mercoledì 8 maggio 2024

Ifigenia CLXXVI. Le nuotate a Pesaro e a Tihány. Il catalogo della gratitudine oppure della smargiasseria?

 

Quando la seduta degli assaggi fu tolta, per smaltire il troppo di quel bere accompagnato da pasticci salati che rilanciavano la sete, scesi di corsa lungo la china del colle fino alla sponda del lago e, nonostante piovesse, mi denudai quasi del tutto sul lido deserto, riposi gli indumenti sotto la tettoia di un bar chiuso, quindi mi tuffai in mutande nell’acqua melmosa. Mentre costeggiavo il promontorio mi sovvenne un’altra nuotata del genere fatta nello stesso luogo, ma sotto la luna, nell’agosto del ’71 quando la finnica Helena mi aspettava in un bar, forse con trepidazione e orgoglio perché io ero stato l’unico dei cento gitanti a sfidare il freddo e un accidente tuffandomi nel lago nero e fangoso dopo l’abbondante bevuta di vini e la scorpacciata di debreceni paros, coppie di grosse grasse salsicce.

 

  Sulla spiaggia di Pesaro, prefigurando Elena,  mi aspettava la mamma bruna, formosa e snella anche lei. Io allora, nei primi anni Cinquanta ero un bambino invece minuto, grande solo di occhi e di naso, insomma mi sentivo brutto davanti alla mamma e per ottenere la sua ammirazione, per piacerle, dovevo compiere qualche cosa di egregio, mostrarle delle capacità che i miei compagni non avevano punto sebbene fossero molto più grossi di me. Qualcosa di speciale di soltanto mio, e non scolasticamente, ma fisicamente: da atleta. A scuola infatti poteva essere bravo anche un pedante mezz’orbo e bruttino, ma per le imprese sportive ci voleva la potenza del fisico. Se non l’avessi acquisita e manifestata, la mamma bella e bruna mai mi avrebbe voluto bene. Elena nemmeno e neppure le altre. Un monachello infelice avrebbero fatto di me, mi avrebbero lasciato solo per tutta la vita . Una vita storpiata. Perciò se mi guardava la mamma, mi buttavo nel mare e ruotavo le braccia nell’acqua, vi battevo sopra le gambe  con tutte le forze, finché mi bastavano i muscoli e il fiato. Se la mamma non si era distratta e quando tornavo, nell’asciugarmi, mi diceva “bravo!”, ero felice. “Ce l’ho fatta!”  pensavo, come quando  Elena mi disse: “sto imparando ad amarti” dopo avermi ignorato.

Il 19 agosto del’ 79 invece sulla riva non c’era nessuno: gli altri erano andati dentro un Etterem a cenare.

“Non c’è Cristo o santo Francesco che mi trattenga-avranno detto- il Gulasch non me lo lascio scappare, la zuppa di pesce nemmeno”.

Passate le sette, il cielo nuvoloso e basso sul lago era già quasi buio. Nuotavo in solitudine nell’acqua fredda, scura e fangosa, eppure dentro di me brillava la gioia pensando che a quel nuotare come a correre a pedalare sui monti e pure a studiare mi avevano stimolato le donne e se ero diventato bravo, sano e tutt’altro che brutto,  lo dovevo a loro. Ce l’avevo fatta. Ne avevo già conosciute diverse: non solo le  predilette brune ma anche alcune bionde e almeno una rossa. E altre ce ne sarebbero state e meravigliosamente le avrei conosciute. Ne tenevo il catalogo. Mi ero realizzato come speravo. Ero felice.

Ti domando lettore: questa gioia enfatica era stupida smargiasseria  oppure gratitudine santa?

 

Bologna 8 maggio ore 9, 48 giovanni ghiselli

 

p.s

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