.307-396) le Erinni danzano e cantano "un canto di orrore"(v.308) mentre Oreste si tiene avvinghiato alla statua di Atena. L'"inno" delle Furie è "un laccio per la mente, senza accompagnamento di lira (u[mno~ajfovrmikto~), aridità per i mortali"(vv. 331-333, ripetuti, vv. 343-346, in ejfuvmnion, ritornello).
“Gli esseri sotterranei aborriscono la musica, ve. Eschilo, Eum. 331 u{mno~ ejx j Erinuvwnajfovrmikto~, “l’inno senza cetra delle Erinni”, e l’ingresso di Orfeo nell’Ade commuove le ombre dei morti e gli dèi inferi tramite il suono della cetra che non risuona mai tra i defunti”[7].
Mi pare che questo pensiero di Guidorizzi contenga una contraddizione.
  Le Erinni dunque minacciano la distruzione del pensiero, dell'arte e della stessa vita umana, se non verranno riconosciuti i loro diritti, prima di tutti quelli della vendetta
 Infatti queste creature si proclamano "le venerande memori delle colpe"(vv. 382-383); dunque il coro delle Erinni rivendica " una dignità antica” per la quale, precisa, “non accetto il vituperio, anche se occupo un posto sotto terra e la tenebra nemica del sole"(vv. 393-396).

Queste donne spaventose di tanto in tanto si affacciano nella letteratura europea: vengono utilizzate dagli autori di visione  ampia. Nell’Inferno dantesco Virgilio, dopo avere individuato “le meschine[8]/ della regina dell’etterno pianto”, le mostra a Dante :"Guarda-mi disse- le feroci Erine"[9].
 Goethe  le mette in scena, con altro aspetto, nel Faust , dove l’araldo le presenta con queste parole  :"Le Furie, sono!... E non mi crederete!- Vaghe, ben fatte, giovani, attraenti.- Accostàtele un poco, e proverete- che le colombe han morsi di serpenti. Son false, sì! Ma in questo dì nel quale-ogni folle de’ suoi vizii si sfama,-non pretendon di angeli la fama,-si confessano pèste e fortunale"[10].
Poco più avanti (Galleria oscura) compaiono le Madri che spaventano Faust e inquietano Mefistofele il quale dice: “ A malincuore, svelo un grande enigma.-Auguste dèe, troneggiano-in una sconfinata solitudine.-Nessun paese, intorno.E tempo, ancora meno.-A parlar di lor, ci si sconcerta.-Son le Madri!
Faust (con un sussulto di spavento) Madri?
Mefistofele
Rabbrividisci?
Faust
Madri! Madri! Misterioso suono!
Mefistofele
E misteriose sono!-A voi mortali sconosciute iddie,-a noi demonii nominarle spiace.-Per rintracciarne la dimora occulta,-ti occorrerà frugare-nel più profondo baratro.- La colpa è tua, se d’esse abbiam bisogno”[11].

 Il narratore del Doctor Faustus di T. Mann, il professore umanista Serenus Zeitblom, spiegava dalla cattedra agli scolari del liceo “come la civiltà consista veramente nell'inserire con devozione, con spirito ordinatore e, vorrei dire, con intento propiziatore, i mostri della notte nel culto degli dei"[12]. E’ quello che ha fatto Eschilo. E’ il caos che si fa cosmo.
Alla fine dell’Orestea le Erinni diventano Eumenidi: “ Dopo l’intervento razionale di Atena, le Erinni-forze scatenate, arcaiche, istintive, della natura-sopravvivono: e sono dee, sono immortali. Non si possono eliminare, non si possono uccidere. Si devono trasformare, lasciando intatta la loro sostanziale irrazionalità: mutarle cioè da “Maledizioni” in “Benedizioni”. I marxisti italiani non si sono posti, ripeto, questo problema”[13].
La visione orrenda delle Erinni spunta davanti agli occhi di Oreste già nelle Coefore , quando l'assassino della madre le vede quali donne "simili a Gorgoni/dalle nere tuniche e intrecciate/di fitti draghi"(vv.1048-1050). Tali mostri sono"le rabide cagne della madre" (v1054) che appaiono soltanto al matricida:" uJmei'~ me;n oujc oJra'te tavsd  j, ejgw; d ‘ oJrw'”, voi non le vedete queste, ma io le vedo"(1061). Le Furie lo incalzano: “ejlauvnomai de; koujkevt j a]n meivnaim j ejgwv” (v. 1062), sono sospinto e non posso più restare io.
T. S. Eliot pone questi versi quale epigrafe di Sweeny agonista (1930), :" You don’t see them, you don’t-
But I see them: they are hunting me down, I must move on”.
Nel dramma La Riunione di famiglia (1939)   Eliot mostra come tali visioni siano un privilegio.
Secondo l'autore di The waste land  bisogna seguire le Erinni come segni mandati da un altro mondo, non cercare invano di evitarle con un'impossibile fuga in quella "deriva infinita di forme urlanti in un deserto circolare" che è la storia umana. Quelli che vedono le Erinni insomma, sono monocoli in una terra di ciechi.
Non sempre del resto c’è redenzione dopo un delitto del genere: Nerone, dopo avere ammazzato Agrippina (59 d. C.) sebbene rassicurato dalle congratulazioni dei soldati, del Senato e del popolo: “neque tamen conscientiam sceleris…aut statim aut umquam ferre potuit, saepe confessus exagitari se materna specie verberibusque Furiarum ac taedis ardentibus” (Svetonio, Neronis vita, 34), tuttavia non poté subito né poi sopportare il rimorso del delitto, e spesso confessò di essere tormentato dalla visione della madre e dalle fruste e dalle fiaccole ardenti delle Furie. 
Nerone del resto amava interpretare sulla scena la parte di Oreste, ossia del matricida assolto.



