NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

Ciclo di incontri alla biblioteca «Ginzburg». Protagonisti della storia antica

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giovedì 28 marzo 2013

La primavera, il Papa, Grillo, Aristofane


Dedicato a Patrizia Aldrovandi, la mater dolorosa di Federico.
Ne ho pianto con mia sorella Margherita.
La pietà non  è morta.

Per festeggiare l’approssimarsi della Pasqua, in mancanza e desiderio di Sole[1], di cielo, di rondini, di prati e alberi fioriti, di cieli variopinti, di pietà. di giustizia, ricorro ai  personaggi, buoni e farabutti, seri e buffi, calzati di  socci [2] o coturni [3], che in questi giorni ravvivano, o mortificano ancora di più, il clima algido di una primavera renitente alla propria rinascita, o piuttosto di un inverno che non vuole andarsene accrescendo il nostro scontento [4].
Partiamo da papa Francesco. Ci ha raccomandato di non essere mai tristi.
Ha ragione. Voglio convalidare questo precetto santo con altri  maestri.
Strabone [5]  ha scritto una Geografia  della quale riporto questa  sentenza educativa e religiosa: “ gli uomini imitano benissimo gli dèi quando fanno del bene, ma, si potrebbe dire anche meglio, quando sono felici (" a[meinon d j a[n levgoi ti", o{tan eujdaimonw'si", X, 3, 9).
Spinoza associa la virtù alla felicità, e qui mi avvalgo del magistero dell’amico Remo Bodei: “Spinoza intende condurre gli uomini verso la felicità e la pienezza mediante un sereno rifiuto dell’amor mortis, della malinconia, della vanitas, della misantropia e del sentimento di caducità, argomentando in favore della “meditazione della vita”, anche perché è la felicità che produce la virtù, e non viceversa (…)  gli uomini sono malvagi perché infelici, perché in preda alla tristitia che ne diminuisce la gioia o il potere di esistere e che li precipita spesso sempre più in basso, avvitandoli in una spirale di distruzione e autodistruzione”[6].
“Dipingendosi come avverso alla malinconia, Spinoza dice di non trascorrere la vita in pianti e gemiti, bensì in tranquillità gioia e allegria [7][8].
Il Papa che raccomanda la letizia dovrebbe costituire un paradigma morale per la scelta del prossimo presidente della Repubblica.
Questo pontefice omonimo ed emulo di San Francesco ha altresì consigliato  di non valutare il denaro più della persona umana. Ha ricordato la nonna sua che diceva: “il sudario non ha le tasche”.
Fra cento anni, 150 al più tardi, noi  attuali inquilini cives [9] di questo pianeta saremo tutti morti, compresi i bambini che corrono con lieto rumore, comprese le fulgide  fanciulle ridenti, allegre per un nonnulla.
 Quello che resterà del nostro usufrutto [10], sostiene, credo non a torto, Platone [11], saranno i segni impressi per sempre nella yuch`.
La falsità e l’ingiustizia lasciano piaghe che  deformano l’anima, come una frattura imprime un marchio nelle ossa. Allora, da morti, probabilmente saremo inquisiti da giudici che, più inesorabili  perfino della Bocassini, ci faranno sprofondare nel Tartaro con sentenze inappellabili.
Ma intanto qui sulla terra Bersani prova a vedere se sia possibile rendere esorabile [12] Grillo.
Il politico-comico o comico-politico, a seconda dei giorni, ha dato dei “padri puttanieri” a Berlusconi, a Monti e perfino al suo corteggiatore Bersani, che invano si atteggia a semplice e schietto giovanotto di campagna collinare.
Questa aiscrologia[13] o scatologia[14] , comunque si voglia chiamarla, fa venire in mente gli attacchi portati ai demagoghi dal più grande dei comici politici: Aristofane. Non vorrei creare confusione nelle vostre teste, cari 17846 lettori che mi motivate a scrivere, ma i demagoghi ora vengono chiamati “populisti”, forse perché combinare dh`mo~ con a[gw è troppo complicato per i capi svigoriti dei nostri caporioni. Ebbene, io sto per assimilare, forse non senza contraddizione, il populista Grillo all’odiatore dei demagoghi Aristofane il quale, anzi, voleva che dalla città ideale degli UccelliNefelokokkugiva[ 15],  venissero espulse  tutte le esistenze deformi. Ma il pezzo più forte dell’antidemagogia aristofanesca è costituito dai Cavalieri dove due mestatori arruffapopoli si contendono lo scettro della volgarità e dell’abilità nell’ingannare Demo lusingandolo. Il Popolo è un vecchietto irritabile e un po’ sordo [16], che  sta al gioco finché gli conviene, poi si sbarazza di uno, mentre l’altro alla fine della commedia, vince la gara e fa buon uso della vittoria: rinsavisce e ringiovanisce lo scontroso, attempato sordastro.
Vedremo se il populista di oggi saprà fare altrettanto
Intanto vediamo questi due populisti antichi. Uno è Paflagone, un mercante di cuoio, schiamazzatore (vv. 135-136), un mestafango che ha assordato la città con le grida (v. 311). Costui è  la personificazione di Cleone, il beniamino del popolo dopo il successo di Sfacteria del 425 a. C.
Il suo rivale è un personaggio immaginario, un salcicciaio che lo toglierà di mezzo in seguito a una gara ignobile. Entrambi sono attrezzati per vincere la competizione demagogica  poiché “la demagogia-hJ dhmagwgiva- non è roba per uomini istruiti e di buoni costumi, ma per ignoranti e infami (v. 193). Per prevalere nell’agone tutt’altro che olimpico, il Salsicciaio deve superare Paflagone-Cleone in maleducazione.
Non ti viene da pensare, lettore, alla celebrazione giornaliera dell’ignoranza perpetrata dalle chiacchiere della maggior parte dei personaggi televisivi, da non pochi sedicenti maestri, professori, giornalisti, ministri incolti? Ignoranza e impudenza, dicevo, sono le qualità negative richieste all’eterno caporione.
Inviterei Bersani a scegliere i suoi portaborse e portavoce con oculatezza maggiore.  Tale Alessandra, non ne ricordo il cognome, giovane e belloccia, per carità, ma senza alcun segno positivo che traspaia dall’anima, ha detto in televisione, testualmente che “i voti si prendono sporcandosi le mani”.
Certe donne il segretario di Bettola, “per amor di Dio !”, le lasci a Berlusconi!
La raccomandazione, anzi il dovere delle mani sporche
 mi ha fatto venire in mente il salcicciaio dei Cavalieri il quale, fin da bambino, andava nelle cucine a fare fessi i cuochi con metodica furfanteria. Diceva: “guardate, ragazzi, non vedete? È primavera! C’è una rondine! (celidwvn, v. 419).
Quelli alzavano gli occhi al cielo, e il fanciullo rubava la carne. Se  qualcuno lo intravvedeva, il mariolo [17] nascondeva il maltolto tra le natiche e, su gli dèi,  giurava di no (v. 424).
Io replico dunque che i voti si dovrebbero prendere pulendosi molto bene le mani, non sporcandosele come sostiene la belloccia. Come può un uomo politico di lungo corso, una volpe così consumata, farsi rappresentare da una persona tanto inopportuna e inappropriata ? Ma è una donna ed è giovane, si dirà.
Giovane donna “fa grado” aggiungeranno alcuni, come dicevano una volta gli alpini di se stessi.
 Io dico e ripeto che le donne vanno bene, anche meglio degli uomini intelligenti e onesti, se hanno la testa e lo stile di Rita Montalcini o la capacità di rielaborare il dolore  manifestata in tutti questi anni da Patrizia Aldrovandi.
Le sue sofferenze sono state motivo di educazione per tutti i figli della luce. Federico sarà fiero di lei.
Ogni donna e ogni uomo deve esserlo.
Dicevo che si soffre la mancanza del sole e della pietà.
Pensando all’oltraggio subito  dall’eroica, bellissima  madre di Ferrara, credo che il sole impallidisca, poi nasconda la sua splendidissima faccia, il suo santo volto di luce [18], per la vergogna e il disgusto di illuminare uomini come quelli che ieri  oltraggiavano il ragazzo assassinato dai loro  colleghi  e colpivano barbaramente le ferite di Patrizia Aldrovandi, povere bocche, non mute [19] del resto, grazie al coraggio e alla forza della magnifica signora, come, giustamente non ha taciuto Laura Boldrini, una donna non  indegna dell’alta carica che ricopre.
A lei avvicino la simpatica Laura Puppato che votai alle primarie, e non ne sono pentito. Poi alle politiche ho votato Ingroia, forse perché mi piacciono i perdenti e tendo a saltare sul loro carro.
Da bambino tenevo per i Troiani e per gli Indiani massacrati dai cowboys. Da adulto tengo per i  civili bombardati in varie parti del mondo ed esecro mandanti e autori di questi massacri applauditi da troppi dei nostri politici.
Sono strano, no?
 Ma torniamo alle politiche menzionate sopra.
Donne non giovanissime, non vuote, non inutili, né dannose. Poiché se tutte le giovani donne vanno e fanno bene, se giovane donna fa già di per sé grado, allora il più benemerito è Berlusconi che incensava le varie Minetti, e non solo durante le messe nera di Arcore, ma anche in sedute, che, se l’Italia non fosse malata dovrebbero essere consessi resi sacri dall’onestà, dall’intelligenza e dalla cultura di gentildonne e galantuomini, non paludi assordate da schiamazzi di tangheri e tanghere, per non dire peggio, come ha fatto Battiato, forse esagerando [20] .

La Cancellieri  che alcuni vorrebbero Presidente di tutti noi ha esitato a dire che  quattro poliziotti , tre uomini e una donna, i quali hanno vilmente ammazzato  di botte  un ragazzo inerme di 18 anni, devono essere senz’altro espulsi dal corpo da loro disonorato. Ovviamente non intendo il corpo come sw`ma e non alludo alla pena di morte cui sono fieramente avverso. Credo infatti che l’uccisione di ogni persona, anche della peggiore del mondo, offenda l’umanità e il cosmo stesso di cui facciamo o dovremmo fare parte. L’assassinio invece è parte del caos.
A questo proposito ho già citato Alessandro Manzoni e lo faccio di nuovo:" Il sangue di un uomo solo, sparso per mano del suo fratello, è troppo per tutti i secoli e per tutta la terra" [21].

 Per questo credo che anche i marò, se dimostrati colpevoli, debbano essere seriamente puniti. Non con la pena di morte, certo, e nemmeno con l’ergastolo, cui pure sono contrario, ma  nemmeno per finta.

Invece alcuni dei nostri politici aristofaneschi, a partire da La Russa che giubila roco si impanca a paladino, non certo dei deboli, dei vinti, dei morti, ma ogni volta, coerentemente, della prepotenza, e  vorrebbero fare  passare per eroi, o per santi, e subito, questi militari  accusati di avere ammazzato due pescatori.
  
