giovedì 12 settembre 2024

Ifigenia VIII-XI


 

 

Ifigenia VIII. Un  esteta  ridicolo. un seduttore fiacco e un donnaiolo vile. La tigre ircana.

 

Nei giorni successivi alla metà di ottobre studiai Il diario del seduttore di Kierkegaard, Il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde e il Piacere di D’Annunzio per assumere gli atteggiamenti dell’esteta superiore alle convenzioni e mettere alla prova la futura amante. Volevo capire se fosse capace di accettare lo stile dell’ uomo libero e  di libertino. Ifigenia ammirava quelle mie pose ridicole proprio perché stava cercando un’analoga parte per sé e io gliene chiarivo alcuni aspetti.

Recitavo prima di tutti il ruolo  di Giovanni, il seduttore kirkegaardiano o dannunziano che vive una vita obliqua, al congiuntivo,  almanaccante, priva di entusiasmi e slancio, in cerca di eccitazione da parte di una ragazza. Questa doveva versarmi nel petto stanco il torrente della sua fresca, sorgiva vitalità. Ribattezzarmi con il suo sangue fresco. In cambio poteva ricevere  la mia tormentata complessità mentale, la mia cultura che avrebbe dato consapevolezza anche a lei, alla sua vita ancora prevalentemente istintiva.

“Ella è come un fiore, piace dire ai poeti, e perfino quel che in lei c’è di spirituale ha qualche cosa di vegetativo”. Queste parole avevo sottolineato nel libro di Kierkegaard.

Mi sbagliavo: Ifigenia era più disincantata di me: sapeva bene quello che voleva e calcolava tutto.

So che mi riempio di ridicolo scrivendo questo ma scrivere è anche una terapia, una catarsi per l’autore e per il lettore. Avevo deciso di assumere tali pose per non prendermi responsabilità di ordine etico, tanto meno matrimoniale, e anche perché capivo che tali atteggiamenti erano congeniali pure a lei e le piacevano.

Per procedere però dovevamo fare l’amore e io ne avevo ancora paura.

Ifigenia una mattina della terza decade di ottobre mi scavalcò nella posa che avevo preso da una decina di giorni.

Disse: “Ma che tipo di esteta sei tu giovanni ghiselli? Un esteta, un seduttore pusillanime, fiacco e codardo. Anche finto. Tu in realtà sei un moderato, un borghese, un perbenista bigotto: una ragazza giovane assai, quasi una principiante che dovrebbe rappresentare la tua predominante passione, dongiovanni a parole, ti offre l’amore come unità della carne e del sangue e tu lo rifiuti mentre continui a chiacchierare senza costrutto”.

Mi trovai spiazzato da tanto ardimento e da tale aggressività.

Le risposi con sforzo e imbarazzo, parafrasando il testo di Kierkegaard: “Io non ci tengo a possedere una ragazza in senso esteriore, voglio prima goderla mentalmente e artisticamente. Poi, per dirla tutta, aborrisco il fidanzamento. Roba da ciabattini. Di tutte le cose ridicole il fidanzamento è la più assurda. Il matrimonio può avere il senso di un contratto vantaggioso. Il fidanzamento è puro nonsenso”.

Ifigenia trasse altro ardire da queste parole prese a prestito, non mie e replicò: “ma chi vuole fidanzarsi? Io non ci penso nemmeno. Sono già malmaritata. Uno sbaglio che non ripeterò. Se  mi vuoi, devi uscire da questi schemi che dovrebbero venire rotti dalla spinta che senti verso di me, se davvero la senti. Io sono disposta a darti tutto quanto tu puoi volere da me . Ma devo sapere se davvero mi vuoi e che cosa puoi darmi. E voglio vedere se  tra noi ci può essere qualcosa di più e di meglio dei libri e della scuola. Sabato pomeriggio sono senza impegni né impicci,  e voglio passare con te qualche ora, non i soliti venti minuti dell’intervallo o del percorso per venire a scuola. Fuori c’è il mondo, ci siamo noi liberi di fare quello che ci va. Io almeno lo sono.”

“Va bene-risposi travolto da tanta sicurezza- Hai ragione. Scusami, sono stato avvilito, reso anche vile dalla retrocessione al ginnasio. Mi rifarò come ogni altra volta.

Vediamoci sabato pomeriggio alle tre davanti alla libreria Feltrinelli. Vieni con scarpe adatte per camminare sui campi dove ti porterò”.

Ma avevo ancora tanta paura di lei. Non avevo mai visto tale risolutezza in una donna così giovane. Le finniche sapevano pure loro quello che volevano ma in confronto a questa tigre ircana erano delle passerottine.

