domenica 20 gennaio 2019

Il potere della passione. Parte 9


Il potere della passione
Percorso presentato nel liceo Aldo Moro di Manfredonia durante la notte dei licei, 11 gennaio 2019

Il potere è razionale e morale solo se esercitato al servizio dei sudditi: nelle Epistole a Lucilio il maestro di Nerone già ripudiato dal discepolo imperiale ricorda che nell'età dell'oro governare era compiere un dovere non esercitare un potere assoluto:" Officium erat imperare, non regnum" (90, 5).
Così aveva insegnato un discepolo di Zenone ad Antigono Gonata re di Macedonia1 cui il regnare apparve un “onorevole servizio”, e[ndoxo" douleiva2.

Luogo simile in I Promessi sposi :"Ma egli, persuaso in cuore di ciò che nessuno il quale professi cristianesimo può negar con la bocca, non ci esser giusta superiorità d'uomo sopra gli uomini, se non in loro servizio, temeva le dignità, e cercava di scansarle" (cap. XXII). Si tratta del cardinale Federigo Borromeo.
Concetto analogo si trova in Psicanalisi della società contemporanea di E. Fromm:"Il capo non è soltanto la persona tecnicamente più qualificata, come deve essere un dirigente, ma è anche l'uomo che è un esempio, che educa gli altri, che li ama, che è altruista, che li serve. Obbedire a un cosidetto capo senza queste qualità sarebbe una viltà" (p. 299). -
Annibale presenta una possibilità di educazione reciproca tra il comandante e i suoi soldati. Dopo la traversata delle Alpi, parlando al suo esercito utilizzò questo topos: “alumnus prius omnium vestrum quam imperator” ( Livio, 21, 43). Corrisponde al Mutuo ista fiunt, et homines dum docent, discunt di Seneca (Ep. 7, 8) e “ai bambini ci curano l’anima” di Dostoevskij (L’idiota, parte I , cap. V).

La protagonista dell'Antigone di Brecht si propone come tale tipo paradigmatico in antitesi a Creonte il quale le domanda:"Di' dunque perché sei così ostinata". E la ragazza risponde:"Solo per dare un esempio".
Il potere del resto secondo la figlia di Edipo è una specie di droga che asseta di sé:"Perché chi beve il potere/Beve acqua salsa, non può smettere, e seguita/Per forza a bere".
“Sono rari i sovrani che apprendono la saggezza nella sovranità. Al contrario, l’occupazione del potere suscita un delirio di potenza, e la sete di potere suscita il più delle volte ambizioni smisurate. Così intorno al potere si moltiplicano colpi di stato, assassini, fratricidi, patricidi, così ben descritti da Eschilo, Sofocle, Euripide, Shakespeare, mentre la follia insita nel potere è stata mirabilmente mostrata da Calderón de la Barca ne La vita è sogno. Minacciati da rivali o da pretendenti, i despoti diventano patologicamente diffidenti di tutto”3.
Marco Aurelio in effetti dice a se stesso: “ bada a non cesarizzarti” o{ra mh; ajpokaisarwqh'/" ( A se stesso, 30).

L’ira del tiranno
Edipo è in preda all'ira quando minaccia Tiresia: non tralascerò nulla, irato come sono ( "wJ" ojrgh'" e[cw", Edipo re , 345) e pure quando uccide Laio (" paivw di j ojrgh'" ", colpisco con ira, v. 807).

"L'ira appare tratto distintivo di ogni figura di tiranno venga rappresentata sulla scena; essa trova una particolare evidenza nell'Antigone e nell'Edipo re sofoclei. Sia Creonte fin dall'inizio, sia Edipo, da quando incomincia a sospettare un complotto contro il suo potere (è dunque in questo caso il principio della degenerazione che trasforma il buon re paterno del prologo in una figura tirannica), appaiono soggetti all'ira, incapaci perciò di un dialogo rispettoso dell'interlocutore e di una decisione meditata. "Taci, prima di riempirmi d'ira con le tue parole" (Antigone , v. 280), esclama Creonte, quasi ad interrompere il resoconto col quale la guardia lo sta informando del clandestino seppellimento di Polinice. E, a conclusione quasi della scena, nuovamente lo redarguisce:"Non ti rendi conto di parlare di nuovo in modo irritante? (Antigone , v. 316)"4.