 Gli uomini vorrei che fossero della levatura morale di Papa Francesco. E’ molto più giovane lui di tanti quarantenni recentemente cooptati in tutti i partiti. Giovani o mezzi giovani che non sanno parlare né stare zitti. Ma “ anche giovane uomo fa grado” dicono. Lasciamo perdere. Di questo basta.
Seguitiamo  invece ad aspettare la primavera quasi con ansia, e, ripeto, desideriamo il sole, la pietà, la giustizia, i fiori, le rondini, il canto dell’usignolo, il garrire della rondine.
Illa cantat, nos tacemus. Quando ver venit meum?
Quando faciam uti chelidon, ut tacere desinam?” [22]

Giovanni Ghiselli g.ghiselli@tin.it


[1] The all-cheering sun (Shakespeare, Romeo e Giulietta, I, 1),  il sole che tutto rallegra. The all-seeing sun (ivi, I, 2. il sole che tutto vede.
F. Hölderlin in Iperione  scrive:" l'eroica luce del sole dona gioia con i suoi raggi alla terra" (p.76), e, "il sacro sole sorrideva tra i rami, il buon sole che non posso nominare senza gioia e gratitudine, che spesso, con un solo sguardo, mi ha guarito da un profondo dolore e ha purificato la mia anima dallo scontento e dalle preoccupazioni"(p.111).


[2] Soccus è il sandalo basso usato dagli attori comici.
[3] Cothurnus è il calzare a suola alta usato dagli attori tragici per aumentare la statura. Lo usa anche Berlusconi, sebbene in lui prevalga la facies comica
[4] Cfr. The winter of our discontent, Shakespeare, Richard III I, 1
[5] 63 a. C.-23 d. C
[6] Remo Bodei, Geometria delle passioni, p. 100.
[7] Cfr. Ep. XXXI, in OS, IV, p. 127: Vitam non maerore et  gemitu, sed tranquillitate, laetitia et hilaritate transigere studeo.
[8] Remo Bodei, Geometria delle passioni, p. 123
[9] Cfr. Sallustio, Bellum Catilinae, 31: M. Tullius, inquilinus civis urbis Romae . Cicerone era di Arpino.
[10] Seneca che nella Consolatio ad Marciam  (10, 2) scrive:"mutua accepimus. Usus fructusque noster est ", abbiamo ricevuto delle cose in prestito. L'usufrutto è nostro.

[11] Cfr. Gorgia, 524 a.
[12] Omero chiama gli dèi "esorabili", listoiv, ossia disponibili a perdonare i peccati, Iliade , IX, 497.

[13] Da aiscrov~ , turpe e lovgo~, parola, discorso.
[14] Da skw`r-skatov~, merda.
[15] Nibicuculia, città delle nuvole e dei cuculi.
[16] duskolon gerovntion- uJpovkwfon (vv. 42-43).
[17] Ricordate Craxi su Mario Chiesa?
[18] Cito qui sotto primi cinque versi dell’Oedipus di Seneca che introducono la descrizione di Tebe, la città malata, resa malata dalla contaminazione che viene dai suoi regnanti  :"Iam nocte Titan dubius expulsa redit,/et nube moestum squalida exoritur iubar, /lumenque flamma triste luctifica gerens/prospiciet avida peste solatas domos,/stragemque, quam nox fecit, ostendet dies " (vv. 1-5), già, cacciata la notte, torna un Titano incerto, e il suo splendore spunta cupo da una nuvola sporca, e, portando una luce afflitta con fiamma luttuosa, osserverà le case desolate dall'avida peste, e la strage che la notte ha compiuto la farà vedere il giorno.
Il Titano è il Sole. Edipo fin dai primi versi, riconosce  che l’infezione viene dal Palazzo:"Fecimus coelum nocens" (v. 36),  abbiamo reso colpevole il cielo. Un'eco di questa autodenuncia si trova nell'Amleto quando il re assassino del fratello dice:"Oh, my offence is rank, it smells to heaven" (3, 3), oh il mio delitto è marcio, e manda fetore fino al cielo. Poco dopo Amleto, parlando con la madre, paragona lo zio a una spiga ammuffita che infetta l'aria (3, 4).

Le ferite spesso parlano: non sempre sono " dumb mouths " (Shakespeare, Giulio Cesare , III, 2.) bocche mute, come quelle di Cesare assassinato. "Una ferita è anche una bocca. Una qualche parte di noi sta cercando di dire qualcosa. Se potessimo ascoltarla! Supponiamo che queste "intensità sconvolgenti siano una sorta di messaggio: sono "cicatrici", ferite, che segnano la nostra vita" (J. Hillman, Il piacere di pensare , p. 66.)

[20] Non più di Dante però: “Ahi serva Italia, di dolore ostello,/nave sanza nocchiere in gran tempesta,/non donna di province, ma bordello! “ (, VI, 76-78)
[21] Osservazioni sulla morale cattolica  (cap. VII).


[22] Pervigilium Veneris, 89-90, lei canta, noi stiamo zitti. Quando farò come la rondine, sì che  smetta di  tacere?


sabato 23 marzo 2013

La festa della donna e dell’uomo


Poi venne marzo, il marzo del ’79 che fu un mese di gioia.
Giovedì 8 facemmo l’amore per la prima volta all’aperto. Andammo a desinare al Mulino bruciato, un modesto locale dell’estrema periferia nord occidentale di Bologna. Eravamo contenti delle ottime tagliatelle, di noi stessi, più carini e allegri del solito, dell’aria già tiepida che andava ammorbidendo la terra. Questa non era ancora fiorita, ma non era più rappresa dal gelo: cominciava a inumidirsi, a intenerirsi, ad aprirsi, a lasciarsi accarezzare intimamente dal vento che ne traeva un profumo di vita nascente, un odore fresco con cui stuzzicava i sensi di uomini, donne e animali. Dopo il pranzo gustoso, Ifigenia mi fissò a lungo, come faceva in camera nostra quando voleva che andassi a lavarmi per ripetere l’atto d’amore; quindi, illuminandosi in volto, disse: “Gianni, facciamolo qui!”
“Qui dove?”, le chiesi, lusingato, e pure un poco imbarazzato per giunta, guardandomi intorno, “Sulla sedia, qui sopra il tavolo, o là sotto? Lo sai che ci metterebbero  in prigione per atti osceni in luogo pubblico?”
“Ti prego, ti prego”, insisteva giovanilmente scherzando, senza ascoltare ragioni di opportunità e di decenza. “Facciamolo qui! Voglio farlo subito qui, ti prego, dimmi di sì, ti prego, fammi tutta contenta: oggi è la festa della donna, della tua donna! Ti prego, che  cosa ti costa?”
Mi guardava con i suoi grandi occhi di daina, neri, unidi e attraversati dal balenare improvviso della follia. Quella mania erotica che rende pazzo chi ne è posseduto. Pazzo sì, ma di una follia più saggia della saggezza del mondo.
“Ci costerebbe come minimo una multa salata, forse finanche la libertà”, le spiegavo di nuovo, “è vietato dalla legge e magari anche dal buon gusto”.
La giovane donna faceva una scena ma era pure invasata da Eros che è un dio grande, irresistibile, armato di frecce anche quando è nudo e quando è in vacanza.
“Ti prego, ti prego, ti prego: non dirmi di no. Facciamolo almeno una volta, una sola!”, continuava a ripetere mimando il tono vocale di una bambina che chiede al papà di soddisfarle un capriccio.
Era la prima volta che faceva quel gioco semiserio con me; io, sebbene un po’ imbarazzato, lo trovavo eccitante e carino, siccome sentivo che era dettato da una voglia erotica autentica.
Qualche mese più tardi invece il medesimo ludus divenne una commedia oscena, arifradesca[1], recitata per provare quanto potere conservasse sulla mia vessata persona e quanto potessi resisterle: mentre io negavo nervosamente, lei insisteva con rabbia, finché si arrivava al litigio.
Ma quell’otto marzo remoto, la brutta degenerazione della schermaglia eccitante e lieta era molto lontana. Soprattutto perché avevamo  una voglia ancora non appagata di fare l’amore tra noi. Tantoché Ifigenia propose una soluzione non impossibile, quasi plausibile, e io l’accettai.
A un tratto disse: “Va bene, qui non si può, mi hai convinta. Ma casa nostra è lontana assai, e io non ne posso più dalla voglia. Andiamo in un campo vicino: oramai è primavera, cantano già gli uccellini. Presto arriveranno anche le rondini:  “Illa cantat, nos tacemus. Quando ver venit meum? Quando faciam uti chelidon, ut tacere desinam?[2]   Ricordi?”
“Sì, ricordo. Va bene andiamo. La nostra primavera, la più bella della nostra vita, è arrivata. Possiamo cantare ”.
Chiesi il conto, lo pagai, presi anche la ricevuta fiscale temendo che venissero a cercarmi per recapitarmela, magari mentre facevamo l’amore, se pure ci fossimo riusciti, in uno dei luoghi inameni che avevamo intravisto, con occhio indagatore, intorno al locale.
Trovammo un campo orribile, quasi tartareo: ingombro di rottami, recinto dalla ferrovia, dall’autostrada con tangenziale, e da strade minori, tutte percorse da macchine. Ci stendemmo a terra tra la carcassa di un camion distrutto, che tuttavia, enorme com’era, ci copriva dalla vista di tre parti del mondo, e un casotto ligneo, senza porte né finestre, che ci schermiva dalla quarta. Stesi l’impermeabile in terra dove la bella donna poteva posare la schiena tornita e la testa ricca di ricci tanto scuri da riverberare il sole con riflessi violacei. Poi ci spogliammo, senza rabbrividire. La santa luce del primo fra tutti gli dèi [3] intiepidiva l’aria.
 Ifigenia era umida e fresca come la terra. Il suo sesso era vivace come un animale giovane, vago di salti giocosi; anche il mio, nel contatto, acquisiva la vitalità irrefrenabile, esplosiva di un cucciolo sano, e assecondava la volontà di gioco della compagna.
Quegli atti, sebbene scomodi e non privi di inquietudine, ci appassionarono, diventarono da giocosi, gioiosi, e furono iterati innumerevoli volte, finché la terra umida, toccata e premuta dai corpi, li ebbe annerati in varie parti. Quando fummo sazi, ci alzammo sfiniti e felici. Quell’otto marzo remoto dunque io e la primaverile creatura facemmo l’amore con voglia lieta e santa. Me ne sarei ricordato con nostalgia due anni più tardi, quando la ragazza briosa stava degenerando in una cupa, stremata istriona, vaga di  ciance, di scene, di applausi, di lucri: era già pronta a inquinarsi in voluttà nefande e rovinose. Arifradesche appunto [4].

Giovanni Ghiselli g.ghiselli@tin.it
    

[1] Un poeta comico infamato da  Aristofane, cfr. Cavalieri, v. 1281
[2] E’ una citazione dal Pervigilum Veneris. (vv. 89-90). Quella canta, noi stiamo in silenzio. Quando viene la mia primavera? Quando farò come la rondine e smetterò di tacere?
[3] Riporto qui le citazioni sul sole presenti nell’articolo precedente. Nell’Edipo re di Sofocle  il sole è" pavntwn qew'n provmo""(660),  il primo fra tutti gli dei, e "th;n..pavnta bovskousan flovga" (v. 1425), la fiamma che nutre la vita.
Nell'Edipo a Colono  il sole è, con una ripresa dell'idea omerica,"oJ pavnta leuvsswn   {Hlio"" (v. 869), Elio che vede tutto; e nell’Antigone  viene invocato come "lampavdo" iJero;n-o[mma" (vv. 879-880), santo volto di luce.

[4] Cfr. Aristofane, Cavalieri: “ Arifrade il farabutto…che in nefande voluttà la lingua inquina: va leccando nei bordelli quella sudicia pruina” (vv. 1284-1285)

Il potere come servizio: Papa Francesco, Francesco d’Assisi e il culto del sole.