continua



[1] D. Musti, Storia greca, p. 337.
[2] D. Musti, Storia greca, p. 350.
[3] Despite Dover, op. cit. 237, it should be remembered that ‘Libya’ was a general name for the African continent, and that its frontiers wew uncertain (Pind. Pyth. 9. 9 and schol, Hdt, 2. 16).
[4] Dodds, The ancient concept of progress, p.  47.
[5] Fivloi~ ajrhgou~’
[6] Storia dei Greci , II vol., p.91
[7] Avezzù-Guidorizzi, Edipo a Colono, p. 343.
[8] Schiave.
[9] Inferno, 9, vv. 42-43 e 45.
[10] J. W. Goethe, Faustseconda parte, I atto, Gran Salone.
[11] Faust, in Goethe Opere, trad it. Sansoni, Firenze, 1970, p. 1102.
[12]T. Mann, Doctor Faustus ,  pp. 12 e 14.
[13] P. P. Pasolini, Le belle bandiere, p. 54.

domenica 28 febbraio 2016

Introduzione alla tragedia greca: Eschilo. Parte IV

incisione di A. De Carolis

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La follia metodica dei sogni (Eumenidi, v. 116, p. 36).
Freud  sostiene che "ogni sogno si rivela come una formazione psichica densa di significato"[1] e che nella follia onirica, come in quella di Amleto, c'è un metodo. L'autore di L'interpretazione dei sogni  riconosce il suo debito alla letteratura classica:"Non diversa era l'opinione degli antichi sulla dipendenza del contenuto onirico dalla vita" (p. 29). Quindi cita un episodio di Erodoto, grosso modo, e, in latino dei versi di Lucrezio:"Et quo quisque fere studio devinctus adhaeret,/aut quibus in rebus multum sumus ante morati/atque in ea ratione fuit contenta magis mens,/in somnis eadem plerumque videmur obire:/causidici causas agere et componere leges,/induperatores pugnare ac proelia obire,/nautae contractum cum ventis degere bellum,/nos agere hoc autem et naturam quaerere rerum/semper et inventam patriis exponere chartis [2]", De rerum natura , IV, 962-970, e quasi sempre l'attività cui ciascuno è strettamente legato, o ciò su cui ci siamo molto intrattenuti prima, e in quel meditare si è più contenuta la mente, questi medesimi pensieri per lo più ci sembra di incontrare nei sogni:  gli avvocati trattano cause e confrontano leggi, i generali combattono e affrontano battaglie, i marinai continuano la guerra ingaggiata coi venti, noi facciamo quest'opera, e indaghiamo la natura sempre, e, scopertala, la esponiamo in carte latine.
L'inventore della psicoanalisi  utilizza  molto i classici ed è interessante se non altro quale saggista letterario.
Il sogno dunque è spesso l'appagamento mascherato di un desiderio rimosso; in altre parole le idee latenti nel presentarsi si camuffano, quindi, per conoscerle, bisogna cavar loro la maschera.  Allora bisogna tenere conto della condensazione per cui "ogni situazione porta la traccia di due o più reminiscenze della vita reale...non è neanche raro che il processo del sogno si diverta a formare un'immagine composta con due idee contrastanti; per esempio una giovane donna sogna di portare un ramo fiorito, quello dell'angelo nei quadri dell'Annunciazione (simbolo d'innocenza; questa giovane si chiama Maria). Soltanto, in questo caso, il ramoscello porta dei fiori bianchi e carnosi simili alle camelie. (Il contrario dell'innocenza: la signora dalle camelie)"[3].
La condensazione onirica tra l'altro può spiegare gli ibridi mostruosi della mitologia e della letteratura.
Poi, sempre per risalire alla parte latente, e vera, si deve considerare lo spostamento psichico o spostamento nel sogno:"tutto ciò che vi era di essenziale nelle idee latenti è rappresentato nel sogno da particolari secondari"[4]. Per giunta le idee latenti si manifestano travestite, attraverso immagini:"Tali idee non ci si presentano sotto la forma verbale più riassuntiva possibile, con la quale noi abbiamo l'abitudine di concretare i nostri pensieri, ma il più delle volte trovano un mezzo simbolico per esprimersi, il mezzo di cui si serve il poeta che nella sua opera fa uso di raffronti e di metafore"(p. 67). Il sogno infatti si rappresenta "con una serie di immagini visive" (p. 68) le quali sono alimentate dai ricordi che hanno lasciato maggiore impressione e "la cui origine risale addirittura alla prima infanzia". Le idee latenti, dicevamo, si mascherano perché la coscienza non le ammette, e i sogni, che si formano con lo stesso procedimento dei sintomi nevrotici e dei lapsus, "sono realizzazioni velate di desideri inibiti"(p. 102).
Subito dopo Freud suddivide i sogni "dal punto di vista di realizzazione di desideri...in tre categorie: in primo luogo sta il sogno che senza camuffamenti rappresenta un desiderio non inibito. E' questo il sogno di tipo infantile che diviene sempre meno frequente man mano che il fanciullo cresce...In secondo luogo abbiamo il sogno camuffato che rappresenta un desiderio inibito. La maggior parte dei nostri sogni è di questo tipo ed ecco perché non possono venir compresi senza l'analisi...Infine viene il sogno che esprime un desiderio inibito senza travestimento o con un travestimento molto ridotto. Quest'ultimo sogno è sempre accompagnato da una sensazione di angoscia che lo costringe all'interruzione" (p. 103).
Un caso di visione notturna che rappresenta un desiderio non camuffato è quello di Medea nelle Argonautiche di Apollonio Rodio: la ragazza sogna che Giasone sia andato nella Colchide non per il vello d’oro, ma per lei: per portarla nella sua casa come legittima sposa (3, 619 sgg.). “Si tratta di un sogno “fotografico”, in cui il desiderio compare nella sua trasparenza, praticamente senza l’intervento della condensazione e dello spostamento…Nella poesia antica il sogno aveva sempre un carattere premonitore e allegorico: qui invece per la prima volta si configura come chiara realizzazione di desiderio”[5].


