sabato 6 maggio 2017

Il potere. XIX parte

Goya, Pinturas negras

Crimini e vizi del tiranno. Erodoto, Dante, Euripide, Platone

L'uomo che sa pensare si pone il problema di come resistere alla volontà di omologazione del potere, tentando di salvare la propria unicità.
La prima caratteristica del despota, lo abbiamo visto, è l'insofferenza dell'opposizione.
La mania della distruzione delle intelligenze fa parte dalla mente autocratica: sappiamo da Erodoto che la scuola dei tiranni insegna a uccidere gli oppositori in generale, e prima di tutti chiunque dia segni di intelligenza e indipendenza. Periandro di Corinto, quando era ancora tiranno apprendista e la sua malvagità non si era scatenata, accolse il suggerimento di Trasibulo di Mileto il quale: "oiJ uJpetivqeto... tou; " uJperovcou" tw'n ajstw'n foneuvein", gli consigliava di mettere a morte i cittadini che si distinguevano (Storie, V, 92 h). Il despota esperto aveva dato il consiglio criminale in maniera simbolica: mostrandosi a un araldo, mandato da Corinto a domandargli come si potesse governare la città nella maniera più sicura e bella, mentre recideva le spighe più alte di un campo di grano.
Periandro comprese e allora rivelò tutta la sua malvagità (" ejnqau'ta dh; pa'san kakovthta ejxevfaine").
Abbiamo visto che già Otane nel dibattito costituzionale del terzo libro aveva usato l'espressione pa'san kakovthta che, secondo il nobile persiano fautore dell'ijsonomivh, è conseguenza dell' u{bri", la prepotenza, a sua volta originata dall'invidia e dai beni a disposizione del monarca ( "uJpo; tw'n parevontwn ajgaqw'n", III, 80, 3).

Dante individua la presenza del vizio dell'invidia soprattutto nei luoghi del potere: ""La meretrice che mai dall'ospizio/di Cesare non torse li occhi putti, / morte comune, delle corti vizio"[1]. -
La ricchezza e il potere dunque sono occasioni per la malvagità.
E pure per la stupidità: il Coro dell'Eracle di Euripide, dopo la punizione del tiranno Lico, afferma che l'oro, e il successo, spingono i mortali fuori dalla ragione tirandosi dietro un potere ingiusto: " oJ cruso; " a[ t j eujtuciva - frenw'n brotou; " ejxavgetai - duvnasin a[dikon ejfevlkwn" (vv. 774 - 776).
Su questa linea si trova anche Platone il quale chiama in causa Omero che ha rappresentato Tantalo, Sisifo e Tizio "ejn {Aidou to; n ajei; crovnon timwroumevnou"" ( Gorgia, 525e), puniti nell'Ade per sempre: questi erano appunto re e dinasti; mentre Tersite, e chiunque altro sia stato malvagio da privato cittadino ("ijdiwvth"") non ha avuto occasione di fare tanto male, e per questo si può considerare più fortunato dei potenti dai quali provengono "oiJ sfovdra ponhroiv" ( 526a) quelli malvagi assai.

Nel mito di Er, il buffone (gelwtopoiov~, Repubblica 620c) Tersite assume la natura di una scimmia.
Dai capitoli erodotei (III, 80 - 82) ricordati sopra derivano i modelli costituzionali della filosofia (Platone, Aristotele ) e della storiografia (Polibio) successive. E non solo la storiografia greca. Tito Livio attribuisce lo stesso gesto di Trasibulo, con le stesse intenzioni, al re Tarquinio il Superbo il quale indicò al figlio Sesto cosa fare degli abitanti di Gabi con un'analoga risposta senza parole: " rex velut deliberabundus in hortum aedium transit sequente nuntio filii; ibi inambulans tacitus summa papaverum capita dicitur baculo decussisse "( Storie, I, 54), il re quasi meditabondo passò nel giardino della reggia seguito dall'inviato del figlio; lì passeggiando in silenzio, si dice che troncasse con un bastone le teste dei papaveri.
 Il tiranno è invidioso. Infatti l'invidia personificata da Ovidio "exurit herbas et summa papavera carpit" (Metamorfosi, II, 792), dissecca le erbe e stacca le cime dei papaveri.
Un altro tiranno di pessima fama è Falaride che dominò Agrigento tra il 570 e il 555: metteva le sue vittime ad arrostire nella pancia di un toro di bronzo cui sottoponeva un fuoco. Le grida del condannato uscivano dalla bocca del toro come muggiti.
Pindaro scrive che una fama odiosa (ejcqravfavti~) tiene in pugno ovunque Falaride to; n de; tauvrw/ calkevw/ kauth`ra nhleva novon (Pitica I, vv. 95 - 96), la mente spietata che metteva a bruciare nel toro di bronzo.



CONTINUA


[1] Inferno, XIII, vv. 64 - 66. 

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