Il nuovo pontefice, Francesco, ha detto parole appropriate, degne del vicario di Cristo e dell’Imitator Christi suo eponimo: “il potere è un servizio”.
Infatti il   potere è morale, ed è  razionale, solo se esercitato in favore e al servizio di chi non ce l’ha.
Sentiamo qualche  voce nobile e antica affermare questo concetto.
Nelle Epistole a Lucilio,   Seneca, il maestro di Nerone già ripudiato dal discepolo imperiale, ricorda che nell'età dell'oro governare era compiere un dovere e un servizio, non esercitare un potere assoluto:" Officium erat imperare, non regnum" (90, 5).
Parole analoghe  si leggono in Psicanalisi della società contemporanea  di E. Fromm:"Il capo non è soltanto la persona tecnicamente più qualificata, come deve essere un dirigente, ma è anche l'uomo che è un esempio, che educa gli altri, che li ama, che è altruista, che li serve. Obbedire a un cosiddetto capo senza queste qualità sarebbe una viltà" (p. 299).
 La protagonista dell'Antigone di Brecht si propone come tale tipo paradigmatico in antitesi al tiranno Creonte il quale le domanda:"di' dunque perché sei così ostinata". E la ragazza risponde:"Solo per dare un esempio".
Il potere, se non viene gestito in favore e beneficio di chi ne è soggetto, secondo la figlia di Edipo è una specie di droga che asseta di sé:"Perché chi beve il potere, beve acqua salsa, non può smettere, e seguita, per forza, a bere".
“Sono rari i sovrani che apprendono la saggezza nella sovranità. Al contrario, l’occupazione del potere suscita un delirio di potenza, e la sete di potere suscita il più delle volte ambizioni smisurate. Così intorno al potere si moltiplicano colpi di stato, assassini, fratricidi, patricidi, assai ben descritti da Eschilo, Sofocle, Euripide, Shakespeare, mentre la follia insita nel potere è stata mirabilmente mostrata da Calderón de la Barca ne La vita è sogno. Minacciati da rivali o da pretendenti, i despoti diventano patologicamente diffidenti di tutto”[1].
Papa Bergoglio ha detto frasi e compiuto gesti, per ora simbolici, che vogliono significare l’assunzione non solo del nome, ma anche dell’esempio di parole e  opere di Francesco d’Assisi, il suo paradigma storico e pure mitico, forse la sua prefigurazione.
Abbiamo visto e sentito vicende di papi di ogni tipo.
Non sono un papista.  Considero l’uomo. Alcuni papi non mi sono andati a genio.  Ratzinger mi piaceva per il suo essere un uomo mite, uno studioso intelligente; questo papa mi garba per il suo richiamarsi a un grande uomo che scelse  la parte del povero e del soccorritore dei poveri nella sua vita mortale.
Secondo Dante, Francesco prese in moglie la povertà.
“Questa, privata del primo marito,
millecent’anni e più dispetta e scura
fino a costui si stette sanza invito
(…)
Ma perch’io non proceda troppo chiuso
Francesco e Povertà per questi amanti
Prendi oramai  nel mio parlar diffuso”[2].

Paupertas unisce Francesco e Cristo, istituisce la posizione del santo come imitator Christi[3].

Francesco era figlio di un ricco mercante, ma volle morire povero. Non solo non traeva godimento e non menava vanto delle  ricchezze paterne, ma le rifiutò e le ignorò. Per lui il denaro del padre non era nemmeno un disvalore:  era identico al nulla del quale nemmeno ci si vergogna.
“Né li gravò viltà di cor le ciglia
Per esser fi’ di Pietro Bernardone”[4]

Quella della povertà è una scelta difficile, ma se fatta con convinzione assoluta, ossia svincolata da calcoli di visibilità e di successo, può portare alla felicità di Francesco che amava la vita e si sentiva pienamente contraccambiato da lei.
L’inizio del nuovo Papa dunque ci fa sperare. Vorremmo pregarlo di tenere questa rotta anche con il vento contrario e il mare in tempesta. Certamente infatti  dovrà affrontare opposizioni di vario genere da parte di quel mondo della finanza, del mercato, dello spreco, dell’arroganza, che le sue parole e i suoi atti tendono a confutare.
  Francesco intende distogliere l’uomo dall’idolatria del denaro che, se diventa la misura di tutti i valori, fuorvia l’umanità conducendola al pervertimento e all’aberrazione dalla sua natura.
I consumisti sono idolatri poveri. Gli speculatori idolatri ricchi
Costoro traggono l’identità dal denaro e dalle  cose che comprano, come si legge nella Bibbia: “Gli idoli dei popoli sono argento e oro, opera delle mani dell'uomo. Hanno bocca e non parlano; hanno occhi e non vedono; hanno orecchi e non odono; non c'è respiro nella loro bocca. Sia come loro chi li fabbrica e chiunque in essi confida" (Salmi, 135, 15-18).       

 Il papa può ricondurre il suo popolo alle gioie  sane dell’amicizia, della fratellanza, dell’amore per l’umanità e per la natura.
Francesco d’Assisi amava l’umanità, amava la terra con le sue creature e amava il cosmo. Nel sole vedeva l’immagine di Dio.
“Laudato sie, mi’ Signore, cum tucte le tue creature,
specialmente messor lo frate sole,
lo qual è iorno, et allumini noi per lui.
Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore:
de te, Altissimo, porta significatione”[5].
Parole sante. E classiche.
Nell’Edipo re di Sofocle  il sole è" pavntwn qew'n provmo""(660),  il primo fra tutti gli dei, e "th;n..pavnta bovskousan flovga" (v. 1425), la fiamma che nutre la vita.
Nell'Edipo a Colono  il sole è, con una ripresa dell'idea omerica,"oJ pavnta leuvsswn   {Hlio"" (v. 869), Elio che vede tutto; e nell’Antigone  viene invocato come "lampavdo" iJero;n-o[mma" (vv. 879-880), santo volto di luce.

La venerazione del dio-sole, della quale abbiamo testimonianza nei testi greci, ha avuto il suo primo apostolo nel faraone Amenofi IV della XVIII dinastia. Egli sostituì il culto di Ammone con quello del Sole e cambiò il proprio nome in Ekhnaton, gradito ad Aton, il disco solare. Al sole il faraone eretico dedicò un Inno e delle immagini. Ecco alcune parole:" le greggi sono liete nei loro pascoli/quando tu sorgi/gli alberi e le erbe verdeggiano/gli uccelli svolazzano nei loro nidi/e le loro ali ti elogiano.../i tuoi raggi penetrano fin nell'intimo del mare".
Freud fa di questo faraone illuminato l'inventore del monoteismo e il predecessore della religione ebraica. "Durante la gloriosa diciottesima dinastia, sotto la quale l'Egitto per la prima volta divenne un impero mondiale, salì al trono intorno all'anno 1375 a. C. un giovane faraone, che dapprima si chiamò Amenofi (IV) come il padre, ma poi cambiò nome, e non solo nome. Questo re tentò di imporre ai suoi sudditi una nuova religione...Si trattava di un rigoroso monoteismo, il primo tentativo del genere nella storia mondiale, per quanto ne possiamo sapere...In due inni ad Atòn, serbatici dalle iscrizioni sulle tombe rupestri e probabilmente da lui stesso composti, il sole come creatore e conservatore di tutti gli esseri viventi dentro e fuori l'Egitto, è celebrato con tale fervida fede quale si ritrova molti secoli più tardi nei Salmi  in onore del dio ebraico Yahweh. Non gli bastò tuttavia anticipare sorprendentemente la scoperta scientifica dell'effetto della radiazione solare. Non v'è dubbio che egli fece un passo avanti, onorando il sole non come oggetto materiale, bensì come simbolo di un essere divino la cui energia si manifestava appunto nei raggi del sole...Vorrei adesso arrischiare una conclusione: se Mosè fu egizio e se egli trasmise agli Ebrei la propria religione, questa fu la religione di Ekhnatòn, la religione di Atòn...Entrambe sono forme rigide di monoteismo...Mosè non diede solo una nuova religione agli Ebrei; con pari sicurezza si può affermare che egli introdusse presso di loro la consuetudine della circoncisione...Erodoto, il "padre della storia", ci informa che la consuetudine della circoncisione era da lungo tempo familiare in Egitto[6]...e la supposizione...è tale da darci il coraggio di trarre la seguente conclusione: se Mosè diede agli Ebrei non solo una nuova religione, ma anche il precetto della circoncisione, egli non era ebreo, ma egizio, e allora la religione mosaica fu probabilmente una religione egizia, e precisamente, a cagione del contrasto con la religione popolare, la religione di Atòn, con cui si accorda anche la religione ebraica posteriore in alcuni punti degni di nota"[7].
Ma torniamo ai classici
Nel VII libro Repubblica  dove Platone narra il mito della caverna, il sole è l'immagine dell'idea del bene (hJ tou' ajgaqou' ijdeva, 517c) che a fatica si vede, ma, una volta vista, va considerata quale causa per tutti di tutte le cose rette e belle.
Cicerone nel Somnium Scipionis  (4, 9)  chiama il sole"dux et princeps et moderator luminum reliquorum, mens mundi et temperatio ", guida e principe e governatore degli altri astri, mente del mondo e forza regolatrice.
Virgilio, nella prima Georgica  (463-464), afferma la sincerità del sole nel dare segni:"Solem quis dicere falsum/audeat? ", il sole chi oserebbe chiamarlo falso?.
  Seneca in una delle Epistulae morales ad Lucilium  esprime personale riconoscenza al sole e alla luna che pure sorgono per tutti:"Soli lunaeque plurimum debeo, et non uni mihi oriuntur  " (73, 6)  .
Dante ne fa il simbolo della grazia divina che guida alla salvezza:" guardai in alto e vidi le sue spalle/vestite già de' raggi del pianeta/che mena dritto altrui per ogni calle"  fin dal primo canto dell'Inferno  (vv. 16-18).
Quindi nel Purgatorio :
"Tu scaldi il mondo, tu sovr'esso luci:/s'altra ragione in contrario non pronta,/essere dien sempre li tuoi raggi duci"[8].
 Facciamo un altro paio di esempi tratti dal neoclassicismo e dal romanticismo. F. Hölderlin in Iperione  scrive:" l'eroica luce del sole dona gioia con i suoi raggi alla terra" (p.76), e, "il sacro sole sorrideva tra i rami, il buon sole che non posso nominare senza gioia e gratitudine, che spesso, con un solo sguardo, mi ha guarito da un profondo dolore e ha purificato la mia anima dallo scontento e dalle preoccupazioni"(p.111).
Foscolo, nell'Ortis , lo chiama"ministro maggiore della natura"(20 novembre 1797) e "sublime immagine di Dio, luce, anima, vita di tutto il creato"(3 aprile 1798).
 Leopardi nello Zibaldone  (3833-3834) scrive :"Quando gli Europei scoprirono il Perù e i suoi contorni, dovunque trovarono alcuna parte o segno di civilizzazione e dirozzamento, quivi trovarono il culto del sole; dovunque il culto del sole, quivi i costumi men fieri e men duri che altrove; dovunque non trovarono il culto del sole, quivi (ed erano pur provincie, valli, ed anche borgate, confinanti non di rado o vicinissime alle sopraddette) una vasta, intiera ed orrenda e spietatissima barbarie ed immanità e fierezza di costumi e di vita. E generalmente i tempii del sole erano come il segno della civiltà, e i confini del culto del sole, i confini di essa (5 Nov. 1823.).
 Nell'Adelchi  di Manzoni, il diacono Martino, raccontando la sua prodigiosa traversata delle Alpi, compiuta non senza l'aiuto divino ("Dio gli accecò, Dio mi guidò", III, 2, v. 167), riconosce di essersi avvalso, di fatto, della guida del sole:"Era mia guida il sole/Io sorgeva con esso, e il suo viaggio/seguia, rivolto al suo tramonto"(III, 2, vv. 207-209).
Insomma gli spiriti eletti in tutti i tempi sono stati amanti della luce e adoratori del sole.
Questa riconoscenza per il sole interpretato quale Dio, o quale immagine visibile di Dio, è presente, come si vede, in vari autori della letteratura europea.
Eppure gli idolatri che "natura (…) prona finxit"[9]  non vedono nel sole se non una palla di fuoco con la quale abbronzarsi o un fuoco malefico dal quale ripararsi.
“Il sole lo maledicono i fiacchi: per loro quel che conta di un albero è l’ombra”[10].
Ma torniamo al Pontefice nostro
 Le sue  idee sono buone e sono chiare .
Sentiamone un’altra: “Il messaggio di Gesù è la misericordia. Un po’ di misericordia rende il mondo meno freddo”. La misericordia infatti è bella e radiosa come il sole.
Fossi Napolitano, affiderei a Francesco una sorta di reggenza sull’Italia.
Cari saluti, e a presto, ai miei 14923 lettori.
Dalla fine di gennaio, quando abbiamo cominciato, stiamo crescendo a una media di 274 al giorno. Con noi cresce l’Italia desiderosa e capace di amare la cultura e la vita. L’Italia del suo patrono.
Giovanni ghiselli g.ghiselli@tin.it