Clitennestra che è "un sogno"(v. 116), continua a incitarle.
Sicché le vergini Erinni si svegliano con  mugolìi e  gemiti. La corifèa quindi grida: "prendilo prendilo prendilo prendilo; stai attenta!"(labe; labe; labe; labe;: fravzou, v. 130), con un uso ossessivo della paratassi che indica la primitività di queste creature di queste creature [6].
 La madre assassinata, vedendo le sue vendicatrici che si muovono, le incita: "tu soffiandogli contro un soffio di sangue,  emaciandolo con l’alito, con il fuoco del ventre (nhduvo~ puriv), incalzalo, consumalo con un secondo inseguimento"(Eumenidi, vv.137-139). Il fuoco del ventre rappresenta la paura del sesso della donna. Vengono in mente le varie lupe, culminanti in quella di Verga:"Al villaggio la chiamavano la Lupa perché non era sazia giammai di nulla. Le donne si facevano la croce quando la vedevano passare, sola come una cagnaccia[7], con quell'andare randagio e sospettoso della lupa affamata; ella si spolpava i loro figliuoli e i loro mariti in un batter d'occhio, con le sue labbra rosse, e se li tirava dietro alla gonnella solamente a guardarli con quegli occhi da satanasso"(La Lupa ).
 La Parodo (vv. 143-177) è piena dei lamenti delle Erinni. Esse si dolgono degli "dèi nuovi"( oiJ newvteroi[8] qeoiv, v. 162) che governano l'universo trascurando la giustizia[9].  L'ombelico della terra è insozzato di sangue (v.166). Ma ci penseranno loro a vendicare la madre punendo il colpevole.
All'inizio del Primo episodio (vv.179-243) Apollo esce dal tempio con l'arco teso contro le Erinni, ordinando loro di "uscire subito fuori"(v.179) poiché la loro sede non è quella delfica, bensì i luoghi:"dove si tagliano teste, dove si strappano gli occhi con processi e supplizi, e si distruggono i semi e si danneggia la virilità dei ragazzi (paivdwn kakou'tai clou'ni~), e ci sono mutilazioni, lapidazioni, e mugghiano con lunghi gemiti quelli trafitti nella schiena"(vv. 186-190).
 Dunque esse devono abitare in un "antro di leone che ingozza sangue"(v. 193).
 Insomma queste divinità più antiche rappresentano il dolore, la miseria, e possono essere venerate solo da gente per la quale la vita è tortura e strazio.
Segue un dibattito tra Apollo e le Erinni. Il dio ricorda che la donna uccisa dal figlio, aveva ammazzato il suo sposo (v. 211), e la corifèa ribatte che la moglie non si macchiò del delitto di un consanguineo (v. 212). E' dunque vincolante solo il legame di sangue per l'antichissima religione. Un vincolo molto sentito da Sofocle.
Apollo replica che esistono anche patti di fedeltà sanciti dal matrimonio e, per giunta:" Viene disonorata e buttata via da questo discorso Cipride, dalla quale ai mortali derivano le gioie più care. Il letto infatti per l'uomo e la donna è fatale (eujnh; ga;r ajndri; kai; gunaiki; movrsimo~), è più grande del giuramento (o{rkou  jsti meivzwn), ed è protetto dalla giustizia"(vv. 215-218).
Il letto, vedremo è il mobile più importante della casa nell'Alcesti  di Euripide (vv. 177 e sgg.), e nella Medea  è un nodo di affetti così sacro e forte che, se l’uomo unilateralmente lo scioglie o lo taglia, rende la donna feroce (vv. 265-266).
Ma l'Erinni corifèa risponde: "mi aizza il sangue della madre"(230), e aggiunge che per questo motivo non può cessare di dare la caccia a Oreste.