 

 

 

Ifigenia IX. La casa deserta sulla collina

 

Ci trovammo davanti alla libreria Feltrinelli sabato 28 ottobre alle tre del pomeriggio. Ifigenia aveva in mano una borsa di tela; io avevo lasciato la mia Volkswagen nera decappottabile parcheggiata lì vicino : entrambi avevamo portato le tute e le scarpe per correre, o comunque fare ginnastica. Le avevo detto che l’avrei portata “nella campagna” ma poi avevo pensato che era meglio andare al campo sportivo, il campo scuola di via Michelino  dove c’è  una pista per la corsa. Un poco per nostalgia della pista di Debrecen, un po’ per il fatto che un campo scolastico mi  sembrava meno intimo e impegnativo che una campagna solitaria. Tra l’altro correndo su pista e cronometro avrei avuto modo di fare bella figura siccome per la corsa non breve sono dotato e allora ero anche abbastanza allenato. Ora comprendo che in quei giorni pensavo soltanto a me stesso, ai problemi miei, al mio interesse, senza considerare la volontà della ragazza  che con l’anima piena non solo di vanità, malizia e libidine, ma anche di desiderio se non anche mito e poesia, voleva comunicare con me, ascoltarmi, imparare, e,  se avesse potuto aprirmi il corpo e l’anima con fiducia, manifestarmi del tutto i propositi suoi.

La sconfitta sul lavoro mi aveva reso diffidente e meschino perché è proprio vero che un insuccesso ti mette in guardia da altre sventure, ti fa arretrare, mentre il successo viceversa ti spinge avanti.

Come mi fu giunta vicino, sorridente, vestita con un impermeabile beige, disse: “Ciao gianni, ascolta”.

La rimbeccai subito: “A Pesaro si dice ‘sta’ a sentire’, comunque ti ascolto. Allora, si va a correre? Mi piacerebbe farlo a cronometro in una pista”

“Ieri veramente avevi parlato di campi”

“Intendevo uno dei campi sportivi. Il Baumann per esempio”.

“No, ci va troppa gente! Io voglio parlare con te, starti vicina. Noi due soli. Andiamo in campagna! Ho visto la tua automobile qui nei paraggi”.

La proposta della solitudine con lei non mi allettava: era prematura rispetto ai miei calcoli. Volevo che fosse arrivata al Minghetti la mia nomina di docente di ruolo  prima di fare l’amore con una collega appena supplente, giovane molto e sposata. Temevo ulteriori inciampi nel  mio lavoro. Tuttavia nemmeno perdere lei volevo, rinunciando a un piacere grande e davvero consolatorio se non mi faceva decadere  anche dalla posizione di insegnamento più bassa nel liceo di Bologna. Potevano mettermi in biblioteca dove di solito relegano i professori incamminati sulla via della demenza.

Mi feci coraggio e le risposi:

“Va bene: andiamo su per la Val di Zena fino al botteghino di Zocca, poi giriamo a destra e saliamo su un colle da dove si vede il tramonto. Carino, no?”.

“ Sì, molto”

Arrivammo su quel colle distante poco meno di venti chilometri intorno alle quattro. Il debole sole in declino faceva tuttavia luccicare le zolle della terra arata  tanto che miriadi di farfalline dalle ali dorate sembravano scorrere rapide lungo il fianco illuminato della collina. Arrivati sul culmine da dove la strada comincia a discendere sulla sinistra fermai l’automobile su una stradina laterale che si inoltra tra i campi. Uscimmo dall’atomobile e ci incamminammo per un sentiero. Osservavo la terra che si indorava nella luce pur declinante: sembrava un’anziana signora protesa al ricordo, malinconico e dolce della passata bellezza. Non mi spiaceva più trovarmi solo con la bella ragazza in quel luogo rustico, vero e deserto. Glielo dissi per farle piacere e darmi coraggio. Ci scostammo l’uno dall’altra per toglierci i vestiti e indossare le tute.  Questo gesto pudibondo riaccese il mio desiderio di Ifigenia.

Non mi spaventava più tanto la possibilità che lei mi proponesse di fare l’amore dal momento che mi sembrava improbabile. Potevo magari proporglielo io. Appena ci fummo cambiati e riavvicinati, vestiti con le tute che ci donavano perché lei era proprio ben fatta e nemmeno io ero fatto male, iniziammo a correre dal culmine della collina all’ingiù, verso una casa colonica che sembrava disabitata da tempo, L’erta pendenza e le zolle dell’arata discesa rendevano difficile il nostro equilibrio ma non rallentavano i balzi che facevamo scendendo a precipizio verso la casa deserta destinata a diventare uno dei monumenti di questa storia.

 L’ombra della sera saliva strisciando adagio dal  fondo della ripida china: la parte dell’ ampia aia più lontana dal culmine era già immersa nell’umida oscurità procedente dal basso. Noi due, arrivati sulla linea di confine tra l’oscurità e la luce del sole, ci fermammo un istante per riprendere fiato e fruire dell’ultimo raggio del primo fra tutti gli dèi. Io lo pregai in silenzio.  Poi procedemmo adagio fino al limite dell’aia spaziosa.