[1] E. Morin, L’identità umana, p. 164.
[2] Dante, Paradiso, XI, 64-66 e 73-75.
[3] E. Auerbach, Studi su Dante, p. 232.
[4] Dante, Paradiso XI, 88-89
[5] Cantico di Frate Sole.
[6] Erodoto, II, 104.
[7] S. Freud, L'uomo Mosè e la religione monoteistica ,  in Freud  Opere 1930-1938 , pp. 350 e sgg.
[8] Purgatorio , XIII, 19-21.
[9] la natura ha creato proni verso terra.
Sallustio, De Catilinae coniuratione, 1.
[10] F. Nietzsche, La gaia scienza, p. 31.

lunedì 18 marzo 2013

Le leggi scritte e quelle naturali


Le leggi scritte e quelle naturali. - 18 marzo 2013

Nell’ Antigone , la protagonista figliola di Edipo si rifiuta di obbedire a Creonte, suo re e  zio, che ha decretato con un bando il divieto di seppellire Polinice, il figlio di Edipo morto combattendo contro la patria. Dopo che la ragazza ha compiuto il gesto di ribellione, il despota le domanda
Kai; dh`t j  ejtovlmaς touvsd  j uJperbaivnein novmouς;” e allora osavi trasgredire queste leggi?" v. 449.
E Antigone risponde: “"Sì, infatti secondo me non è stato per niente Zeus il banditore di questo editto/né Giustizia che convive con gli dei di sotterra/determinò tali leggi tra gli uomini,/né pensavo che i tuoi bandi avessero tanta/forza che tu, essendo mortale, potessi oltrepassare/i diritti degli dei, non scritti e non vacillanti (a[grapta kajsfalh` qew`n novmima.)/Infatti non solo oggi né ieri, ma sempre/ sono vivi questi, e nessuno sa da quando apparvero (vv. 450-457)".

I versi 455-457 sono citati da Aristotele, quando nella Retorica distingue la legge particolare di ciascun popolo da quella comune secondo natura levgwkoino;n de; to;n kata; fuvsin (1373b). Tra queste c’è l’abitudine e la norma di seppellire i morti, poi quanto dice Empedocle a proposito di non uccidere i viventi (peri; tou` mh; kteivnein to; e[myucon), e quanto scrive Alcidamante nel Messeniaco:” ejleuqevrou~ ajfh`ke pavnta~ qeov~, oujdevna dou`lon hJ fuvsi~ pepoivhken”, dio ci lasciò tutti liberi, la natura nessuno fece schiavo. 

All'opposto dell’ u{bri~ tirannica, Antigone  afferma il suo amore per l'umanità :" ou[toi sunevcqein ajlla; sumfilei'n e[fun", (v. 523), certamente non sono nata per condividere l'odio, ma l'amore. "Esiste un umanesimo greco, al quale dobbiamo opere come l'Antigone  di Sofocle, una delle più alte tragedie ispirate a quest'atteggiamento; in essa, Antigone rappresenta l'umanesimo e Creonte le leggi disumane che sono opera dell'uomo"[1].

Le leggi che contano per Sofocle sono quelle provenienti dagli dèi. Lo stesso pensa il coro dell'Edipo re  che nella prima strofe del secondo Stasimo, "punto nodale della tragedia"[2], canta:"Oh, mi accompagni sempre la sorte di portare/ la sacra purezza delle parole/e delle opere tutte, davanti alle quali sono stabilite leggi/sublimi, procreate/attraverso l'aria celeste di cui Olimpo è padre da solo né le /generava natura mortale di uomini/né mai dimenticanza/potrà addormentarle:/grande c'è un dio in loro e non invecchia" (vv. 863-872).

"Da questi versi risuona chiaro ad ognuno l'addolorato avvertimento del poeta:"la religione è in pericolo", la religione che per lui coincide con le leggi non scritte, eterne e divine che rappresentano il fondamento morale della vita sociale. Con tutta la forza della sua convinzione egli scende in campo per essa nel luogo sacro, per umiliare con la rappresentazione della storia sacra la superbia dell'intelletto, per fugare il dubbio e per sostenere la fede vacillante"[3].
Edipo con il suo impareggiabile vigore, la sua fede nell'azione, la volontà di rischiare pur di sapere, sarebbe un microcosmo della popolazione ateniese che in effetti, dovrà provare pure l'onta della sconfitta, al pari del re di Tebe il quale, insuperbitosi per la propria forza intellettuale, subisce un'umiliazione rimasta paradigmatica nella letteratura europea, come ci mostrano queste parole di Proust:" E meglio di un coro di Sofocle sull'umiliato orgoglio di Edipo, meglio della morte stessa e di qualsiasi orazione funebre, il saluto premuroso e umile del barone alla signora di Saint-Euverte proclamava quanto di fragile e perituro c'è nell'amore d'ogni terrena grandezza e d'ogni umana superbia"[4] .
tiv dei' me coreuvein vv.895-896."è detto assai più che dal Coro, da Sofocle", secondo Perrotta."Qui non parla più il Coro, ma il poeta che si lamenta dell'empietà del suo popolo" (Sofocle, p.239).
 La punizione divina non può mancare poiché, se gli dei non intervenissero a colpire gli empi, le stesse tragedie di Sofocle, sacre rappresentazioni di condanna dell'ateismo, perderebbero credibilità e valore. Un frammento (12) del sofocleo Aiace locrese  afferma che l'occhio aureo della giustizia vede e contraccambia l'ingiusto:"to; cruvseon de; ta'" Divka" devdorken o[mma to;n d& a[dikon ajmeivbetai".
Su questa domanda chiave sentiamo anche Dodds:“the meaning is surely ‘Why should I, an Athenian citizen, continue to serve in a Chorus? (il significato è certamente ‘Perché dovrei io, un cittadino ateniese, continuare a servire nel coro? )  
In speaking of themselves as a chorus they step out of the play into the contemporary world, as Aristophanes’ choruses do in the parabasis. And in effect the question they are asking seems to be this: ‘ If Athens loses faith in religion, if the views of the Enlightement prevail, what significance is there in tragic drama, which exists as part of the service of the gods? To that question the rapid decay of tragedy in the fourth century may be said to have provided an answer. In sayng this, I am not suggesting with Ehrenberg that the position of Oedipus reflects that of Pericles[5], or with Knox that is intended to be a symbol of Athens[6]: allegory of that sort seems to me wholly alien to Greek tragedy. I am only claiming that at one point in this play Sophocles took occasion to say to his fellow citizens something which he felt to be important. And it was important, particularly in the period of the Archidamian War, to which the Oedipus rex probably belongs. Delphi was known to be pro-Spartan: that is why Euripides was given a free hand to criticize Apollo.
But if Delphi could not be trusted, the whole fabric of traditional belief was threatened with collapse[7],

Sofocle si inserisce nel dibattito acceso dalla sofistica: esso contrapponeva le leggi naturali a quelle artificiali o culturali. Delle une e delle altre vengono date interpretazioni differenti.
Il poeta di Colono non considera naturali e degne di obbedienza le regole che lasciano correre o addirittura convalidano l' u{bri", intesa come prepotenza, sia essa di un tiranno, suo parto mostruoso ( u{bri" futeuvei tuvrannon, Edipo re , v.873), sia di un popolo intero che per avidità di maggior avere (pleonexiva) scatena guerre aggressive foriere di stragi e lutti, tanto per gli aggrediti quanto per gli aggressori.

Difesa delle leggi scritte. Euripide Supplici e Ciclope. Cicerone De officiis

G. Ugolini sostiene che le leggi scritte sono anteposte a quelle non scritte dai sostenitori della democrazia e fa l'esempio delle Supplici  di Euripide dove "Teseo si produce in un'esaltazione del sistema democratico...replicando alle accuse dell'araldo, puntualizza un aspetto della democrazia che in questa sede ha grande rilevanza: mentre nella città governata da un tiranno la legge è del tutto arbitraria, in un regime democratico (Eur. Suppl. 433-437): le leggi sono scritte (gegrammevnwn tw'n novmwn), la giustizia è uguale per il debole e per il ricco” [8]...

gegrammevnwn de; tw'n novmwn o{ t ’ ajsqenh;~-oJ plouvsiov~ te th;n divkhn i[shn ecei ” (vv. 433-434), quando ci sono le leggi scritte il debole e il ricco hanno gli stessi diritti
Nelle Supplici di Euripide, Teseo propugna la democrazia e dice all’araldo tebano mandato da Creonte  che quando c’è un tiranno, non c’è niente di più malevolo per la città, e  non esistono più leggi comuni (novmoi- koinoiv 430-431)


“Chi è più debole può fronteggiare chi sta meglio, qualora ne riceva offesa, e se ha ragione il piccolo prevale sul grande. Al di là dei topoi  democratici ricorrenti nel discorso di Teseo, che per molti aspetti hanno richiamato il parallelo con l'epitafio di Tucidide[9], è importante soffermarsi sul nesso che egli istituisce tra "leggi scritte" e democrazia: la pratica effettiva della giustizia e dell'uguaglianza tra i cittadini, indipendentemente dai loro rapporti di censo e di forza, è garantita dalla scrittura delle leggi, che tutela i diritti dei meno potenti[10].  La necessità e la difesa della scrittura delle leggi doveva essere percepita come un punto essenziale della propaganda democratica nell'ambito di quella tensione e contrapposizione che vi era ad Atene tra la legislazione scritta della polis e quella orale propugnata e gestita dalle casate aristocratiche"[11].

