martedì 17 settembre 2024

Ifigenia LVIII, LIX.


 

Ifigenia LIX. Calcoli sobri e conti ebbri.

 

Dopo cena andammo in un caffè del corso a giocare, ognuno con la propria pena più o meno pesante. Facemmo il gioco della verità. Una del gruppetto rimasta senza il marito che l’aveva lasciata, incolpava il fellone che era scappato con un’altra “molto più giovane e scema”: costei l’aveva allettato nel talamo suo facendo scaturire di nuovo nel sangue fiacco e scialbo del vecchio dalla vitalità ormai spenta la scintilla della libidine.

Domandai a un’altra più intelligente perché suo marito l’avesse abbandonata.

“Perché io non gli piacevo più e ha trovato una che gli andava a genio”.

Quindi mi domandò di quanti amori avessi fruito io, giovanotto di belle speranze.

“Quattro speciali e una trentina banali” risposi

“Tra le speciali qual è stata quella davvero ottima?”

“Una collega finlandese, Elena dalle bianche braccia”, risposi

“Che cosa aveva di speciale?”

“Che era bella, buona e del tutto gratuita. Non voleva altro che essere amata e mi ha insegnato ad amare senza calcoli né secondi fini”.

Tra queste persone più attempate di me,  soprattutto più stanche e disincantate, mi sentivo molto vitale, sebbene il rapporto con Ifigenia stesse togliendomi tante illusioni e speranze.

 

 Infatti di notte mi svegliai per l’inquietudine. Ifigenia non era soltanto fonte di piacere e compiacimento ma  anche causa di preoccupazioni. Avrei voluto conoscerla meglio. Per questo però avrei dovuto frequentarla di più, tuttavia  a quel punto della mia vita avevo capito che moltiplicare le ore di frequentazione non fa bene ai rapporti umani. Quando amavo le tre finlandesi ero contento che quelle ragazze avessero altro da fare durante le ore del giorno e tutto sommato mi attiravano anche perché sapevo che se ne sarebbero andate presto lontano, molto lontano da me. L’amore, anche il più bello, non è tanto amore di una persona bensì è incantamento davanti a una situazione speciale, è amore di amore. Forse potrebbe durare a lungo una donna con me se fosse impegnata nella preparazione di un’opera simile o uguale a quella che riempie l’anima e il tempo mio. Una che avesse dentro un fuoco sacro che rende prezioso ogni minuto.

Ieri sera vedendo delle ragazze cantanti e orchestrali impegnatissime  nel preparare Le nozze di Figaro pensavo che forse avrei potuto amare una creatura siffatta. Ma con una donna in casa priva di forti interessi simili ai miei l’amore non reggerebbe alla prova di una settimana corta.

Ifigenia si faceva pensare tramite la gelosia. Un mezzo ordinario, scadente e distruttivo del bene velle anche se per qualche tempo poteva attizzare la libidine. Quella sera prima di andare a letto l’avevo cercata senza trovarla e l’avevo maledetta tra tutte le donne. Avevo poi incolpato me stesso per gli atteggiamenti da esteta assunti con lei spingendola a reagire in maniera analoga. Se era andata davvero così, potevo rimediare smettendo di posare al seduttore kierkegaardiano dal cervello esacerbato,  o al superuomo nicciano che trasgredisce la morale del gregge, o al libertino dannunziano che tante donne meravigliosamente conobbe.

Magari assumere la parte del nuovo Socrate dedito al culto del Bene, dell’ottimo  maestro capace di suscitare energie morali in chi lo ascoltava.

Nell’anno che stava chiudendosi avevo fatto l’amore con 8  donne: un’insalata di femmine umane. “Nel 1979 mi dissi-cercherò di assumere un ruolo di amante serio attraverso un calcolo sobrio- nhvfwn logismov"- che mi porti a una stabilità affettiva”. Ma era un proposito che non teneva conto della reazione di Ifigenia. Costei durante l’estate farà saltare il mio piano annuale. Avevo fatto un calcolo ebbro.

 

 

 

Ifigenia LIX. Le tombe. La sapienza silenica. Le due ragazze vivaci.