Quindi la scena si sposta sull'Acropoli di Atene dove Oreste abbraccia la statua della dea e la supplica di accoglierlo benigna (v. 236).
Poi rientra il coro delle Erinni (Epiparodo) e la corifèa ribadisce la loro feroce determinazione di cacciatrici del matricida: "infatti come un cane fa con un cerbiatto ferito, noi seguiamo le tracce del sangue che goccia"(vv.246-247).
La portavoce della banda sembra eccitata da una voluttà depravata di sguazzare nel sangue: "mi arride l'odore di sangue umano"(v.253).
Quindi le Erinni si incitano a vicenda: "liquido sangue materno versato a terra, oh, non si raccatta: il liquido versato al suolo è perduto. Ma bisogna che tu in cambio mi dia che da te vivo possa ingozzare denso liquido rosso dalle membra"vv. 261-265).
 L'offesa alla madre è un peccato per il quale non c'è remissione.
 Perciò Oreste deve morire ed essere trascinato sotto terra dove si trova " chi tra i mortali ha peccato commettendo sacrilegio contro dio o un ospite o i propri genitori"(vv. 269-271), trasgressioni considerate gravissime, lo abbiamo visto, già nelle Supplici,  poi ricordate, sia pure in un contesto comico e con qualche variante, da Aristofane che nelle Rane  scrive: "poi vedrai molto fango e sterco perenne, e in esso attuffati  chi una volta ha maltrattato l'ospite, o eccitando un ragazzo lo ha derubato, o ha battuto la madre o ha percosso la mascella del padre[10] o ha giurato un giuramento falso"(vv. 145-150).
Luogo simile nell'Eneide dove sono elencati, con ampliamenti dovuti ai programmi restauratori di Augusto,  i grandi criminali del Tartaro. Dopo varie figure del mito, ecco i delinquenti umani :" Hic quibus invisi fratres, dum vita manebat,/ pulsatusve parens et fraus innexa clienti,/aut qui divitiis soli incubuere repertis/nec partem posuere suis (quae maxima turba est./quique ob adulterium[11] caesi, quique arma secuti/impia nec veriti dominorum fallere dextras""(Eneide, VI, vv. 608-613), qui ci sono quelli dai quali furono odiati i fratelli, finché la vita restava, o fu maltrattato il padre[12], o frode fu ordita al cliente, o quelli che da soli si stesero sulle ricchezze trovate e non ne fecero parte al prossimo loro (che è la masnada più grande), e quelli ammazzati per adulterio, e quelli che armi seguirono empie e non esitarono a ingannare la fede dei padroni.
Tra i dieci comandamenti dettati da Dio a Mosè si trova
“Onora tuo padre e tua madre.
Non uccidere.
Non commettere adulterio”. (Esodo, 20).