Della vasta produzione euripidea ci sono arrivate 18 drammi  di sicura attribuzione, tra i quali uno satiresco, il Ciclope , di cronologia incerta, ma probabilmente posteriore al 410. L’autore porta sulla scena il noto episodio omerico del IX canto dell’Odissea. “Attraverso Polifemo, Euripide critica apertamente l’estremismo degli intellettuali del suo tempo, che consideravano lo “stato di natura” un modello al quale ritornare ed esaltavano il ruolo dell’uomo come misura di tutte le cose, proclamando l’individualismo sfrenato, la supremazia assoluta del diritto del più forte, l’agnosticismo religioso[12]. Il valore di questa polemica risulta ancora più chiaro se si accetta di attribuire il Ciclope agli ultimi anni della vita del poeta, dopo la fallimentare spedizione militare degli ateniesi in Sicilia[13], in un momento delicato per il destino della democrazia ateniese” [14]
Polifemo, dopo che si è ingozzato dei compagni di  Odisseo e intende mangiare anche lui, fa una predica all’”ometto” dicendo che la ricchezza è l’unico dio per le persone sagge (oJ plou`to~, ajnqrwpivske, toi~ sofoi`~ qeov~, v.316). Più avanti, coerentemente con questa visione crassamente materialistica, il Ciclope aggiunge che sacrifica le greggi a se stesso kai; th`/ megivsth/ gastri; th`/de, daimovnwn (v. 335), e a questa pancia, la più grande tra le dèe.  Zeus per i saggi è mangiare e bere tutti i giorni e non prendersela per niente (lupei`n de; mhdevn, v. 338).
Devono invece piangere i legislatori che con le leggi hanno complicato la vita umana: “oi{ de; tou;~ novmou~ e[qento poikivllonte~ ajnqrwvpwn bivon” (v. 338-339).   

Cicerone bel De officiis ricorda che la causa della creazione delle leggi fu un bisogno di giustizia e di uguaglianza: “leges sunt inventae, quae cum omnibus semper unā atque eādem voce loquerentur” (II, 42), furono trovate le leggi perché parlassero a tutti con una sola e identica voce. 

Vediamo adesso alcune testimonianze di autori che, come Sofocle, criticano le leggi scritte.

Platone nella Lettera VIII  sostiene che mentre la servitù e la libertà smodate sono un gran male (pavgkakon), quelle moderate sono un gran bene, e moderata è la servitù a Dio, smodata agli uomini ("metriva de; hJ qew'/ douleiva, a[metro" de; hJ toi'" ajnqrwvpoi"", 354e).
Dunque  dio per gli uomini saggi  è  legge, per gli stolti il piacere (" qeo;" de; ajnqrwvpoi" swvfrosin novmo", a[frosin de; hJdonhv", 355a ).
Platone consiglia ai familiari e amici di Dione un accordo e la divisione del potere in tre re (Ipparino, figlio di Dioniso I e di Aristomache, Dioniso II, figlio di Dioniso I ( fu tiranno dal 405-367) e di Doride, e Dione II, il figlio di Dione (410-354) che era cognato e genero di Dioniso I poiché era fratello di Aristomache e  aveva sposato Arete, figlia di Dioniso I e Aristomache.
 Il modello, secondo Platone, può essere la  costituzione di Licurgo il quale come favrmakon contro la tirannide introdusse tre poteri:  i re,
il consiglio degli anziani
e il freno degli efori-kai; to;n tw`n ejfovrwn desmovn, 354b.
Non viene nominata l’apella, l’assemblea popolare che del resto non aveva facoltà di iniziativa.
La legge deve essere signora degli uomini e non gli uomini tiranni della legge. Bisogna fuggire a gambe levate (feuvgein fugh`/)  la tirannide, ajplhvstw~ peinwvntwn eujdaimovnisma ajnqrwvpwn kai; ajnohvtwn (354c), presunta felicità di uomini insaziabilmente affamati e stupidi.
La tirannide è dunque universalmente biasimata

Condanna della libertà sfrenata. Né dispotismo né anarchia

Bisogna scappare dalla tirannide e pure guardarsi eujlabei`sqai dal desiderio insaziabile di una libertà inopportuna (ajplhstiva/[15]  ejleuqeriva~ ajkaivrou, 354d).
La libertà sfrenata porta le sciagure subite dai Siracusani prima della tirannide di Dioniso I.
 Essi praticando un amore smisurato di libertà (ajmevtrw/ ejleuqeriva~ crwvmenoi e[rwti ) caddero nelle sciagure dell’anarchia.  Vivevano licenziosamente (trufw`nte~) addirittura comandando sui loro comandanti (te kai; a{ma ajrconte~ ajrcovntwn), fino al punto che lapidarono (katevleusan) i dieci strateghi che governarono prima di Dioniso kata; novmon oujdevna, senza processo, per non sottostare ad alcuno, neppure secondo giustizia e secondo la legge, ma poi caddero sotto i tiranni.

Questo avviene quando la massa ritiene suo diritto fare quello che vuole, anche contro la legge.
Una storia che avvenne poco dopo anche ad Atene.
dopo la battaglia delle Arginuse ( tarda estate del 406 a. C.), il popolo ateniese, nel quale era stato inoculato l'odio per gli strateghi e il desiderio dei capri espiatori, gridava che era grave se qualcuno non permetteva al popolo di fare quanto voleva ("to; de; plh'qo" ejbova deino;n   ei\nai, eij mhv ti" ejavsei to;n dh'mon pravttein o{ a]n bouvlhtai", Senofonte, Elleniche I, 7, 12).
"E' la rivendicazione che riecheggia minacciosamente in assemblea ad Atene durante il processo popolare contro i generali delle Arginuse", è "la formula che caratterizza, secondo Polibio, la degenerazione  della democrazia (VI, 4, 4:" quando il popolo è padrone di fare quello che vuole").[16]
Un’ altra espressione di condanna di questa negazione dello Stato di diritto si trova nell’Ifigenia in Aulide[17] di Euripide quando il coro delle donne calcidesi lamenta che sono caduti i valori forti del Valore e della Virtù, mentre regna l’empietà, e ajnomiva de; novmwn kratei' (v. 1095), la licenza prevale sulle leggi.
Alla sovranità popolare ed alla volontà  popolare come unica fonte della sovranità e dell'autorità, Polibio oppone-quando tratteggia la "buona" democrazia-la sovranità della legge  : è democrazia-osserva- quel regime nel quale, fermi restando l'indiscussa autorità delle leggi e l'impegno a rispettarle, le decisioni vengono prese in base al principio maggioritario (VI, 4, 5), un regime cioè nel quale il prevalere della volontà della maggioranza non pone comunque in discussione, né può intaccare, le leggi esistenti. Vi è insomma "buona" democrazia-secondo Polibio-quando tra volontà popolare e legge (magari preesistente all'affermarsi del regime democratico) prevale la legge"[18]..

Sentiamo Polibio:" non è democrazia quella in cui la massa sia padrona di fare tutto ciò che voglia e preferisca; invece quella presso la quale è tradizionale e abituale venerare gli dèi, onorare i genitori, rispettare gli anziani, obbedire alle leggi; presso tali comunità, quando prevale il parere dei più, questo bisogna chiamare democrazia" (VI, 4, 4).-
 
Concludiamo l’VIII Lettera di Platone.
Viene introdotto a parlare Dione in prosopopèa.
Consiglia di dare leggi che mettano al primo posto l’anima, poi il corpo, poi le ricchezze, serve del corpo e dell’anima (355c).
Solo tale disposizione si può chiamare legge.
Invece il discorso che chiama felici i ricchi, è miserevole (lovgo~ a[qlio~, di chi fa la gara a[qlo~ e non la vince) ed è un lovgo~ a[nou~, stolto, da bambini e da donne, e rende miseri e stupidi chi se ne lascia persuadere. La via giusta è utile a tutti adesso è quella di mezzo (mevson. 455d).
Ossia un governo monarchico con la libertà. (Si può pensare a quello di Pelasgo nelle Supplici di Eschilo o a quello di Teseo nelle Supplici di Euripide).
Le leggi devono essere al di sopra del re e dei cittadini.

I poteri andranno divisi fra i tre re che avranno l’autorità suprema nelle cose sacre, i 35 custodi delle leggi (ad Atene fino a Efialte erano gli Areopagiti) che dovranno decidere, con il popolo e il Consiglio, sulla pace e sulla guerra. I 35 dovranno giudicare i reati che comportano pena capitale, carcere o esilio. Questi resteranno in carica un anno. Il re che è anche sacerdote non deve essere contaminato da condanne a morte.

Le leggi personificate nella prosopopea del Critone platonico

Nel Critone troviamo esposta da Socrate nella celebre prosopopea “ la più alta idea che il Greco si sia formata delle leggi laiche quasi divinizzate…il testo platonico serba un altissimo interesse perché c’insegna a qual genere di rispetto uno spirito elevato si sentisse obbligato anche verso leggi giudicate cattive. Chi viola la legge distrugge, per quanto sta in suo potere, la Città. Lo Stato non può sussistere, se le sentenze in esso pronunciate restano senza efficacia, e anzi da privati cittadini sono fatte vane e distrutte. Bisogna osservarle, anche se ingiuste: ché il cittadino è tenuto a obbedire alle leggi in virtù di un patto inviolabile. Esso è debitore della sua nascita e della sua educazione allo Stato e alle leggi[19].

Nel dialogo platonico le leggi personificate parlano al vecchio educatore condannato a morte e lo esortano a dare retta a loro che sono le sue nutrici:"peiqovmeno" hJmi'n toi'" soi'" trofeu'si", (54)., e  non lo hanno offeso. (hjdikhmevno~ a[peioujc uJf j  hJmw`n tw`n novmwn ajlla; uJp j ajnqrwvpwn” 54c). Te ne vai offeso non da noi leggi ma dagli uomini . Se evadi, come ti suggerisce Critone[20], reagisci a un’ ingiustizia con un’altra ingiustizia, offendendo te stesso, la tua famiglia, il tuo paese e noi. Sicché noi ti saremo ostili finché vivi e anche le nostre sorelle dell’Ade non ti accoglieranno benevolmente oiJ hJmevteroi ajdelfoi; oiJ ejn    [Adou oujk eujmenw`~ se uJpodevxontai, sapendo che hai alzato le mani su di noi per ucciderci (54d).
Socrate dice di sentire questa voce come i coribanti che credono di sentire i flauti.
T. Mann scrive che c’è in Nietzsche una “sopravvalutazione coribantica” [21]. della vita istintiva e Nietzsche sostiene che Socrate reprime sempre l’istinto con la razionalità, o meglio che il suo istinto lo tira indietro invece di spingerlo avanti. Nel Critone si vede che l’istinto lo induce a morire.
Un altro punto cruciale di questo dialogo è la noncuranza di Socrate per quello che pensa la gente comune, la massa che non ha il criterio del bene e del male e vive oujdeni; xu;n nw`/ (48c): “quella ti ammazza e magari, potendo, ti farebbe risorgere”.

 Solone in Plutarco. Le tevcnai. Prometeo di Eschilo e Platone.

Socrate conformava se stesso e la realtà alla legge, mentre Solone, a detta di Plutarco, adattava le leggi alla realtà piuttosto che la realtà alle leggi: “Sovlwn de; toi`~ pravgmasi tou;~ novmou~ ma`llon h] ta; pravgmata toi`~ novmoi~ prosarmovzwn…(Vita di Solone, 22, 3).
Quindi conferì dignità ai mestieri (tai`~ tevcnai~ ajxivwma perievqhke). Nel pensiero di Platone i lavori banausici (degli artigiani) non hanno dignità

L’inventore delle tevcnai è Prometeo. Le sue invenzioni sono mal reputate
 Nel Prometeo incatenato di Eschilo il Titano afferma di avere escogitato le tevcnai (v. 477),  che fanno partire la civilizzazione, anzi:"pa'sai tevcnai brotoi'sin ejk Promhqevw" (v. 507), tutte le tecniche ai mortali derivano da Prometeo.
"Questo sapere è sempre una conoscenza pratica: è il sapere che ha creato la civiltà, le tevcnai. Egli ha insegnato loro i diversi mestieri, inoltre l'astronomia, i numeri e le lettere; ma non per allargare la conoscenza del mondo nel senso degli antichi ionici: al contrario, questo sapere è orientato, alla maniera attica, verso le tevcnai, verso uno scopo pratico e un'utilità…il fuoco è il simbolo delle tevcnai, dell'attività pratica"[22].
Hegel nella Fenomenologia dello spirito scrive: “il signore si rapporta alla cosa in guisa mediata, attraverso il servo”; il servo invece “col suo lavoro non fa che trasformarla”[23].

