lunedì 6 maggio 2024

Ifigenia CLXVI. La festa finale. La decadenza umana e politica.

Salìi sul tram e tornai nel collegio dove indossai il mio decennale vestito di lino bianco. Quindi andai alla festa conclusiva del corso.

Dalla scala che scende nella grande sala, lo spazioso centro dell’Università che per me era stata per anni l’ombelico del mondo, vidi quel mevgaron piena di gente immersa in un’atmosfera satura di un’allegria nervosa e sgradevolmente chiassosa. Mi diedi a osservare i volti cercando qualche faccia bella come quella di Helena che mi era apparsa nel 1971, otto anni prima: grande mortalis aevi spatium.

   Vedevo però visi stravolti di giovani ossessi e vecchi ubriachi. Alcuni ridevano con rabbia o urlavano beceramente, altri piangevano sommessamente, poi si asciugavano occhi, ciglia e guance con i tovaglioli inzuppandoli. Altri ancora divoravano con ingordigia smisurata, da cormorani.

Quanto mutati da quelli che cantavano lieti sull’erba ai raggi miti e silenti di Artemide casta! A quel prato rispondeva la finestra dove si affacciava Helena, la diva mia, aspettando il mio arrivo. Vi giunsi di corsa, felice.

 Da allora erano passato già tanto tempo, una grossa porzione  della rapida vita  mortale.

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Notai un giovanotto grasso e pelato: la pancia straripava dalla camicia e dalla cintola. Le fauci erano enormi, dilatate dal vizio bestiale.

Inghiottiva pogácsok e cioccolatini senza pause. Quando non ce la fece più, lambì la bocca con lingua vibrante, ruttò e stramazzò sul tavolo con il grugno che eruttava.

“Ecco il mostruoso costituito da uomini retrocessi a bestie: gli eterni nemici della bellezza e della cultura, latori del caos. Come i Ciclopi, non conoscono leggi, non fanno vita politica, non si curano l’uno dell’altro.

Quando arrivai a Debrecen nel luglio del 1966 stavo per avviarmi su quella strada. Però ne sentivo talmente il dolore da capire che se non ritrovavo la mia via, la methodos del giusto cammino, sarei morto. Avevo bisogno di una mano per farcela. Me la diedero Fulvio, Danilo, Alfredo, Claudio, Luigino e tutta l’ambiente di allora e l’atmosfera degli anni seguenti quando si diffusero la benevolenza, la solidarietà, l’educazione al rispetto. Andò avanti così per cinque o sei anni. Nel ’71 Helena mi disse che amava l’umanità con amore umanistico. Ne fui incoraggiato: sentivo di fare parte dell’umanità e avevo intuito che l’amore umanistico sarebbe diventato umano.

 

 La sera dell’ultima festa del 1968, Claudio ripetè una domanda già fatta nel 1966: “è finita Debrecen questa sera?” Era una interrogazione retorica cui rispondemmo in coro: “macché finita : si sta bene a Debrecen, bisogna tornarci!”

“Sicché ci vedremo ancora qui alla festa della conoscenza il prossimo luglio, dopo undici mesi di esilio” fece Bruno.

Allora intervenne Silvano: “non dimentichiamoci di presentare in tempo la domanda per la borsa di studio”

“Sì” precisò Alfredo “ chiederemo lezioni di lingua e letteratura ungherese non senza vittu e aloggio”.

Poi guardava me reputato specialista. Stavo preparando la tesi sulla poesia ungherese del Novecento e avevo dato un esame di filologia ugrofinnica in giugno.

Vittu è parola finlandese significava molto per noi maschi di allora. In latino, lingua nobile e antica è cunnus. In greco, lingua ancora più antica e  nobile è su`kon, come in italiano al postutto.

Ci si riprometteva dunque di tornare per la terza volta.

Il giorno dopo, durante l’ultima colazione nella mensa già semivuota, Claudio diceva alle cameriere, tristi perché eravamo in partenza. “A vìszontlátásra jövore!”, arrivederci all’anno prossimo!

Quelle ragazze anziane ridevano contente e rispondevano: “A vìszontlátásra, szervusztók, csokolom fiúk! , arrivederci, ciao, un bacio ragazzi!

E Claudio, sempre nell’idioma magiaro che conosceva bene, diceva alla caposala, una sessantenne più o meno: “ciao ragazza, bel seno!”.

 

Lei sorrideva e camminava  più che mai pettoruta, tutta contenta. Andò così fino al 1972, poi sempre meno cordialmente, simpaticamente, umanamente. Le stragi perpetrate per anni hanno raggiunto lo scopo voluto di renderci diffidenti, paurosi gli uni degli altri, ciascuno chiuso nel suo angusto, meschino privato egoismo. Io non ne sono stato capace: ho continuato a vivere, studiare e lavorare per gli altri, per i figli degli altri.

Viviamo sempre più isolati, oppure come bestiame d’allevamento, racchiusi in recinti dove conduciamo una vita connotata e decisa da macchinari. La tecnologia che dovrebbe essere solo un qualche sapere oggi è reputata  più della nosra umanità, e decide per noi.

Io chiedo aiuto agli autori classici che mi diedero conforto al dolore quando avevo ventanni, e ogni volta che di mattina e di pomeriggio li prendo in mano per studiarli, li prego: venite anche ora[1] amici miei cari, preziosi, aiutatemi ancora!

 

Bologna 6 maggio giovanni ghiselli   

 

 

   



[1] Nota 1 Cfr. la preghiera ad Afrodite di Saffo “e[lqe moi kai; nu'n( 1D.,  v. 25),

 

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