continua



[1]L'interpretazione dei sogni , (del 1900)  p. 23.
[2] Gli ultimi tre versi non compaiono nella citazione freudiana.
[3]Freud, Il sogno e la sua interpretazione ,  (del 1900) pp. 45 e 53
[4]Freud, Il sogno e la sua interpretazione ., p. 59
[5] Massimo Fusillo, Apollonio Rodio in Lo spazio letterario della Grecia antica, Volume I, Tomo II, L’Ellenismo, p. 123
[6] Così la prima strega del Macbeth  di Shakespeare minaccia, con l’ aggiunta di un anticipo di nonsense: “una moglie di marinaio aveva nel grembiale delle castagne, e masticava, masticava, masticava. "Dammi qua" feci io. "Vai via strega !" grida quella carogna rimpinzata. Suo marito è andato ad Aleppo, capitano della Tigre. Ma io farò vela per colà imbarcata in uno staccio. And like a rat without a tail-I'll do, I'll do and I'll do" (I, 3), come un topo senza coda io farò e farò e farò.
[7] In I Malavoglia troviamo:"quella cagna della Vespa" (XV cap).
[8] A Roma nell'età di Cesare e Catullo si chiamavano così i poeti che volevano raffinare le lettere latine, snellirle, ma erano guardati con sospetto dai tradizionalisti
[9] La lotta tra vecchi e nuovi dèi si trova pure nei Veda  (dove si chiamano Asura e Deva) e nella mitologia scandìnava (Asi e Vani).
[10] Questo spauracchio non distoglie  Fidippide, il giovane delle Nuvole  corrotto dalla cattiva educazione di Socrate, dal picchiare il padre Strepsiade; e l'antica tradizione che inculca il rispetto per i genitori e gli anziani non gli impedisce di coonestare l'atto empio con ragionamenti sofistici. 
[11] Si pensi alla volontà augustea di reprimere l’adulterio dilagante e di incoraggiare la monogamia matrimoniale. Essa verrà codificata, invano, dalla lex Iulia de adulteriis coercendis, dalla lex Iulia de maritandis ordinibus ( entrambe del 18 a. C.) e  dalla lex Papia Poppaea (  del 9 d. C. ). Seneca nel De beneficiis mette in rilievo la diffusione di poliandria e  poligamia : “Numquid iam ullus adulterii pudor est, postquam eo ventum est, ut nulla virum habeat, nisi ut adulterum inritet? Argumentum est deformitatis pudicitia”(III, 16, 3), c'è forse più un poco di vergogna dell'adulterio, dopo che si è arrivati al punto che nessuna donna ha il marito, se non per stimolare l'amante? La pudicizia è indizio di bruttezza. Si ricordi anche l'irrisorio "casta est quam nemo rogavit di Ovidio (Amores, I, 8, 44), è casta quella cui nessuno ha fatto proposte.
[12] Trattare male i genitori dunque è un peccato classico. Della mancanza di affetto e comprensione per il proprio padre dovrà dolersi a lungo lo Zeno di Svevo dopo lo schiaffo e la morte di lui:"Magari mi fossi comportato con semplicità e avessi preso fra le mie braccia il mio caro babbo divenuto per malattia mite e affettuoso!"( La coscienza di Zeno, p. 59.).
Così pure il protagonista dell'autobiografico Il male oscuro  di Giuseppe Berto conclude il suo romanzo con queste parole:"si è fatto tardi ma innaffierò egualmente l'orto e stasera proverò a portare i due bidoni pieni come faceva mio padre può darsi che ce la faccia senza versare l'acqua né cadere, e poi sarà tempo di dire Nunc dimittis servum tuum Domine, forse è già tempo"(p. 416). 

