martedì 17 settembre 2024

Ifigenia LV, LVI, LVII.

Ifigenia LV. Civita di Bagnoregio.  Berlino est. Ifigenia e Cornelia.

 

Rimasi a Pesaro fino al 29 dicembre leggendo i miei autori, andando al mare e contando i secondi che la luce guadagnava ogni giorno sul buio donandomi liete speranze. Ifigenia invece mi telefonava tenendomi in apprensione:  restando sul generico.

 Le sue parole non costituivano un balsamo per la mia inquietudine bensì l’accentuavano. Ero del resto determinato a non permetterle di ridurmi a un rottame umano, come forse sperava, magari per poi darmi una mano rendendosi indispensabile. Oppure il colpo di grazia.  Dovevo difendermi e stavo anche io sulle mie.

Sembrava che avesse lasciato il marito e fosse tornata a vivere con i suoi  genitori nella Bolognina. Diceva che frequentava delle cugine che le facevano conoscere gente nuova. Io a questo punto la incoraggiavo dicendole: “fai bene, così potrai scegliere”, quindi la salutavo. Non volevo ricevere altre ferite. 

Non ero tranquillo. Del resto non volevo che contasse su di me per il suo futuro. Bella era bella, per carità, ma non abbastanza educata e fine. Non credevo nemmeno che avrebbe seguitato a insegnare imparando.

 

La mattina del 30 dicembre  partìi per un giro in Etruria con quattro colleghi. Uno era Silvano, quello che mi era stato vicino al tempo della storia di Päivi e della bambina abortita. Aveva con sé una compagna, Lidia,  una professoressa beneducata. Ero amico di entrambi: con lei avevo scambiato alcuni inviti a cena, con Silvano, ricorderete, ero stato a Debrecen, a Hortobgyi, a Capo nord e pure a Berlino est ospiti di un amica comune, Cornelia che avevo conosciuto nell’estate di Päivi.

Ci aveva ospitati in un appartamento luminoso, pieno di libri situato nella Unter der Linden a due passi dal Museo di Pergamo.

 

La compagnia di questo ultimo viaggio dunque  mi era congeniale anche se non c’era nessuna donna tanto appetibile da potere distrarmi dall’ assillo, l’oi\stro~, il tafàno di Ifigenia.

Eppure con queste persone avevo maggiori argomenti e interessi in comune che con quella ragazza in cerca del suo posto nel mondo.

Questi comites portavano addosso le stigmate di una vita sofferta che li aveva affinati e dotati di una sensibilità rispettosa: non invadente né petulante. Quando mi appartavo, mi lasciavano stare da solo con i miei pensieri. Ci scambiavamo comunque saluti e sorrisi. Andammo a vedere Civita di Bagnoregio, un borgo rimasto senza abitanti sulla cima di un colle sterile, giallo, striato da calanchi di friabile tufo: mi fece pensare a un uccello semispennato, impagliato e inchiodato sul tronco tagliato di un albero secco. Giravamo sulle strade gelate tra case disabitate e alcuni altri turisti intirizziti. Pativo il freddo più del mio solito: il sole già vicino al tramonto non scaldava la terra nemmeno con un rivolo di quel fiume di fervida luce che nel mese di agosto mi aveva riempito di forza e allegria durante il giro ciclistico in Grecia quando pregavo gli dèi di farmi incontrare una donna della mia levatura.

Il sole al tramonto del 30 dicembre invece spennellava sui campi infecondi e sulle macerie prive di vita una tinta scialba, bianchiccia, o piuttosto incolore.  Una cosmesi inefficace come quella tentata da tinte scadenti e scadute sui pochi capelli di un vecchio malvissuto dal cranio pieno di macchie vituperose.

Così sbiadita e sconciata  sarebbe stata la mia esistenza se tornando a Bologna non avessi ritrovato il piacere sessuale e il calore affettivo dei mesi precedenti, e i compiti, cioè le cose da fare ogni giorno anche per lei,  magari non senza prospettive per i mesi seguenti, almeno fino a metà di luglio quando intendevo tornare a Debrecen dove avrei incontrato la buona Cornelia, l’educata, la comunista aristocratica e intellettuale Cornelia. Suo padre non era proprio Scipione Africano come il babbo della mamma dei Gracchi, ma  un intellettuale di Berlino est, dirigente telelevisivo della DDR.