L'ira di Edipo continuerà a colpire i nemici anche dopo la morte: nell' Edipo a Colono Ismene dice al padre che un giorno il suo cadavere sarà un grave peso (bavro" , v. 409) per i Cadmei, quindi la ragazza precisa: "th'" sh'" uJp ' ojrgh'", soi'" o{tan stw'sin tavfoi"" (v. 411), a causa della tua ira, quando staranno presso la tua tomba. Lo ha fatto sapere Apollo delfico (v. 413).

Il tiranno, come lo schiavo calpesta la fides che è un valore solo per le persone oneste.
Cicerone nel De amicitia5 scrive:"Haec enim est tyrannorum vita nimīrum, in qua nulla fides, nulla caritas, nulla stabilis benevolentiae potest esse fiducia, omnia semper suspecta atque sollicita, nullus locus amicitiae. Quis enim aut eum diligat quem metuat, aut eum a quo se metui putet?" (15, 52), questa infatti senza dubbio è la vita dei tiranni, nella quale non può essere alcuna lealtà, alcun affetto, alcuna fiducia di stabile benevolenza, tutto è sempre pieno di sospetto e di ansia, e non c'è posto per l'amicizia. Chi infatti potrebbe amare quello che deve temere o quello dal quale pensa di essere temuto?
Nell'Agamennone di Seneca, Egisto parlando con Clitennestra fa questo rilievo:"non intrat umquam regium limen fides" (v. 285), la lealtà non entra mai nella soglia di una reggia. La regina ribatte che se la comprerà con i doni, ma il drudo conclude:"pretio parata vincitur pretio fides" (v. 287), la lealtà procurata a pagamento può essere superata da un altro pagamento.

Anche in questo il tiranno è simile agli schiavi oJ tw'/ o[nti tuvranno" tw/' o[nti dou'lo""(Platone, Repubblica, 579e)
Nel mondo carnevalesco e rovesciato degli schiavi plautini6 al posto del valore forte della fides troviamo quello della perfidia , la “santa” protettrice dei servi:" Perfidiae laudes gratiasque habemus merito magnas" (Asinaria, v. 545), abbiamo ragione di elogiare e ringraziare assai la mala Fede, dice lo schiavo Libano allo schiavo Leonida.

L’uguaglianza. Le obiezioni di Giocasta a Eteocle nelle Fenicie di Euripide
Nelle Fenicie dove "Eteocle incentra tutto il suo elogio della tirannide sul "di più"7, Giocasta obietta:"tiv d j e[sti to; plevon; o[nom j e[cei monon:/ejpei; tav g j ajrkounq j iJkana; toi'" ge swvfrosin" (vv. 553 - 554), che cosa è il più? ha soltanto un nome; poiché il necessario basta ai saggi. Le ricchezze non sono proprietà privata dei mortali, noi amministriamo quelle ricevute dagli dèi: essi quando vogliono, a turno, ce le portano via.
Luogo simile in Seneca che nella Consolatio ad Marciam (10, 2) scrive:"mutua accepimus. Usus fructusque noster est ", abbiamo ricevuto delle cose in prestito. L'usufrutto è nostro.

Del resto Giocasta propugna l'uguaglianza più in generale:"kei'no kavllion, tevknon, - ijsovthta tima'n" (Fenicie, vv. 535 - 536), quello è più bello, figlio, onorare l'uguaglianza; infatti essa è legge cosmica:"nukto;" t j ajfegge;" blevfaron hJlivou te fw'" - i[son badivzei to;n ejniauvson kuvklon" ( vv. 543 - 544), l'oscura palpebra della notte e la luce del sole percorrono uguale il ciclo annuo. Ora se il sole e la notte si assoggettano a queste misure8, domanda la madre, tu non tollererai di avere una parte uguale del palazzo (su; d j oujk ajnevxh/ dwmavtwn e[cwn i[son, v. 547) e di attribuire l'altra a tuo fratello? E dov'è la giustizia? Perché tu la tirannide, un'ingiustizia fortunata (tiv th;n turannivd j, ajdikivan eujdaivmona, v. 549), la onori eccessivamente e pensi che sia un gran che?
Pensi che essere guardati sia segno di valore? E' cosa vuota (kenovn, v. 551) di fatto. O vuoi avere molte pene con molte cose nella casa?