La tecnica, infatti, non tende a uno scopo, non promuove un senso, non apre scenari di salvezza, non redime, non svela la verità: la tecnica funziona. E siccome il suo funzionamento diventa planetario, finiscono sullo sfondo, incerti nei loro contorni corrosi dal nichilismo, i concetti di individuo, identità, libertà, salvezza, verità, senso scopo, ma anche quelli di natura, etica, politica, religione, storia di cui si era nutrita l’età pre-tecnologica, e che ora, nell’età della tecnica, dovranno essere riconsiderati, dismessi, o rifondati dalle radici”[24].
Diversi autori hanno disprezzato le tevcnai.
Si veda, per esempio, un esplicito svuotamento della sofiva tecnologica nel discorso di Diotima del Simposio  platonico:"kai;  oJ me;n peri; ta; toiau'ta sofo;" daimovnio" ajnhvr, oJ dev, a[llo ti sofo;" w[n, h] peri; tevcna" h] ceirourgiva" tinav", bavnauso"" (203a), chi è sapiente in tali rapporti[25] è un uomo demonico, quello invece che si intende di qualcos'altro, o di tecniche o di certi mestieri, è un facchino.

Antifonte Sofista critica le leggi scritte
Una critica delle leggi scritte dagli uomini troviamo in Antifonte sofista[26]. Vediamo alcuni frammenti dallo scritto Sulla Verità:
Ta; me;n ga;r tw`n novmwn ejpiqevnta, ta; de; th`~ fuvsew~ ajnagkai`a”, Le norme di legge sono aggiunte, quelle di natura necessarie (simili agli eventa e ai  coniuncta di Lucrezio[27]).

" e[sti de; pavntw" tw'nde e{neka touvtwn hJ skevyi", o{ti ta; polla; tw'n kata; novmon dikaivwn polemivw" th'/ fuvsei kei'tai" (Della verità , fr. B 44 Diels- Kranz), per queste ragioni  soprattutto si svolge la nostra indagine: che la maggior parte di quanto è giusto secondo la legge si trova in contrasto con la natura.
Sono state emanate leggi per gli occhi, su ciò che devono vedere e non vedere, per le orecchie, su ciò che devono sentire e non sentire, e per la lingua, su quanto deve dire e non deve dire e così via.
Fino alla mente su quello che deve desiderare e quello che no.    
Fatti di natura, continua Antifonte, sono il vivere e il morire, e il vivere per gli uomini deriva da ciò che è utile (kai; to; me;n zh'n aujtoi'" ejstin ajpo; tw'n xumferovntwn) la morte da ciò che è dannoso. Ebbene, riguardo all'utile le prescrizioni sottoposte alla legge sono ceppi per la natura (ta; me;n uJpo; tw'n novmwn keivmena desma; th'" fuvsewv" ejsti), mentre ciò che è prescritto dalla natura è libero (ta; d j uJpo; th'" fuvsew" ejleuvqera). E certamente quello che addolora non giova alla natura, secondo la retta ragione, più di quello che rallegra.
La legge istituita dunque non è giusta né utile poiché non incrementa ma danneggia la vita.
Antifonte denuncia come innaturali le differenze che le leggi e le usanze stabiliscono tra gli uomini: "quelli che provengono da una casata non illustre non li rispettiamo né onoriamo. In questo ci comportiamo come barbari gli uni verso gli altri. Infatti per natura, in tutto, tutti siamo costituiti  per essere uguali barbari ed Elleni (pavnta pavnte~ oJmoivw~ pefuvkamen kai; bavrbaroi kai;  {Ellhne~)tutti di fatto inspiriamo nell'aria attraverso la bocca e le narici e tutti mangiamo con le mani "[28].
Voglio citare anche un frammento di Sulla concordia: “ajnaqevsqai de; w{sper petto;n to;n bivon oujk e[stin” (B 52 Diels-Kranz), non è possibile rimettere in gioco la vita come una pedina.
La vita infatti è breve come un effimero turno di guardia e un sol giorno, nel quale, una volta alzato lo sguardo alla luce, dobbiamo cedere il turno ad altri che sopraggiungono (ajnablevyante~ pro;~ to; fw`~ paregguw`men toi`~ ejpigignomevnoi~ eJtevroi~ (B50 Diels-Kranz).

Nelle Troiane di Euripide, Andromaca arriva a dire che i veri barbari sono i Greci w\ bavrbar j ejxeurovnte~   [Ellhne~ kakav-tiv tovnde pai`da kteivnet j oujde;n ai[tion; (764-765), o Greci inventori della barbarie, perché uccidete questo bambino che non è colpevole di niente?

 I sofisti nei dialoghi di Platone
Nel Protagora, Platone introduce Ippia di Elide che dice: “credo che voi qui presenti siate tutti della stessa razza (suggenei`~) e  della stessa famiglia (oijkeivou~) e concittadini (polivta~) per natura (fuvsei), non per legge (ouj novmw/), poiché il simile è della razza del simile per natura, mentre la legge, tiranna degli uomini, in molte cose commette violenza contro natura (oJ de; novmo~, tuvranno~ w]n tw`n ajnqrwvpwn, polla; para; th; fuvsin biavzetai, 337d)

Secondo il sofista Callicle del Gorgia di Platone oiJ ajsqenei'", i deboli, e oiJ polloiv, i più,  sono quelli che stabiliscono le leggi  (oiJ tiqevmenoi tou;~ novmou~)  per se stessi e per il proprio tornaconto (to; auJtoi`~ sumfevron, 483b).
Cercano di spaventare i più forti per difendersi dalla loro legittima volontà di emergere e di avere la meglio secondo la natura del diritto, kata; fuvsin th;n tou' dikaivou (483e) e secondo la legge della natura, kata; novmon ge to;n th'" fuvsew". Ma la legge innaturale della polis stravolge il diritto naturale dei più forti plasmandoli  (plavttonte~), prendendoli  da giovani (ejk nevwn lambavnonte~) come si fa con i leoni da domare, poi con queste leggi li assoggettiamo (katadoulouvmeqa)  incantandoli (katepav/dontev~) e stregandoli (te kai; gohteuvonte~) dicendo  loro che bisogna avere uguaglianza (to; i[son, 484a) e che questo è bello e giusto (kai; tou`tov ejstin to; kalo;n kai; to; divkaion)[29].
  Callicle  sostiene (483a-d) che legge  naturale è il predominio del più forte e che la giustizia perequativa è una falsificazione architettata  dai deboli, confederati insieme per contraffare la natura e non lasciarsi schiacciare da chi ne ha le capacità e il diritto.
Ma il  giusto è che il più forte prevalga sul più debole e l'uomo veramente dotato di forza lo dimostrerà spezzando tutti i vincoli e facendo brillare to; th'" fuvsew" divkaion, il diritto della natura.
Questa prefigurazione del superuomo farà brillare to; th'" fuvsew" divkaion, il diritto della natura dopo avere calpestato i nostri scritti (katapathvsa~ ta; hJmevtera gravmmata) e i sortilegi (kai; magganeuvmata) e gli incantesimi ( kai; ejpw/dav~) e le leggi quelle che sono tutte contro natura kai; novmou~ tou;~ para; fuvsin a{panta~ (484b).
Callicle cita alcuni versi di Pindaro che dicono
novmo~ oj pavntwn basileu;~
qnatw`n te kai; ajqanavtwn , la legge è regina di tutti mortali e immortali .
Ma questo novmo~ è il diritto del più forte, prosegue Callicle citando e integrando Pindaro, un diritto che muove giustificandola somma violenza con mano possente, come quella di Eracle che portò via i buoi di Gerione senza pagarli.
Callicle dunque dà alla parola novmo" il significato di legge naturale che giustifica la violenza, come quella di Eracle che portò via i buoi di Gerione senza averli pagati né ricevuti in dono ("ou[te priavmeno" ou[te dovnto" tou' Ghruovnou hjlavsato ta;" bou'""). Infatti è così il diritto di natura che i buoi e gli altri beni dei peggiori e dei più deboli devono appartenere a chi è migliore e più forte (484b).

Il principio di Callicle è lo stesso affermato dagli Ateniesi che vogliono sopraffare Melo nel V libro delle Storie di Tucidide
" riteniamo infatti che la divinità, secondo la nostra opinione,  e  l'umanità in modo evidente, in ogni occasione, per necessità di natura, dove è più forte, comanda".
 Questa  sarebbe un'eterna  legge di natura:
"noi  non abbiamo imposto questa legge né l'abbiamo utilizzata per primi quando vigeva, ma avendola ricevuta che c'era, e pronti a lasciarla rimanere per sempre, ce ne avvaliamo, sapendo che anche voi e altri, se vi trovaste nella stessa condizione di potenza in cui siamo noi, fareste lo stesso". (Tucidide, V, 105, 2).
Tale logica imperiale era già stata dichiarata qualche anno prima senza ipocrisie da Cleone, il più violento dei cittadini ("biaiovtato" tw'n politw'n", III, 36, 6) e quello più capace di persuadere ("piqanwvtato"") il popolo, quando, nel 427, aveva proposto di uccidere tutti i Mitilenesi ribelli. Il demagogo aveva aggiunto, sempre senza infingimenti: avete un impero l'impero che  è una tirannide ("turannivda e[cete th;n ajrchvn", III, 37, 2) la quale per reggersi deve usare la forza e bandire la compassione.
Gli Ateniesi indecisi erano stati rimproverati di estetismo molle dal loro beniamino irritato: "vi lasciate convincere dalle parole belle dei sofisti e non badate alla visione concreta dei fatti. Affascinati da questa eloquenza, sembrate cercare qualcosa di diverso dal mondo in cui viviamo (zhtou'ntev" te a[llo h] ejn oi|" zw'men, III, 38, 5); e finite con l'assomigliare a gente seduta per uno spettacolo di gara tra sofisti, anziché ad un'assemblea deliberante". La compassione dunque e l'umanità secondo tale visione sono fuori dal mondo. Sono comunque fuori dal mondo retto dalla logica e dalle armi dell'impero dominante.

Nella risoluzione finale contro i Meli (inverno 416-415) dunque furono evocati il cielo e la terra, quindi i signori della guerra fecero valere il loro diritto sugli abitanti della piccola isola, che non avevano voluto piegarsi con le buone, ammazzando i maschi adulti e rendendo schiave le donne con i bambini.
Non molti anni più tardi però (404 a. C.), quando persero la guerra quasi trentennale con gli Spartani sostenuti dal denaro persiano, gli stessi Ateniesi ricordarono questo episodio funesto, se non con rimorso, con terrore di ritorsioni.
Dopo la battaglia di Egospotami  nella quale la flotta ateniese andò distrutta quasi senza combattimento, come per una nemesi delle stragi perpetrate dagli Ateniesi su gente inerme, la nave di Stato Pàralo giunse al Pireo, di notte, e subito si diffuse la notizia della catastrofe, lungo le Mura, fino ad Atene dove  si raccontava la disgrazia, e il lamento dal porto si diffondeva ovunque, poiché un cittadino trasmetteva l'orribile novità all'altro . "Sicché-procede il racconto di Senofonte continuatore della Storia di Tucidide-quella notte nessuno dormì[30], non solo perché piangevano i morti, ma anche, molto di più, se stessi, ritenendo che avrebbero subìto i mali che avevano inflitto ai Meli che erano coloni di Sparta, dopo averli presi con un assedio, e anche agli abitanti di Istiea, di Sicione, di Torone, di Egina, e a molti altri Greci" (Elleniche II, 2, 3).