 

La mattina del 31 dicembre andammo a osservare le tombe ipogèe di Tarquinia. Fuori pioveva sul grano in erba e sulla terra fangosa. Camminavamo sul fianco di un colle sotto tre grandi ombrelli neri finché non scendemmo tra i morti. Vedevamo paurose torture infernali e scene lascive sulle tombe dipinte da quel popolo antico, sensuale e pauroso dell’Orco. Pensavo all’estinzione di quella gente con la sua cultura e alla decadenza della stirpe Martelli, quella etrusca del nonno Carlo di Borgo Sansepolcro.

I malinconici Martelli precedenti avevano perso al gioco dei poderi e  il nonno mio aveva venduto il  suo grande palazzo antico per pochi denari, ai Buitoni. Quando vado a vedere il palazzo Martelli che risponde a via Antonio da Anghiari e si affaccia pure in via Agio Torto mi pare di visitare un’altra necropoli.

Ma torniamo a quella di Tarquinia. “La civiltà degli Etruschi-pensavo quella mattina- si è estinta così come si annienta la vita di un uomo che cede al terrore invece di contrastarlo con l’amore e la bellezza.

 

Me l’ha insegnato Nietzsche. Voglio ricordartelo, lettore:

“L'enorme diffidenza verso le forze titaniche della natura, la Moira spietatamente troneggiante su tutte le conoscenze, l'avvoltoio del grande amico degli uomini Prometeo, il destino orrendo del saggio Edipo, la maledizione della stirpe degli Atridi, che costringe Oreste al matricidio, insomma tutta la filosofia del dio silvestre con i suoi esempi mitici, per la quale perirono i malinconici Etruschi, fu dai Greci ogni volta superata, o comunque nascosta e sottratta alla vista, mediante quel mondo artistico intermedio degli dei olimpici. Fu per poter vivere che i Greci dovettero, per profondissima necessità, creare questi dèi: questo evento noi dobbiamo senz'altro immaginarlo così, che dall'originario ordinamento divino titanico del terrore fu sviluppato attraverso quell'impulso apollineo di bellezza, in lenti passaggi, l'ordinamento divino olimpico della gioia, allo stesso modo che le rose spuntano da spinosi cespugli (…)  Così gli dèi giustificano la vita umana vivendola essi stessi-la sola teodicea soddisfacente! L'esistenza sotto il chiaro sole di dèi simili viene sentita come ciò che è in sé desiderabile, e il vero dolore degli uomini omerici si riferisce al dipartirsi da essa, soprattutto al dipartirsene presto: sicché di loro si potrebbe dire, invertendo la saggezza silenica, " la cosa peggiore di tutte è per essi morire presto, la cosa in secondo luogo peggiore è di morire comunque un giorno". Se una volta risuona il lamento, ciò avviene per Achille dalla breve vita, per l'avvicendarsi e il mutare della stirpe umana come le foglie[1], per il tramonto dell'età degli eroi. Non è indegno neanche del più grande eroe bramare di vivere ancora, fosse pure come un lavoratore a giornata[2].  Nello stadio apollineo la "volontà" desidera quest'esistenza così impetuosamente, l'uomo omerico si sente con essa così unificato, che perfino il lamento si trasforma in un inno in sua lode". [3]

 

Dopo tale reminiscenza mi volsi al bello con semplicità che amo nell’arte greca. Quindi pensai alle mie amanti di formato classico, Elena sopra tutte, una donna  non paurosa dell’Orco, anzi fidente di guadagnare un posto negli Elisi per sé e per gli amanti beatificati da lei.

Quando fummo tornati sotto il cielo piovoso, riparandocene a due a due sotto i grandi ombrelli neri, notai due belle fanciulle vicine a un muro tombale. Erano senza ombrelli, coperte da impermeabili leggeri, coloriti  come fiori di primavera. Si scambiavano strette di mano e sorrisi.

Emanavano gli aromi dell’adolescenza.

A un tratto la più bellina e luminosa delle due ragazze vivaci si accorse che la stavo guardando con simpatia: disse qualcosa all’amica e ricambiò la mia attenzione con un sorriso, non senza accennare a un saluto.

Niente mi ha reso mai tanto felice quanto la simpatia delle donne. Quando poi queste potrebbero essermi figlie mi commuovo e duro fatica a non sciogliermi in lacrime. Allora mi viene in mente che uno dei peggiori peccati davanti a Dio è sciupare il dono meraviglioso della vita nelle angosce e nei terrori, è rinunciare all’amore o sporcarlo  per debolezza, stupidità, per mancanza del coraggio di essere buoni e felici”

 

Pesaro 17 novembre 2024 ore 17, 24 giovanni ghiselli

 

p. s.