 

 

 

 

 

 

 Ifigenia LVI. “Mille torbidi pensieri/mi s’aggiran per la testa”

 

Il freddo chiudeva le nostre bocche imbavagliate dalle sciarpe e limitava la visione: ciascuno stava rinchiuso nel proprio giaccone: anche  la testa e  gli interi visi cagnazzi tenevamo riparati dal gelo con i baveri alzati fino agli occhi. Pensavo fervidamente a Ifigenia per sentire un po’ di calore che mi salvasse la vita finché non avessi trovato un riparo. Immaginavo di tenere appoggiata la testa intirizzita tra le cosce calde di lei dove poteva rinvigorire e pensare alla vita non umiliata da quel ribrezzo mortificante.

Quindi sognavo di succhiare il suo seno traendone un latte dolce di amoroso conforto e di miele anche perché avevo fame siccome ero digiuno dalla sera prima secondo la mia frugale abitudine di non mangiare fino alle 9 di sera e pochissimo  se durante il giorno non ho potuto fare del moto impegnativo e dispendioso di calorie.

La deformità dei venti anni mi aveva  insegnato a non desiderare il cibo immeritato.

 

Ai pensieri amorosi del resto mentre si allungavano le ombre della sera precoce succedevano pensieri denigratori: “No, Ifigenia non è della mia levatura: è troppo frivola, vana, civetta: mi rende geloso. Un amore non deve essere un cancro”. Ogni tanto rivolgevo un sorriso agli amici Lidia e Silvano, ma senza smettere di redarguire da lontano l’amante assente: “Tu mi rendi geloso. Dai il tuo numero di telefono al primo tanghero che ti ferma per strada. Così mi disonori. Tu mi rendi furioso”.

Però poi mi correggevo: “No, fai come ti pare, tanto io non posso, non devo e non voglio sposarti. Tu non hai le qualità della moglie: non porti ordine in casa, ma un vento di turbinosa libidine. Mi riduci a una testa intronata colpita da folate violente. Tu sei adatta a fare l’amante a tempo determinato. Amante a perdere. Ora che sono lucido, mi dico: spero che ti innamori di un tanghero, magari esotico e che poi vada a vivere con lui, lontani da me: a Singapore per fare solo un esempio

Tu non sei la mia donna ideale, sei appena reale, sì e no umana.

Non puoi comprendermi. Non cape in quella tua angusta fronte né il pensiero mio né il mio sentimento”. Vagavo dal desiderio amoroso al risentimento rancoroso.

Il fatto è che dopo l’abortimento deciso da Päivi con la mia vile acquiescenza mi sono messo a cercare compagne sempre più giovani per sostituire la creatura attesa dall’ultima donna che avevo amato, e con queste donne immature cercavo di arrestare l’inesorabile marcia del tempo che  mi calpestava.

Ifigenia del resto mi piaceva assai e tutto il mio pensarla malevolmente non poteva confutare il sentimento che di quella ragazza avevo bisogno come della luce del sole. Sentivo che la mia vita in sua assenza non era cosa salda e presente: era solo una larva dissanguata, un’ombra in un  crepuscolo invernale gelido come quello  che stavo vivendo nella desolazione e tra le contraddizioni.

 

Infine trovai un compromesso tra il desiderio e la paura di lei.

 

 

 

 

 Ifigenia LVII. Viterbo. La sartina. La Parmigiana. Un dialogo con Silvano e uno con Santo Francesco.

 

Questo arrivai a pensare mentre calava la notte: “E’ bene che vada così. Non mi sarà difficile sganciarmi da questo traino quando ne avrò trovato una più conveniente. Ora però non vedo niente di meglio e voglio fare ancora l’amore con Ifigenia insegnandole quello che so e imparando da lei quanto sa più e meglio di me. Intanto tengo gli occhi aperti in cerca di altre occasioni visto che lei lo sta già facendo. Così siamo pari e il nostro rapporto è pulito. Di sicuro non c’è l’amore né il rispetto che ho provato per Helena  e per Päivi le sere della rinuncia a Josiane, ma quel tempo è lontano e quelle donne erano ben altrimenti rispettose a loro volta e dotate di stile. Del resto poi mi hanno lasciato”.

Trovato questo equilibrio ebbi una sensazione di conforto che si riempì di luce alle 16 e 30 quando giungemmo a Viterbo e uscito dall’automobile vidi la luce del sole illuminare i fastigi del Palazzo dei Papi che risposero con un sorriso languido  al saluto del dio.

