martedì 1 gennaio 2019

La passione del potere. La vanità del potere. Parte 5


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Il fanatismo di Eteocle nelle Fenicie di Euripide. Callicle nel Gorgia.
Eppure per Eteocle la divinità più grande è la tirannide (“th;n qew'n megivsthn w{st j e[cein Turannivda” v. 506), e pur di averla egli sarebbe disposto anche a salire sugli astri e a scendere sotto terra. Sicché egli non cederà mai questo bene supremo: sarebbe un atto di viltà (ajnandriva, v. 509). Non solo: il figlio di Giocasta conclude la sua celebrazione del potere dicendo alla madre che poi lo contraddice :" ei[per ga;r ajdikei'n crhv, turannivdo" pevri-kavlliston ajdikei'n, ta[lla d eujsebei'n crewvn", vv. 524-525, se davvero è necessario commettere ingiustizia, è bellissimo farlo per il potere assoluto, altrimenti bisogna essere pio.
Cicerone considera questo Eteocle o addirittura Euripide meritevole di pena di morte (Capitalis Eteocles vel potius Euripides ) che fece eccezione proprio per quell'unico caso che era il più scellerato di tutti.
Questi versi delle Fenicie li aveva sempre in bocca l'ambizioso Cesare:"Nam si violandum est ius, regnandi gratia/violandum est; aliis rebus pietatem colas " (De Officiis , III, 82).

Il falso sciocco.
Bruto e Amleto, gli ossimori viventi. Per salvarsi dal tiranno si fingono pazzi
Bruto, per salvarsi, aveva stabilito di non lasciare al re nulla da temere dall'animo suo, nulla da desiderare nella sua fortuna, e di trovare sicurezza nell'essere disprezzato:"Ergo ex industria factus ad imitationem stultitiae, cum se suaque praedae esse regi sineret, Bruti quoque haud abnuit cognomen " (I, 56, 8) pertanto fingendosi stolto apposta, lasciando se stesso e i suoi beni al re, non rifiutò neppure il soprannome di Bruto.
“Perché non vi è nulla di più pericoloso di un uomo che rifiuta di sottomettersi alla tirannia”[1].
Ma quella che sembrava pazzia agli stupidi era invece genio. Quando l'oracolo delfico infatti preconizzò che avrebbe avuto il sommo potere a Roma quello che per primo avesse baciato la madre, Bruto, avendo capito, "velut si prolapsus cecidisset, terram osculo contigit, scilicet quod ea communis mater omnium mortalium esset " I, 56, 12, come se fosse caduto per una scivolata, diede un bacio alla terra, evidentemente poiché quella era la madre comune di tutti i mortali.

Amelethus dei Gesta Danorum di Saxo Grammaticus (1140 ca-1210 ca) è l’antenato dell’ Hamlet di Shakespeare
 Vediamo un aspetto della sua pazzia con alcune considerazioni di Maurizio Bettini:"L'eroe ha appena fatto all'amore con la futura Ofelia shakespeariana, e gli viene chiesto: su quale cuscino? E lui:" Su uno zoccolo di giumenta, una cresta di gallo e le travi del tetto"[2]. Ma il falso stolto deve anche farne, di sciocchezze, oltre che dirne. Odisseo a Itaca, davanti a Menelao e Agamennone, aggioga all'aratro un bue e un cavallo e se ne va in giro con in capo il berretto (pileus) dello stolto[3]. Ancora Amelethus, alla corte di Fengo, giace per terra sporco di cenere, intento a indurire nel fuoco dei bastoncini ricurvi[4]; poi lo vediamo salire su un cavallo a rovescio, reggendo naturalmente la coda al posto delle redini"[5].

L’Amleto di Shakespeare si finge pazzo
E anche nella sua follia c'è metodo ( Though this be madnness, yet there is method in’t, dice Polonio Hamlet,, II, 2) tanto che il re sentenzia che la pazzia nei grandi deve essere vigilata (Madness in great ones must not unwatch’d go, III, 1).
Falso sciocco è anche Demo (Popolo) nei Cavalieri di Aristofane (del 424). Il coro lo accusa di dabbenaggine: sei uno facile da ingannare (eujparavgwgo" , v. 1115), gli dice, ti piace troppo essere adulato. E il vecchietto irritabile, sordastro (duvskolon gerovntion-uJpovkwfon, vv. 42-43) risponde: non avete senno sotto le vostre zazzere, se credete che io non capisca “ejgw; d j eJkw;n -tau't j hjliqiavzw”, vv. 1123-1124), io mi comporto da sciocco apposta, e così me la godo a farmi portare da bere. Il Popolo insomma ha permesso ai demagoghi, Paflagone in testa, di essere ladri, per poi costringerli a vomitare fuori (pavlin ejxemei'n, v. 1148) quello che gli hanno rubato usando l’urna elettorale per provocare il vomito.