venerdì 26 febbraio 2016

Introduzione alla tragedia greca: Eschilo. Parte III

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Bruno Snell sostiene che nella tragedia di Eschilo “l’uomo riconosce per la prima volta se stesso come autore delle sue decisioni”[1]. Infatti mentre “gli uomini omerici agiscono senza titubanza, con sicurezza, poiché nessuno scrupolo, nessun dubbio li tormenta, nessuna responsabilità di fronte alla giustizia e all’ingiustizia”, nelle tragedie di Eschilo invece “l’uomo, mentre acquista coscienza della propria libertà, assume il peso della responsabilità personale di fronte all’azione. Meglio di tutte lo dimostra l’ultima trilogia di Eschilo, l’Orestiade… Oreste ha il dovere di vendicare il padre, ma per vendicarlo dovrà uccidere la madre. Egli compirà quest’azione, ma soltanto dopo aver sentito tutta la gravità della sua decisione. Il contrasto fra libertà individuale e destino, fra colpa e fatto, si presenta così per la prima volta nel mondo, ed è questo contrasto che divide il mondo degli dèi da quello degli uomini. Oreste si trova preso tra i voleri contrastanti degli dèi, anzi l’ultima parte della trilogia finisce con la lotta fra le potenze nemiche, fra le Eumenidi cioè che vogliono vendicare il matricidio di Oreste, e Apollo che alla fine lo assolve”. Si tratta di una lotta tra matriarcato e patriarcato che prevale minimizzando il ruolo delle madri nella società e perfino nella generazione dei figli. Ma questo aspetto lo vedremo meglio più avanti.
Procediamo con il libro di Snell: “ Queste due divinità pongono all’uomo diverse esigenze, questi si trova, in un certo senso, abbandonato a se stesso. I valori univoci vengono messi in forse, l’uomo si arresta nello svolgimento naturale della sua azione e deve decidere da sé che cosa sia giustizia e che cosa ingiustizia. Un’umanità nuova e una nuova naturalezza si rivelano in lui: la consapevolezza della libertà e dell’azione autonoma. Così egli si scioglie necessariamente dai suoi antichi legami religiosi e sociali, e si giunge a quello stato di cose, per cui Aristofane rimprovera così aspramente Euripide”[2]. Stato di cose e rimproveri che vedremo studiando Euripide.
Il conflitto tra le divinità si trova anche nel tragediografo più giovane: “L’Ippolito di Euripide ha in comune con l’Orestiade di Eschilo il fatto che il conflitto del dramma trova riscontro nel conflitto fra due divinità. Una differenza essenziale è data però dal fatto che il conflitto fra gli dèi non sorge in Euripide per un determinato caso, ma è piuttosto una lotta di principî; e non si tratta qui di un’azione giudicata in modo diverso da due diverse divinità, che vengono a conflitto. Ancora: nella tragedia di Eschilo Apollo trionfa sulle Erinni, e una religione più serena prevale sulle antiche forme tenebrose del culto; la conclusione della tenebrosa vicenda acquista così un profondo significato. In Euripide invece tutti e due i protagonisti vengono annientati e il conflitto delle due divinità rimane inconciliabile”[3].

Alla fine delle Supplici, le Danaidi pregano la casta Artemide di guardarle con compassione salvandole dalle nozze, ma le loro ancelle affermano e consigliano di non trascurare Cipride. Anche Afrodite è una dea venerata per le sue opere. Del suo corteggio fanno parte Desiderio, Persuasione seducente, e Armonia. Il pensiero di Zeus è imperscrutabile e il matrimonio potrebbe essere la realizzazione delle figlie di Danao come di molte donne prima di loro (vv. 1049-1052).
La tragedia si conclude con le minacce dell'arrogante araldo egiziano contro gli Argivi difensori delle Danaidi le quali oppongono resistenza a ogni tentativo di moderarle. Esse pregano Zeus "di liberarle da nozze rovinose con sposi malvagi"(v. 1064) e che "conceda la vittoria alle donne"( kai; kravto" nevmoi gunaixivn, v. 1069).
 Eschilo tende ai compromessi e nelle sue tragedie non c'è mai un vincitore assoluto. Alla fine della trilogia, Afrodite stessa compariva sulla scena celebrando la necessità cosmica di Eros. Non possiedo queste parole, tramandate dalla tradizione indiretta, e mi affido al già citato testo di Pohlenz:" Mia opera è quando il cielo e la terra si congiungono in un ardente amplesso, quando l'umore del cielo feconda la terra, sì ch'essa in pascoli, in campi, in selve, genera ciò di cui l'uomo abbisogna per vivere". L'eros , il desiderio d'amore non è solo un istinto individuale dell'uomo; è una potenza cosmica primigenia che suscita ogni vita. Questo pensiero, che Platone svilupperà nel Convito , vien qui già intuitivamente adombrato. Risparmiando il marito, anche Ipermestra ha reso omaggio alla dea dell'amore"[4].