 

Bologna  12 settembre 2024 ora 16, 28 giovanni ghiselli

 

 

 

 

 

Ifigenia X. Le donne e la madre natura.

 

Volevamo vedere che cosa c’era al di là. Oltre l’aia già in leggero pendio, la china del colle diventava quasi un burrone che scendeva a precipizio fino a un fosso depresso. Era appena visibile in mezzo a lunghe canne tra le quali scorreva forse dell’acqua. Il fondo della discesa divideva il colle, sulla cui cima avevo lasciato l’automobile, da una collina  posta a oriente, meno alta e già tutta nell’ombra. Scendevamo verso quell’infossatura della madre terra. Volevo mostrare qualche cosa di infimo e oscuro  alla creatura in procinto di offrimi il suo amore, per metterla in guardia facendole vedere il correlativo oggettivo della mia anima poco chiara perfino a se stessa. Dopo avere scorto il rivolo di acqua che sembrava scendere verso zone infernali, dissi con enfasi comica eppure contaminata da una nota di dolore:

“Guarda bellezza, laggiù nell’ombra umida e densa, in mezzo alle canne già oscurate dal buio della lunga notte autunnale, scorre un rigagnolo che vomita una nebbia mefitica. Avviciniamoci per capire se sia un affluente del tartareo Acheronte, dello Stige odioso, del Cocito o di un altro fiume del pianto senza conforto”

In quel momento, per mia debolezza, volevo impressionare e sconcertare la splendente ragazza che invece era determinata a vivere una storia d’amore bella e gioiosa con me.

A un tratto dissi: “Andiamo!”  e cominciai subito a correre verso il cupo fondo di quella fossa che già coagulava in grumi freddi le lunghe, umide, inquiete ombre del tramonto avanzato. Ifigenia mi seguiva con fretta minore. Quando fui giunto nel fondo, sedetti davanti alle canne diritte davanti all’acqua muta e quasi immota del fosso. “Fosso Seiore tra Pesaro e Fano” pensai, quindi: “ il quartiere Fossolo dove vivo a Bologna. Sono l’uomo dei fossi o delle fosse. Ora relegato e affossato in una quarta ginnasio”.

 Ifigenia era rimasta indietro. Continuavo a pensare: “la canne e il fosso rendono l’immagine del crine  e dell’umido solco muliebre”. Alcuni aspetti della natura mi hanno fatto immaginare prima, e ricordare poi diverse parti del corpo già misterioso delle femmine umane che fin da bambino scrutavo con insaziabile, maniaca curiosità, come osservavo a lungo le forme della grande madre terra interrogandola, volendo comprendela, parlare con lei, chiederle aiuto. Per questo già prima dei dieci anni, sfuggito alle zie, salivo in solitudine su per i  prati e i boschi allora semideserti della valle di Fassa, oppure mi insinuavo trepidamente nei luoghi dai quali potessi intravedere cosce e mutande di donne: sotto i tavoli e sui sentieri fiancheggiata dall’erba e dai fiori, volevo scoprire e capire la madre natura nei suoi aspetti più vivi, più genuini, più riposti e nascosti.

   

Ifigenia XI. Il seno riflesso nel sole.

 

Ifigenia arrivò poco dopo. Dissi: “vedi quanto è depresso questo fondo? Ti ci ho portato per mostrarti l’immagine della mia decadenza. Non ti conviene amarmi bellezza. Potrei trascinare in basso anche te.

 

Non si lasciò impressionare: tirò dentro i polmoni l’aria  recuperando la lena perduta, tirò fuori la voce, e, sorridendo, disse:

“Gianni, dammi un bacio, ti prego”

Mi trovai spiazzato di nuovo. Mi stava superando con la forza della sua concretezza e semplicità.

Provai comunque a replicare per metterla in guardia da me:

“Perché vuoi che ti baci? Non hai sentito quello che ti ho detto? Potrei farti del male”.

“Ho sentito-rispose con sicurezza, senza accennare a scomporsi né a stupirsi- ho sentito e ho capito ma non sono d’accordo. Non sarai tu a farmi precipitare in un burrone con te, sarò io piuttosto a tirarti su con l’entusiasmo che sento per te e la forza della mia giovinezza: tu salirai con me in luoghi alti e illuminati dal sole, com’è ancora la cima di questo colle dove torneremo tra poco tenendoci stretti per mano. Io ho bisogno di te, del tuo metodo, della tua cultura, della tua disciplina, e tu hai bisogno dei miei slanci, della mia ammirazione,  se vuoi comprendere tutto il tuo raro, reale valore e trovare il coraggio di manifestarlo. Hai già avuto l’ammirazione dei tuoi studenti, ora hai il mio amore che può darti  molto di più. Io ti adoro e non posso non fare di tutto per essere contraccambiata”.