Plutarco nella Vita di Solone ricorda che il legislatore ateniese aveva detto: “to; i[son povlemon ouj poiei`” (14, 4), l’uguaglianza non provoca guerra.

“La ricchezza che sta tanto a cuore a Eteocle si rivelerà così un plou'to~ dapanhrov~ (v. 566) , una ben dispendiosa ricchezza (…) Le parole conclusive di Giocasta saranno suonate nel teatro di Dioniso come un accorato monito a una generazione di politici ateniesi così vicini ai due fratelli del mito: mevqeton9 to; livan, mevqeton (“abbandonate l’eccesso, abbandonatelo”, v. 584). Ed è un monito diretto a entrambe le parti: alla parte oligarchica, perché si renda conto che la ricerca del potere porta alla rovina della città; alla parte democratica, perché capisca che anche con la ragione dalla propria parte non si può praticare la violenza all’interno della polis senza danno per tutti. Non c’è nulla di peggio della somma di due ajmaqivai contrapposte”10.
Le Fenicie vennero scritte intorno al periodo del colpo di Stato oligarchico del 411, ma il rifiuto dell’eccesso è una posizione topica molto diffusa. Vediamone alcune occorrenze.
Nietzsche mette in rilievo il valore della misura nella sfera dell'apollineo:"Apollo, come divinità etica, esige dai suoi la misura e, per poterla osservare, la conoscenza di sé. E così, accanto alla necessità estetica della bellezza, si fa valere l'esigenza del "conosci te stesso" e del "non troppo", mentre l'esaltazione di sé e l'eccesso furono considerati i veri demoni ostili della sfera non apollinea, dell'età titanica, e del mondo extraapollineo, cioè del mondo barbarico"11.
La qualità della moderazione appartiene anche al Catone Uticense della Pharsalia, celebrato da Lucano come uomo ricco di virtù in testa alle quali c'è quella serbare la giusta misura ("servare modum ", II, 381). Conseguono a questo mos altri non meno buoni:" finemque tenere/naturamque sequi patriaeque impendere vitam/nec sibi sed toti genitum se credere mundo" (II, 381 - 383), attenersi al giusto limite, seguire la natura, spendere la vita per la patria, e credersi nato non per sé ma per tutto il mondo.
Il quarto coro dell'Oedipus di Seneca raccomanda di evitare ogni eccesso:" Quidquid excessit modum,/pendet instabili loco " (vv. 909 - 910), tutto ciò che ha oltrepassato la giusta misura, vacilla su un appoggio instabile.
La dismisura è svantaggiosa: commodus, “vantaggioso” e commodum, “vantaggio”, sono connessi etimologicamente a modus (cum, modus)
Un altro esempio più recente troviamo nel Parini il quale sostiene che, solo, ama la Musa:"Colui cui diede il ciel placido senso/e puri affetti e semplice costume;/che, di sè pago e dell'avito censo,/più non presume"12; e uno successivo nel Manzoni che ne fa un precetto:" Sentir, riprese, e meditar: di poco/esser contento...de le umane cose/tanto sperimentar, quanto ti basti/per non curarle: non ti far mai servo"13.

 CONTINUA

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1 276 - 239 a. C.
2 Eliano, Var. hist. II 20.
3 E. Morin, L’identità umana, p. 164.
4D. Lanza, Il tiranno e il suo pubblico , p. 50.
5 Del 44 a. C.
6 Plauto visse tra il 255 ca e il 184 a. C.
7Lanza, op. cit., p. 53.
8 Il consiglio di seguire la natura, in particolare osservando l'alternarsi del dì e della notte, per prendere decisioni equilibrate lo dà anche Seneca a Lucilio "cum rerum natura delibera: illa dicet tibi et diem fecisse et noctem" (Ep. 3, 6), prendi decisioni osservando la natura: quella ti dirà che ha fatto il giorno e la notte. I mortali non possiedono le ricchezze come cose proprie, esse sono degli dèi e noi le amministriamo (v. 555 - 556).
9 Imp. Aoristo, duale, di meqivhmi, lascio.
10 E Medda, (a cura di) Euripide, Le Fenicie, p. 46.
11 La nascita della tragedia, capitolo IV
12Ode Alla Musa , vv. 17 - 20.

13In morte di Carlo Imbonati , vv. 207 e sgg.

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