Ora vediamo come si arriva alla conciliazione delle Eumenidi  (Eujmenivde~) raccontando l’ultima tragedia dell’Orestea per sommi capi. Le Eumenidi sono le stesse Erinni che solo alla fine dell’ultima tragedia tragedia della trilogia, e dopo aspra lotta, diverranno, appunto, benevole.
La prima parte del dramma si svolge a Delfi. Nel Prologo  compare la Pizia sacerdotessa di Apollo,"profeta di Zeus"(v.19). La donna è una figura che impersona il sincretismo religioso cui Eschilo tende, quindi ella adora anche Gea, la Terra "che fu la prima profetessa"(v. 2) e Temide che nel Prometeo incatenato è la madre del Titano identificata con la terra[5], mentre qui Temide è figlia della Terra cui succedette nell'oracolo (v. 3); poi fu la volta di Febe, un'altra figliola della Terra, che consegnò l'oracolo ad Apollo il quale prese così il nome di Febo quando arrivò "alle sedi del Parnaso"(v. 11).
il culto della Pizia del resto non dimentica "Pallade Pronáia[6]" (v. 21) , né le ninfe della "cava rupe Coricia, amica degli uccelli"(v. 23). Insomma la toponomastica definisce e consacra il luogo che verrà rappresentato da tanta parte della poesia europea: Ovidio nelle Metamorfosi (I, vv. 316-317) fa apparire la montagna sacra dalle due cime in questi termini:"mons ibi verticibus petit arduus astra duobus,/nomine Parnasus, superantque cacumina nubes ", là  l'erto monte chiamato Parnaso mira alle stelle con le due vette, e i gioghi vanno oltre le nubi. Dante all'inizio del Paradiso  dovrà invocare "amendue[7]" (I, v. 17) i gioghi "di Parnaso" per entrare "nell'aringo rimaso"(v.18).
La profetessa non trascura Bromio il quale “occupa il luogo da quando il dio si mise a capo della guerra delle Baccanti "(vv. 24-25).
Questo è Dioniso, il dio delle plebi, il cui culto durò fatica ad affermarsi accanto a quello aristocratico di Apollo. Omero nell'Iliade (VI, vv. 130-140) racconta un episodio di repressione del culto dionisiaco. Euripide con le Baccanti  invece narra l'affermarsi della religione bacchica  tra le donne di Tebe e pure lui annuncia il compromesso tra le due religioni e le due culture: l'apollinea e la dionisiaca
"inoltre tu lo vedrai anche sulle rupi delfiche saltare con fiaccole di pino sul pianoro dalle due cime, agitando e scuotendo il ramo bacchico, grande per l'Ellade"( Baccanti, vv.306-309).
Sentiamo “il grande junghiano”[8] James Hillman:
“Il richiamo di Dioniso tende a scompaginare il corso normale della civiltà, e infatti Atena, la sua saggia custode, vietava l’ingresso del capro di Dioniso nel proprio territorio. Dioniso, “Signore delle donne”, chiamava a partecipare ai suoi riti entrambi i generi e tutte le età della vita. Per seguirlo nelle sue danze selvagge sulle colline, le donne invasate abbandonavano i doveri domestici. Nelle Baccanti di Euripide, due vegliardi dai capelli grigi accorrono per danzare con lui “tutta la notte e tutto il giorno. E’ difficile, negli anni vacillanti, impotenti ma pieni di fantasie della vecchiaia, accettare il fatto di essere seguaci di Dioniso più di quanto lo si sia mai stati in gioventù, quando ci vedevamo come grandi scopatori dall’appetito insaziabile”[9]
Questa affermazione del culto di Bacco fu pagata con la morte dall'oppositore Penteo, ucciso dal dio che "tessé una trama di morte contro Penteo, come fosse una lepre lagw; divkhn", ricorda la Pizia ( Eumenidi, v. 26) [10]. Le ultime invocazioni della profetessa vanno, oltre che alla potenza di Poseidone, alle fonti del fiume Plisto, e a Zeus.

Quindi la Pizia entra nel tempio, ma ne esce subito sgomenta: ha visto:"sull'ombelico, un uomo esecrato dagli dèi, in posizione di supplice, con le mani che gocciano sangue" (Eumenidi, vv.40-42). Queste reggono la spada del matricidio e un ramo d'olivo avvolto in bende di lana. Vicino a lui "una strano battaglione di donne dorme stando sopra i sedili, nemmeno donne, ma Gorgoni dico"(vv.46-48), anzi peggiori delle Gorgoni, simili ad Arpie, ma ancora più brutte:" senza ali a vedersi queste, e nere e abominevoli, e russano con aliti inavvicinabili e dagli occhi stillano sgradevoli umori"(vv. 51-54).
 Tali creature, ricorda Rohde in Psiche, "appartengono a quella "mitologia inferiore", che raramente penetra in Omero, la quale vorrebbe conoscere molte cose che stanno fra cielo e terra, di cui l'epos aristocratico non ha notizia alcuna. In Omero esse non operano di propria autorità; ma soltanto come ancelle degli dèi o di un dio, rapiscono i mortali trasportandoli là, dove non penetra nessuna notizia e potenza umana" (p.76).