 

Riuscìi a non abbracciarla e baciarla, ma non potei evitare di guardarla con ammirazione mentre il suo volto si accendeva di luce amorosa e confidente nel fondo tenebroso di quelle colline. Le ero grato del fatto che mi incoraggiava a essere strano e inusuale, senza sentirmi in difetto per la mia radicale diversità dai più che poi sono i morti, gli stupidi e gli ignoranti.

 

Eppure avevo paura di amarla. Non ero ancora abbastanza inattuale rispetto alla volgarità del tempo. Mi inceppavano troppi pregiudizi contrari alla felicità. Temevo di perdere l’appoggio economico delle zie che mi volevano vedere con la testa a posto, cioè fidanzato e poi sposato con una vergine di “buona famiglia”, poi temevo di perdere le due amanti bolognesi che non amavo punto però mi facevano comodo venendo a letto con me non senza portarmi del cibo  buono cucinato bene da loro, e dopo il concubitus vagus se ne tornavano a casa lasciandomi in pace.

 

Questa ragazza magari invece poteva crearmi difficoltà con il marito che avevo visto una volta venire a prenderla ed era grande e grosso: colui poteva spezzarmi le ossa leggere, da ciclista dotato per le salite, oppure lasciare la moglie, e allora avrei dovuto occuparmi anche troppo di lei.  Insomma, chi me lo faceva fare? Tuttavia quella ragazza mi piaceva molto e addirittura l’amavo. Era dai tempi oramai lontani delle tre finniche che non desideravo tanto una donna. Le finniche però erano meno pericolose: sarebbero tornate nella loro terra lontana e tanti saluti!

 

Ifigenia a un tratto interruppe questo mio almanaccare.

“Gianni, fra pochi minuti quaggiù farà buio. Torniamo lassù a prendere l’ultimo sole, accompagnamolo a letto”. Pensai non senza apprensione che volesse poi accompagnare anche me fino al letto di casa mia.

“Dammi la mano-aggiunse- e tirami su perché sono stanca ma voglio risalire in fretta la china”

Non potei rifiutargliela. La sua piccola mano fremeva: la pelle sottile pulsava sollevata dal sangue.  A mano a mano che si saliva, la luce cresceva. Quando giungemmo in cima, il sole non era ancora calato nel nido del suo riposo notturno. Ifigenia con volto raggiante disse: “hai visto gianni che hai avuto la forza di innalzare me e te stesso verso la luce? Io ti amo”

“Anche io pensai”, ma non glielo dissi per le ragioni dell’utile. Ma è un utile falso quello che nega l’amore. Me l’avevano inculcato fin da bambino. Quando portai Ifigenia a Pesaro l’estate successiva le donne di casa, mamma e zie, dissero in coro: “bella è bella, ma non ha un soldo”.

Una delle zie la presentò a una conoscente come “una cara amica d Gianni” e io non la corressi. Del resto che cosa avrei dovuto dire: “è la mia fidanzata?”.

 Nemmeno vergine era, e lo sapevano bene. Per fare l’amore con lei dovevo farmi ospitare da un ex compagno di scuola e amico perché se l’avessimo fatto nella dimora delle pretificato sorelle ci avrebbero cacciato entrambi con ignominia. E mi avrebbero diseredato.

Disonorata e svergognata secondo loro era comunque Ifigenia poiché sapevano che eravamo amanti. Come potevo affidarmi a tale donna?

A qualsiasi donna pensavo io addirittura, data la mala educazione ricevuta in casa e dai preti.

Ci accostammo dunque alla nera Volkswagen poi riprendemmo gli abiti cittadini per cambiarci di nuovo. Allora non usava la tuta in città.

Questa volta ci svestimmo e rivestimmo senza allontanarci l’uno dall’altro e dal cocuzzolo che solo oramai emergeva alla luce.

Ifigenia mi chiese di voltarmi e non guardarla spogliarsi fino a quando non ci saremmo accordati e trovati per fare l’amore. Mi spostai di pochi metri e mi girai verso il sole occidente.

 Mentre guardavo il santo volto di luce  le domandai a voce alta: “Ifigenia quale parte del tuo splendido corpo ti piace di più?”

“Il seno”  rispose con uno piccolo squillo di gloria.

Allora mi  parve di vedere riflesso quel magnifico  seno  nell’ultimo sorriso del sole. Il cielo intanto si stava accendendo di bagliori rossi  da crepuscolo degli dèi.

 

Pesaro 12 settembre 2024 ore 16, 40 giovanni ghiselli

 

p. s

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