Nel terzo libro delle sue Storie,  Erodoto utilizza il primo dei versi di Pindaro  di Pindaro citati sopra (novmo~ oj pavntwn basileu;~) in senso quasi opposto a quello datogli dal personaggio di Callicle.
Il re Dario  aveva domandato a dei Greci se sarebbero stati disposti a cibarsi dei loro padri morti, ed essi risposero che non l'avrebbero fatto per niente al mondo. Quindi il re dei Persiani chiese agli Indiani chiamati Callati" oi{ tou;" goneva" katesqivousi"( III, 38, 4) che mangiano i genitori, a quale prezzo avrebbero accettato di bruciarli nel fuoco, e quelli, gridando forte, lo invitavano a non dire tali empietà.  Così, conclude Erodoto, queste usanze sono diventate tradizionali, e a me sembra che  Pindaro abbia fatto bene (ojrqw`~ poih`sai) affermando che la  consuetudine è regina di tutte le cose ("novmon pavntwn basileva fhvsa" ei\nai").

Torniamo a Callicle. Le leggi della maggioranza, continua il sofista, sono prodotte da un'accozzaglia di servi e da uomini senza valore tranne, forse, la forza fisica (Gorgia, 489c). Diritto di natura è che il migliore e più intelligente comandi e abbia più di chi è  sciocco (490a).
 I più intelligenti, lo sono negli affari di stato "eij" th'" povlew" pravgmata", e sono anche coraggiosi :"mh; movnon frovnimoi, alla; kai; ajndrei'oi", e sono pure capaci di realizzare quello che pensano:" iJkanoi; o[nte" a}  a]n nohvswsin ejpitelei'n", né si scoraggiano per debolezza d'animo ("dia; malakivan th'" yuch'""491b).
Bello e giusto per natura, sostiene il sofista, è che chi vuole vivere rettamente lasci diventare il più  possibile grandi le sue brame, e non le freni, anzi sia capace di assecondarle proprio quando sono enormi:"  [Alla; tou't j ejsti; to; kata; fuvsin kalo;n kai; divkaion..o[ti dei' to;n ojrqw'" biwsovmenon ta;" me;n ejpiqumiva" ta;" eJautou' eja'n wJ" megivsta" ei\nai kai; mh; kolavzein, tauvtai" de; wJ" megivstai" ou[sai" iJkano;n ei\nai uJphretei'n (491e-492a).
Tale teoria viene biasimata dai più siccome costoro, la maggioranza, non hanno la capacità di attuarla:" jAlla; tou't j, oi\mai, toi'" polloi'" ouj dunatovn: o{qen yevgousi tou;" toiouvtou" di j aijscuvnhn, ajpokruptovmenoi th;n auJtw'n ajdunamivan" (492a), ma questo, penso, non è possibile per i più: perciò biasimano gli uomini siffatti, per vergogna, cercando di nascondere la propria impotenza, e, non potendo procurare soddisfazione ai loro desideri, elogiano la temperanza e la giustizia per la loro debolezza:" ejpainou'si th;n swfrosuvnhn kai; th;n dikaiosuvnhn dia; th;n aujtw'n ajnandrivan"492b.
I potenti non hanno bisogno di temperanza e giustizia. Essi non hanno un padrone nella legge, nei discorsi e nei biasimi della maggioranza.
 Invero la felicità, eujdaimoniva, è data da lusso, intemperanza e libertà:"trufh; kai; ajkolasiva kai; ejleuqeriva", se uno può permettersele; il resto sono imposture, convenzioni di uomini contro natura, buffonate che non valgono nulla:"ta; para; fuvsin sunqhvmata ajnqrwvpwn, fluariva kai; oujdeno;" a[xia"492c.
Socrate riconosce che Callicle ha parlato con franchezza (parrhsiazovmeno~) e non senza nobiltà ("oujk ajgennw'"", 492d): infatti ha detto ciò che altri pensano ma non osano dire.

Il maestro di Platone però si colloca sul versante opposto: quello della virtù con la morale e la temperanza sostenendo che chi vuole essere felice  deve cercare la moderazione ("swfrosuvnhn") e fuggire la sregolatezza ("ajkolasivan", 507)  a gambe levate. Insomma bisogna acquisire giustizia e temperanza ("dikaiosuvnh...kai; swfrosuvnh"), virtù che costituiscono l'ordine e la salute dell'anima, mentre l'ingiustizia è la malattia più grave, tanto che se subirla è un male,   il male peggiore è infliggerla:"mei'zon mevn famen kako;n to; ajdikei'n, e[latton de; to; ajdikei'sqai"(509c).

Nel X libro delle Leggi [31] di Platone, l’Ateniese afferma che “la legge della giustizia cosmica è una legge di gravitazione spirituale; in questa vita e nella serie completa di vite, ogni anima gravita naturalmente verso la compagnia dei propri simili e in ciò sta il suo premio o il suo castigo…E  Platone aggiunge un altro avvertimento…se qualcuno chiede alla vita una felicità personale, ricordi che il cosmo non esiste per lui, ma lui per il cosmo[32].

 Vediamo ora un altro luogo platonico che tratta il problema. Nel primo libro della Repubblica  il sofista Trasimaco è un altro rappresentante della filosofia di potenza. Egli raggomitolatosi come una fiera si dirige contro Socrate come se volesse sbranarlo (336b). Quindi afferma che il giusto non è altro che l'utile di chi è superiore:"to; divkaion oujk a[llo ti hj; to; tou' kreivttono"  sumfevron"(338c).
 Socrate obietta che il capo deve cercare il bene dei subordinati.
  Trasimaco ribatte che l'ingiustizia è biasimata da chi teme di subirla. Ma chi riesce a sottomettere gli altri si prende l'appellativo di fortunato e felice (344b). L'ingiustizia realizzata ha più forza, indipendenza e potere della giustizia.
 Socrate ribadisce che un capo vero e genuino non cerca il proprio utile bensì quello dei governati, e aggiunge che  l'ingiustizia genera odiosità dovunque si insedi (351d), paralizza l'azione a causa di tumulti e discordie, poi rende ciascuno agitato, conflittuale con se stesso e nemico dei giusti (352a). Gli ingiusti in definitiva sono anche completamente incapaci di agire:"televw" a[dikoi televw" eijsi; kai; pravttein ajduvnatoi"(352b).

Cfr. Leopardi, Zibaldone, 1641: “Ma la morale non è altro che convenienza”.
Tradotto in termini erotici: l’amore non è altro che l'utile di chi è più forte.
Si può chiamare in causa e inserire in questa categoria della gente guidata dall’utile, pure in campo erotico, anche la Poppea Sabina di Tacito: unde utilitas ostenderetur, illuc libidinem transferebat (Annales, XIII, 45), dove si presentasse l'utile, là volgeva la libidine.
Qui si può ricorrere a Pasolini:"L'interpretazione puramente pragmatica (senza Carità) delle azione umane deriva dunque in conclusione da questa assenza di cultura: o perlomeno da questa cultura puramente formale e pratica"[33].

Il culto del sumfevron (utile) che precede il kalovn (bello e bello morale) contraddistingue anche la nostra epoca.
 Lo afferma Hillman nel suo ultimo lavoro:"La civiltà odierna è tenuta insieme non dall'idea di bellezza, di verità, di giustizia o di destino, non da una forza basata sulle armi come la pax romana, non da leggi, divinità, o dalle fedi condivise. Soltanto le idee del business sono realmente universali. Se le idee del business, come il commercio, la proprietà, il prodotto, lo scambio, il valore, il profitto, il danaro, sono quelle che, in modo cosciente o inconscio, governano la vita umana del pianeta, allora sono queste le idee che concorrono a dare al business il suo potere, stabilendo il suo impero mondiale al di là di ogni confine geografico e di ogni barriera di costume"[34].

Nel secondo libro della Repubblica  prende la parola Glaucone, fratello di Platone.
Egli sostiene che nell'uomo è innata la prepotenza.
 Dicono infatti che fare ingiustizia sia per natura un bene,  subirla un male:  la giustizia dunque è amata per l'impotenza di fare ingiustizia (359b).  Gige, l'antenato di Creso, appena ne ebbe la possibilità, grazie all'anello che lo rendeva invisibile, sedusse la moglie del re e lo uccise.
Nessuno allora è giusto di sua volontà ma per forza:" oujdei;" eJkw;n divkaio" ajll j ajnagkazovmeno""(360d). Glaucone sostiene che se la passa meglio chi sembra giusto senza esserlo rispetto all'uomo semplice e nobile che lo è davvero, come Anfiarao  di cui Eschilo dice che non vuole sembrare buono ma esserlo "ouj ga;r dokei'n a[risto", ajll j ei\nai qevlei", I sette a Tebe , v. 592).

Poi prende la parola Adimanto, un altro fratello di Platone. Egli afferma che i poeti seppelliscono gli iniqui nel fango dell'Ade (363d), ma sulla terra se la passano meglio gli ingiusti. Del resto gli stessi poeti affermano che la virtù è difficile e faticosa. Viene citato Esiodo:"th'" d  j ajreth'" iJdrw'ta qeoi; propavroiqen e[qhkan"(Opere , v. 289), gli dèi hanno messo il sudore davanti alla virtù". Mentre Omero chiama gli dèi "esorabili", listoiv, ossia disponibili a perdonare i peccati, Iliade , IX, 497.
 In definitiva, come scrive Simonide, l'apparire violenta anche la verità:" to; dokei'n...kai; ta;n ajlavqeian bia'tai" ( Repubblica, 365c)[35].

 Allora io, aggiunge Adimanto, devo tracciarmi intorno skiagrafivan ajreth'" un effetto ottico di virtù, e tirarmi dietro la volpe furba e versatile del sapientissimo Archiloco. I giovani non sono stati abituati a pensare che la giustizia è il massimo bene "dikaiosuvnh mevgiston ajgaqovn"(367a), altrimenti ciascuno sarebbe il miglior custode di se stesso, temendo, con il commettere ingiustizia di incorrere nel peggiore dei mali. Nessuno mai ha biasimato l'ingiustizia né ha lodato la giustizia, ma la reputazione e i beni che ne derivano (366e). Insomma Adimanto chiede a Socrate di dimostrargli non che la giustizia è socialmente utile ma che è un bene di per sé.