Seneca maledice il potere.
Il regnum secondo Seneca è un fallax bonum del quale non c'è da gioire: copre grande quantità di mali sotto un aspetto seducente:" Quisquamne regno gaudet? O fallax bonum/quantum malorum fronte quam blanda tegis"(Oedipus,vv.7-8), qualcuno gode del regno? O bene ingannevole, quanti mali copri sotto una facciata così lusinghiera!
Sono parole di Edipo che dà inizio al dramma descrivendo l'infuriare della pestilenza.
"Per questo uomo di potere (…) il potere è un nucleo irriducibile di male-insieme fatto e subìto, avviluppato nelle rispondenze tra violenza oggettiva e angoscia soggettiva"[6].
"Il tema fondamentale di tutto il teatro senecano (…) è che potere e regno, condizioni di illusoria felicità soggette a rovinosi cambiamenti di sorte, coincidono con la frode, con l'Erinni familiare, con il furor mentre l'unica salvezza è la obscura quies [7], la serenità del proprio cantuccio, l'esser parte indistinguibile della folla. L'avversione al regno ha come aspetto complementare l'esaltazione della tranquillità di ogni piccolo uomo, uno qualsiasi della massa silenziosa: felix mediae quisquis turbae, come canta un coro dell' Agamennone (v. 103). Liceat in media mihi/latere turba (Thy. 533 sg,) afferma Tieste prima di cadere nelle lusinghe del potere e nella trappola tesagli da Atreo"[8].

Questo tema è presente anche nella tragedia greca.
Ione sostiene la superiorità della vita ritirata su quella impegnata o tesa al potere che viene smontato del tutto :"del potere lodato a torto/l'aspetto è dolce, ma dentro il palazzo/c'è il dolore (tajn dovmoisi de;- luphrav): chi infatti è felice, chi fortunato/se, temendo e guardando di traverso (dedoikw;" kai; parablevpwn), trascina/il corso della vita? Preferirei vivere/da popolano felice piuttosto che essendo tiranno ("dhmovth" a]n eujtuch;"-zh'n a]n qevloimi ma'llon h] tuvranno" w[n"),/il quale si compiace di avere amici malvagi,/mentre odia i generosi per paura di attentati " (Ione, vv. 621-628).

E' questa un'affermazione ricorrente nell'opera euripidea: torna nell' Ifigenia in Aulide dove lo stesso Agamennone, richiesto di sacrificare la vita della primogenita , dice a un vecchio servo:" ti invidio, vecchio,/invidio tra gli uomini quello che passa una vita/senza pericoli, ignorato, oscuro (ajgnw;" ajklehv" );/ quelli che stanno tra gli onori li invidio di meno"(17-20).

La falsità del Potere
Nel Riccardo III di Shakespeare, il duca di Gloucester, non ancora re, simula una ripugnanza del potere per dissimularne la brama: lord Rivers, cognato del re Edoardo IV, gli dice che lui e i suoi figli hanno sempre seguito il re, dunque” so should we, you, if you should be our king”, faremmo lo stesso con voi, se foste re. E Riccardo risponde: “If I should be? I had rather be a pedlar!-Far be it from my heart, the thought thereof ” (I, 3), se fossi re? Preferirei essere un venditore ambulante! Sia lontano dal mio cuore un pensiero del genere!
 Riccardo III, è “ il principe che ha letto Il Principe. La politica è per lui pura pratica, un’arte il cui fine è governare. Un’arte amorale come quella di costruire i ponti o come una lezione di scherma. Le passioni umane sono argilla, e anche gli uomini sono un’argilla di cui si può fare quel che si vuole.”[9].
Quando Riccardo viene aizzato dai suoi alleati a vendicarsi dei suoi nemici, reagisce in questo modo “ But then I sigh, and, with a piece of Scripture,-Tell them that God bĭds us do good for evil:- And thus I clothe my naked villainy-With odd old ends stol’n forth of Holy Writ-And seem a saint, when most I play the devil” ( I, 3), ma allora io sospiro, e, con un brano della Scrittura, dico loro che Dio ci ordina di rendere bene per male: e così rivesto la mia nuda scelleratezza con occasionali vecchi scampoli tirati fuori dalla Sacra Scrittura, e sembro un santo quando più faccio il diavolo.
A Lady Ann che in un primo tempo lo rifiuta con sdegno chiamandolo foul devil, diavolo immondo, siccome gli ha ucciso marito e suocero, il duke of Gloucester, replica: “lady, you know no rules of charity,-which renders good for bad, blessing for courses”, signora, voi ignorate le regole della carità, che rende bene per male, benedizioni per imprecazioni. (I, 2, 68-69)

 La constatazione del sangue umano che scorre nella corte viene denunciata da Donalbain, un figlio del re vecchio assassinato dal nuovo re, da Macbeth :"qui dove siamo ci sono pugnali nei sorrisi degli uomini: il vicino per sangue è il più vicino all'essere sanguinario” (where we are, there’s daggers in men’s smile: the near in blood, the nearer bloody, Macbeth 2, 3).

La "grande sconsacrazione rinascimentale della maestà"[10] si trova anche nel teatro di Shakespeare: nel prologo di The tempest davanti ai cavalloni ruggenti, più di un re conta il nostromo (boatswain) che fa una domanda retorica :"what cares-not allied to L. cura- these roarers for the name of king?" (I, 1), che importa a queste bestie ruggenti del titolo di re? . Quindi il nostromo si rivolge al re Alonso e al gentiluomo Gonzalo: “To cabin: silence trouble-lat. turba- us not!” (I, 1, 16-18), in cabina, silenzio, non dateci noia.


CONTINUA



[1]  S. Màrai, La recita di Bolzano, p. 20.
[2]  Saxo, 3, 6, 11.
[3]  Igino, Fabulae, 95.
[4] Saxo, 3, 6, 6.
[5]  M. Bettini, Le orecchie di Hermes,, p. 59.
[6]  G. Paduano (a cura di), Edipo, p. 9
[7]  Fedra 1127.
[8]  Gianna Petrone, op. cit., p. 360.
[9]  Jan Kott, Shakespeare nostro contemporaneo, p.  42.
[10]  J. Kott, Shakespeare nostro contemporaneo, p. 173.

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