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Ifigenia LX. Il duomo di Orvieto. La donna di pietra.

 

Il giorno seguente, primo gennaio 1979, andammo a Orvieto. Fu una giornata buia e  tanto fredda che i passeri intirizziti stramazzavano al suolo. Anche io  ero tormentato dal gelo nonostante fossi imbacuccato come un eschimese.

Mi sono sentito vivo e commosso solo in una circostanza che dunque è l’unica degna di essere raccontata. Ero nel duomo gotico distaccato dai compagni di viaggio, i comites. Avevo litigato con Silvano la sera prima parlando di Bruno, l’amico comune morto ante diem.

Nel duomo avevo osservato con attenzione gli affreschi del Signorelli. Mi aveva colpito la soda, viva e loquace carnalità dei corpi umani passionalmente nudi e scattanti.

Stavo tornando dalla cappella di San Brizio alla navata dove camminavano gli altri per ricongiungermi a loro quando mi accorsi che in una nicchia c’era una statua di donna nuda simile a Ifigenia. Era una figura raggiante di luce così sensuale e calda che mi domandai come fosse finita in quel tempio cristiano pur già connotato alquanto paganamente  dai corpi svestiti, robusti e belli della cappella. Ma quella donna aveva qualcosa di fortemente erotico, eccitante e familiare al tempo stesso. Ne rimasi affascinato e volli fermarmi più a lungo di quanto mi consentisse il frettoloso procedere dei comites. Mi scusai: li avrei raggiunti nel bar dove erano diretti. Così mi diedi a fissare la donna di pietra. Il marmo nitido e liscio aveva la soda perfezione delle membra tornite della mia giovane amante: il seno, il ventre, le cosce diffondevano palpiti caldi di luce nell’aria scura e gelata della chiesa cristiana appena schiarita da lampade impolverate e dal tremore delle fiammelle di incerte candele mocciose. La donna nuda adunava nella sua figura le scintille baluginanti nel buio del grande tempio e riverberandole ne moltiplicava la forza. In quell’immagine riconoscevo l’ei[dwlon di Ifigenia, il suo simulacro che un giorno avrei immortalato in un modo o in un altro. Questo promisi. Avevo premura di tornare a Bologna, in camera mia, nel grande letto con lei che trasformava il cupo ambiente assediato dal buio di novembre in un paradiso ridente, caldo, luminoso e fiorito. Sentivo l’amore, il desiderio e il bisogno di lei, come sento la nostalgia della terra fiorita quando le stecchite piante segnano di nere trame il cielo nuvoloso di novembre, come soffrivo per la lontananza della mamma quando ero bambino e dovevo passare l’estate nella solitudine fredda di Moena, dove tutte le notti abbracciavo il cuscino e piangevo invocandola, e tutte le mattine correvo incontro al postino chiedendogli con la mia voce di bimbo dolente se c’era una cartolina per me con su scritto: “Saluti e baci. La tua mamma”. Ogni volta però rimanevo deluso, a bocca asciutta e  con il pensiero correvo al giorno seguente. La sera al tramonto già precoce in agosto perché l’occidente era occupato dal Sass da Ciamp, pregavo il sole di correre a precipizio nel cielo a costo di provocare una catastrofe, una conflagrazione di rocce, foreste e stelle, purché arrivasse tosto il giorno felice in cui sarei tornato dalla mamma, bella, bruna e profumata più delle piccole fragole rosse che raccoglievo al margine dei boschi durante le mie passeggisate solitarie. La zia Giulia diceva che se mi fossi perso avrebbe chiamato il soccorso alpino che salvava i bambini da orsi e burroni ma poi li picchiava per il disturbo arrecato con quelle stupide birichinate.

 

Bologna 5 novembre 2023 ore 18, 55 giovanni ghiselli

p. s.

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[1] Cfr. Iliade, VI, 146:"oi[h per fuvllwn genehv, toivh de; kai; ajndrw'n", proprio quale  la stirpe delle foglie, tale è anche quella degli uomini. (n. d. r.)

[2] Cfr. Odissea , XI, vv. 488-491. (n. d. r.)

[3] F. Nietzsche, La nascita della tragedia, capitolo III.

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