La pietra grigia e nera più in basso, lassù in cima aveva assunto lo stesso colore di rosa che una sera di Primavera, la sera della Pasqua precedente avevo notato sulle cime del Rosengarten appunto che fiancheggia la valle di Fassa da Moena a Canazei, da sud a nord. In ognuna di quelle montagne quando le vidi la prima volta nell’agosto del 1948, a tre anni e 8 mesi, ravvisai una forma umana e negli anni seguenti, presa confidenza cominciai un poco alla volta a parlare con ciascuna ed esse per loro umanità mi rispondevano.

Quella sera a Viterbo mi dissi: “presagio d’estate felice”.   

Quindi trovammo un albergo e occupammo le camere. Io ne avevo una tutta per me. Mi è sempre piaciuto dormire da solo.

Una delle mie amanti successive tra le più recenti del catalogo venne la sera del 2 gennaio da Parma in autonomobile. Facemmo l’amore tante volte e assai volentieri. Era giovane molto e bellina assai. Era una notte di nebbia e le dissi-obtorto collo-: “se vuoi, puoi dormire qui”.

Lei capì tutto e rispose che preferiva tornare a casa sua. Quando il rapporto si consolidò, le domandai perché  fosse andata via quella notte da lupi

Rispose: “perché avevo capito che sei più falso di Giuda e speravi che io mi togliessi dai piedi”. Così mi diede una lezione la ragazza di Parma. Io allora ne avevo più o meno sessanta ma ancora mi lasciavo educare.

 

Ritiratomi in camera mia dunque, fui lieto della mia solitudine, a Viterbo come sarei stato a Bologna una trentina di anni più tardi partita che fu la Parmigiana.

 

Poco prima di cena facemmo due passi per Viterbo ed io insistevo nel mio monachesimo maniacale: camminavo sul lato opposto della strada rispetto agli altri. Volevo osservare e pensare senza parlare, senza ascoltare chicchessia, senza urtare nessuno.

A un certo punto però venne a interpellarmi l’amico Silvano.

Mi domandò: “Che cosa hai gianni, pensi ancora a Päivi e alla bambina non nata?”

“No-risposi-ora sono innamorato di un'altra: una collega sposata con un venditore ambulante”

“Non hai paura che lo venga a sapere e ti prenda a pugni?

“No.  Comunque, e tu me lo insegni, varrebbe la pena di prendere un poco di botte pur di fare l’amore con una donna così giovane e bella. E’ come il sole d’estate quello che vedevamo sorgere quando andavamo a cavalcare la mattina alle cinque nella puszta, a Hortobagyi.

Torniamo a Debrecen quest’ estate? Ci sarà la nostra amica Cornelia che ci ha ospitato a casa sua e ci ha fatto del bene.

 Ricordo un’altra mattina quando con Fulvio Ezio e altri si andava a lezione, e tu arrivasti in taxi dicendo:”io vado a letto. Aspettavo una donna  ma è arrivata una sartina, una intentata puella che mi ha portato a casa sua. Non ho potuto resistere. Ora devo dormire”.

Mi piaceva riavvicinarmi all’amico birbo, alle nostre storie passate di amori, dolori, pianti, risate. Avevamo avuto entrambi un’educazione cattolica arcaica, io a casa e in parrocchia, lui addirittura per alcuni anni in  seminario cupo quanto un colombario. Dai curiali avevamo appreso il gusto della trasgressione, e il vizio del peccato sessuale, posto che sia peccato come pretendevano i preti. Ora Silvano è un’amicizia celeste. Sono certo che è in paradiso se non altro perché non c’è l’inferno nel mondo del buon Dio.

Dante era completamente pazzo diceva l’amico carissimo Fulvio.

Come sempre, aveva ragione.

Quella notte sognai Santo Francesco in quale mi disse: “da poverello a poverello, ti do questo suggerimento: porta a termine l’opera che ti sei proposta. Te lo ripeto in latino: “propositum perfice opus”.

Risposi: “non mancherò  di terminare l’opera, fratello Francesco, e tornerò a trovarti in bicicletta nel crudo sasso intra Tevero e Arno dove da Cristo hai preso l’ultimo sigillo”. Io sono sì poverello come te, ma sono stato altresì un peccatore e ti chiedo perdono”.

“Nessuno è senza peccato” disse il santo facendo un sorriso, quindi benedisse me e l’opera mia che non mancherò di completare. Anche per emendarmi.

Pesaro 17 settembre 2024 ore 1, 16 giovanni ghiselli

p. s

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