Quindi interviene Apollo a maledire: "le abominevoli ragazze vecchie fanciulle antiche cui non si congiunge mai uno degli dèi né un uomo né una fiera. Per il male esse nacquero, dato che abitano la tenebra[1] malvagia e il Tartaro sotterraneo, odio degli uomini e degli dèi olimpi"(vv. 68-73).
“Il Tartaro è la prigione sotterranea riservata ai peccatori senza speranza e agli dèi prigionieri, il luogo più buio dell’universo: ved. Esiodo, Theog. 720-819.[2]
Il dio consiglia a Oreste di rifugiarsi nella città di Pallade (v. 79), ad Atene, dove egli, il profeta di Zeus, lo farà assolvere dai giudici. Febo dunque si prende la responsabilità dell'accaduto: "Fui io infatti a persuaderti ad ammazzare il corpo della madre"(v. 84). Vedremo che nelle tragedie di Euripide gli dèi non sono altrettanto responsabili. Soprattutto Apollo viene criticato.
 Oreste dunque viene confortato da un Febo coerente e giusto (v.85) che affida il suo protetto al fratello Ermes, poi se ne va.
Quindi appare l'ombra di Clitennestra che rimprovera le Erinni per la loro passività. Esse infatti dormono. Eppure, riconosce la madre assassinata: "l'anima che dorme risplende di occhi, mentre di giorno la parte assegnata ai mortali non vede con chiarezza" (vv.104-105).
 Gli occhi della mente dunque sono più acuti di quelli facciali o della facciata, e la visione notturna può essere chiaroveggente più della vista diurna, spesso fallace, come attestano il cieco Tiresia, Edipo accecatosi, e come del resto ripropone il metodo di Freud.


continua





[1] B. Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo, p. 176.
[2] B. Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo, p. 177.
[3] B. Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo, p. 181
[4]M. Pohlenz, La tragedia greca , p. 61.
[5] Qevmi"-kai; Gai'a, pollw'n ojnomavtwn morfh; miva"( vv. 209-210), Temide e Terra, una sola forma di molti nomi. Prometeo che  è una creatura della Magna mater,  la divinità femminile mediterranea, racconta, poiché "l racconto è dolore, ma anche il silenzio è dolore "(v. 197)  che la madre gli aveva predetto il futuro.
[6] La cui statua cioé si trova davanti al tempio 
[7]Nisa, sede delle Muse, e Cirra sacro ad Apollo.
[8] F. Frabboni, Sognando una scuola normale, p. 105.
[9] La forza del carattere, pp. 167-168.
[10] Questo Dioniso vendicativo e crudele della tragedia di Eschilo ed Euripide invero si trova in contraddizione con quello già menzionato di Omero che nel VI dell'Iliade  lo raffigura mentre "spaventato si immerse nel flutto marino" dove "Tetide lo accolse nel suo seno terrorizzato e tremante "(vv. 133-135) perché aveva subito le minacce e l'inseguimento di "Licurgo omicida"(v. 132). Spaventato appare anche il Dioniso delle Rane   che Aristofane rappresenta mentre  fugge, terrorizzato da Empusa, tra le braccia del suo sacerdote (v. 297). Quindi il servo Xantia ha l'impudenza di apostrofarlo con:" oh tu, davvero il più vigliacco degli dèi e degli uonmini!"(v. 486). Del resto il dio se l'era voluta cacandosi addosso dalla paura (v.479) solo al sentire parlare di mostri.
Questi, si potrebbe obiettare, sono soltanto lazzi scatologici, ossia stercorari, di "quel pagliaccio di Aristofane", ma non dobbiamo dimenticare che il travestimento derisorio di Socrate contribuì alla sua condanna a morte e, dunque bisogna inferirne che tali parodie della commedia antica erano radicate in un sostrato di opinioni correnti e popolari.
Del resto anche il Dioniso di Sofocle non è il nume sanguinario di Euripide: nell'Antigone anzi, se è vero che il dio punisce la violenza di Licurgo, del resto senza spargimento di sangue: ("E fu aggiogato il collerico figlio di Driante re degli Edoni, per le ire oltraggiose rinchiuso da Dioniso in una prigione di pietra",  Antigone, vv. 955-958), è pur vero che il dio rappresenta la gioia giovanile della danza e del libero gioco in termini tanto terreni quanto cosmici:"Oh tu che guidi le danze degli astri che spirano fuoco, custode dei canti notturni, ragazzo progenie di Zeus, appari, signore, insieme con le tue seguaci Tiadi che impazzite, per tutta la notte festeggiano, ballando, Iacco dispensatore"(Antigone, vv. 1146-1152). Una dimensione ludica che viene confermata dall'Edipo re :"sia che il dio bacchico il quale abita sulle cime dei monti ti abbia accolto come trovatello da una delle Ninfe dell'Elicona, con le quali gioca moltissimo"(vv. 1104-1108).
Arriano forse ci dà una spiegazione di queste contraddizioni ricordando che come ci sono tre Eracli diversi, allo stesso modo gli Ateniesi venerano un altro Dioniso,  figlio di Zeus e di Core, e il canto Iacco dei misteri viene intonato a questo Dioniso, non a quello tebano (Arriano, Anabasi di Alessandro,  2, 16, 3).
[1] Sono dunque divinità fatte per quanti preferiscono le tenebre alla luce, poiché, come dice il Vangelo di Giovanni:" erant enim eorum mala opera ", le loro opere erano malvagie(3, 19). 
[2] Avezzù-Guidorizzi, Edipo a Colono, p. 359.