La musica  contribuisce all’educazione.
 Platone[36]  critica gli agoni drammatici frequentati troppo spesso, e male, da un pubblico becero,  trascinato dalla musica caotica diffusa da poeti ignoranti, maestri di disordinate trasgressioni[37], i quali mescolavano peani con ditirambi, confondendo, appunto, tutto con tutto (pavnta eij~ pavnta sunavgonte~, Leggi, 700d); di conseguenza le càvee dei teatri  divennero, da silenziose, vocianti, e al posto dell’aristocrazia del gusto subentrò una  sfacciata  teatrocrazia per quanto riguarda quest’arte (701). Come se fossero stati tutti sapienti, diventarono impavidi e l'audacia generò l'impudenza (701b).
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Licurgo, Il futuro legislatore spartano si recò all’estero. Prima a Creta e ne studiò le leggi. Di lì mandò a Sparta il poeta Taleta i cui canti invitavano all’obbedienza e alla concordia attraverso suoni e ritmi pieni di armonia e potere tranquillizzante (Plutarco, Vita, 4, 2).
Chi li ascoltava si abituava all’amore e alla virtù. Così Taleta aprì la strada all’educazione degli Spartani.
Da Creta Licurgo partì per l’Asia. Nella Ionia conobbe i poemi di Omero dove notò passi di valore civico e educativo. Dunque li trascrisse e li portò a Sparta. Prima Omero era poco conosciuto tra i Greci e solo a pezzi: Licurgo fu il primo che ne rese nota l’opera (Vita, 4, 6).  Poi lo statista si recò in Egitto dove rimase colpito dalla separazione della casta dei guerrieri, una distinzione (diavkrisi~) che introdusse a Sparta, dove avendo separato i braccianti e gli artigiani rese il regime davvero civile e puro (4, 7)[38].
Gli Spartani a un certo punto lo richiamarono poiché i loro re erano inetti, mentre Licurgo aveva una fuvsin hJgemonikhvn (5, 1), l’attitudine al comando e una capacità di trascinare gli uomini.
Licurgo tornò con la volontà di risanare lo stato.
Con questo proposito si recò a Delfi, dove sacrificò e consultò l’oracolo: “
 prw'ton me;n ajpedhvmhsen eij" Delfouv": kai; tw'/ qew'/ quvsa" kai; crhsavmeno", ejpanh'lqe to;n diabovhton ejkei'non crhsmo;n komivzwn, w|/ qeofilh' me;n aujto;n hJ Puqiva prosei'pe kai; qeo;n ma'llon h] a[nqrwpon, eujnomiva" de; crh/vzonti didovnai kai; katainei'n e[fh to;n qeo;n h{ polu; krativsth tw'n a[llwn e[stai politeiw'n" (Plutarco,Vita di Licurgo , 5, 4), in primo luogo si recò a Delfi, e, dopo avere sacrificato al dio e avere consultato l'oracolo, tornò portando quel famoso responso, con il quale la Pizia lo chiamò caro agli dei e dio più che uomo, e a lui che chiedeva una buona legislazione disse che il dio gliela dava e prometteva che la sua sarebbe stata di gran lunga  la migliore tra tutte le costituzioni.  Licurgo fece risalire al dio Pitico (eij~ to; Puvqion ajnh`ye, 6, 3) il principio e l’origine della sua costituzione. Anche il poeta Tirteo ricorda che la costituzione spartana veniva da Febo pitico.
 Più avanti Plutarco scrive che Licurgo non fissè leggi scritte:"novmou" de; gegrammevnou" oJ Lukou'rgo" oujk e[qhken"( 13, 1), anzi una delle cosiddette retre proibisce di darne.

Nella Vita di Solone dello stesso Plutarco troviamo una derisione delle leggi scritte da parte di Anacarsi che fu ospite e amico del legislatore Ateniese. Lo Scita dunque derideva l’opera di Solone che pensava di frenare l’iniquità dei cittadini con parole scritte le quali, diceva, non differiscono affatto dalle ragnatele (mhde;n tw`n ajracnivwn diafevrein, 5, 4), ma come quelle trattengono le prede deboli e piccole, mentre saranno spezzate dai potenti e dai ricchi (uJpo; de; dunatw`n kai; plousivwn diarraghvsesqai).
Le cose poi andarono secondo le previsioni di Anacarsi il quale disse anche, dopo avere assistito all’assemblea degli Ateniesi, di essere stupito del fatto che presso i Greci parlassero i sapienti ma decidessero gli ignoranti (o{ti levgousi me;n oiJ sofoi; par j    { Ellhsi, krivnousi d j oiJ ajmaqei`~ (5, 6). 
Le leggi dunque colpiscono solo i deboli
Nietzsche: “Le leggi contro i ladri e gli assassini sono fatte a favore delle persone colte e ricche[39].
Nella storia romana  "la maggiore singolarità" è data dal fatto che i primi legislatori "e soprattutto il loro capo Appio Claudio siano stati deposti per la loro indegna tirannide" mentre diversi altri "veri o mitici legislatori, Licurgo, Solone, Zaleuco, Mosé, sono dalla tradizione circonfusi da un'aureola di luce che li rende santi e venerabili". Il fatto è che Appio Claudio e i decemviri legibus scribundis nel 451/450 agirono in favore della plebe:" Di contro alla prepotenza patrizia, ordinatasi nel sec. V la plebe a Stato entro lo Stato, due furono le concessioni che prima cercò di ottenere: leggi eguali per tutti, e una parte per tutti i cittadini nel governo della repubblica. A soddisfare l'una e l'altra richiesta si accinsero i decemviri". Di qui la reazione dei patrizi:"Come dalla decadenza della monarchia, così dalla caduta del decemvirato trassero sul momento vantaggio i soli patrizi. E dell'una e dell'altra spetta quindi ai patrizi la responsabilità"[40].

Tucidide II, 37, 3. Parla Pericle nel lovgo~ ejpitavfio~
Mentre trattiamo le faccende private senza recare offese, nella sfera pubblica non trasgrediamo le leggi soprattutto per paura, in obbedienza ai magistrati che sono via via al governo e delle leggi, e innanzi tutto di quelle che sono poste a tutela di chi subisce ingiustizia e quante, pur non essendo scritte, portano un disonore sul quale tutti concordano-
-dia; devoς: sembra in contraddizione con quanto dirà tra poco sulle leggi non scritte, ma il timore è considerato cosa santa già nelle Eumenidi di Eschilo dove entrambe le parti contendenti affermano la necessità di mantenere vivo to; deinovn per il bene della povli" : nel secondo Stasimo, il coro delle Erinni canta:" a volte  è bene il terrore (" e[sq  j  o{pou to; deino;n eu\")/ e quale ispettore delle  anime (frenw'n ejpivskopon)/ deve restarvi a fare la guardia"(vv. 517-519).
E subito dopo, ancora le Erinni:" mht j a[narkton bivon-mhvte despotouvmenon-aijnevsh/" : panti; mesw/ to; kravto" qeo;"-w[pasen "(526-530), non lodare una vita di anarchia né una soggetta al dispotismo: in ogni caso il dio dà potenza al giusto mezzo.
Più avanti la stessa Atena consiglia ai cittadini che hanno cura della città di rispettare uno stato senza anarchia né dispotismo ("to; mhvt j a[narcon mhvte despotouvmenon", v. 696) e di non scacciare del tutto la paura dalla città: infatti quale mortale è giusto se non ha nessuna paura? ("kai; mh; to; deino;n pa'n povlew" balei'n-tiv" ga;r dedoikw;" mhde;n e[ndiko" brotw'n; " vv. 698-699).
  
 Non   erano scritte nemmeno  le antiche usanze  ateniesi invocate da Adrasto supplice davanti a Teseo per ottenere  un aiuto  contro i Tebani che non volevano restituire i cadaveri dei caduti. Il comandante argivo pregava di non permettere che tali uomini restassero insepolti né venissero aboliti quegli antichi costumi e quelle leggi patrie  di  cui tutti gli uomini continuano ad avvalersi in quanto non sono stabilite dalla natura umana bensì imposti dalla potenza divina:" ejdei'to mh; periidei'n toiouvtou" a[ndra" ajtavfou" genomevnou" mhde; palaio;n e[qo" kai; pavtrion novmon kataluovmenon, w|/ pavnte" a[nqrwpoi crwvmenoi diatelou'sin oujc wJ" uJp j ajnqrwpivnh" keimevnw/ fuvsew", ajll j wJ" uJpo; daimoniva" prostetagmevnw/ dunavmew"" ( Isocrate, Panatenaico[41], 169).

Nell’Areopagitico del 356, Isocrate scrive che le buone leggi non bastano se nella polis non ci sono buoni costumi. Il progresso della virtù non nasce dalle leggi ma dalle abitudini giornaliere:" ejk tw'n kaq j  eJkavsthn th;n hJmevran ejpithdeumavtwn" (40).
Infatti le città si governano bene non con le leggi ma con la bontà dei costumi  e coloro che sono stati educati male oseranno trasgredire le leggi redatte con grande precisione, mentre quelli che hanno avuto una buona educazione, vorranno rispettare anche le leggi formulate con semplicità (41)
A Sparta la condotta dei cittadini era buona e assai modesto il numero delle leggi scritte.

Anche Platone pensava che una buona educazione non ha bisogno della costrizione delle leggi (Repubblica, 426e-427a). La parte maggiore e più bella della materia legislativa deve essere lasciata ad Apollo delfico che interpreta i doveri sacri e profani epi; tou` ojmfalou` kaqhvmeno~ (427e), seduto sull’ombelico del mondo

Sallustio nel Bellum Catilinae , rimpiange i boni mores  dell'antica Repubblica, quando cives cum civibus de virtute certabant , i cittadini gareggiavano per il valore con i cittadini, e  ricorda che:"ius bonumque apud eos non legibus magis quam naturā valebat " (9), il diritto e l'onestà da loro aveva forza non più per le leggi che per natura.

Augusto aveva cercato di reprimere l’adulterio già dilagante e “di moda” , con diverse leggi. La  volontà augustèa di incoraggiare il matrimonio  venne codificata, invano, dalla lex Iulia de adulteriis coercendis, dalla lex Iulia de maritandis ordinibus ( entrambe del 18 a. C.) e  dalla lex Papia Poppaea (  del 9 d. C. ).
 In conclusione “Corruptissima re publica plurimae leges" (Tacito, Annales, III, 27), quanto più è corrotto uno Stato, tanto più numerose sono le leggi.
“E si può fare questa conclusione: che dove la materia non è corrotta, i tumulti ed altri scandoli non nuocono; dove la è corrotta, le leggi bene ordinate non giovano”[42].
Concludo con don Lorenzo Milani, il quale, al contrario di Callicle,  sostiene che le leggi degli uomini sono giuste"quando sono la forza del debole." Quando invece esse "sanzionano il sopruso del forte", è bene "battersi perché siano cambiate"[43].

Giovanni Ghiselli  g.ghiselli@tin.it



[1]E. Fromm, La disobbedienza e altri saggi , p. 63.
[2]W. Nestle, Storia della religiosità greca , p. 218.
[3]Nestle, op. cit., p. 219.
[4] Il tempo ritrovato, p. 190.
[5] V. Ehrenberg, Sophocles and Pericles (1954), 141 ff.
[6]B. M. W. knox, Oedipus at Thebes (1957), ch. ii
[7] Dodds, On Misunderstanding the Oedipus rex in The Ancient Concept Of Progress, p. 75.
[8]G. Ugolini, Sofocle e Atene , pp. 150-151.
[9]II, 35-46.
[10]“Anche in Eur. Hec  866 sgg. c'è un nesso tra scrittura delle leggi (novmwn grafaiv) e potere del popolo (plh'qo")”.
In questo contesto tuttavia il plh`qo~ povlew~ e grafai; novmwn possono costituire un impedimento alla libertà e al vivere secondo le proprie inclinazioni (v. 867. Possiamo trovare note addirittura ottimistiche nelle Supplici, rappresentate nel 422, quando si profilava la pur malsicura pace di Nicia. Un ottimismo assente dall’Ecuba del 424.) ndr
[11]G. Ugolini, Sofocle e Atene , pp. 150-151.
[12] “Lo stesso argomento si individua in un passo di una quarantina di versi del dramma satiresco Sisifo di Crizia (il principale esponente della rivoluzione oligarchica che alla fine della guerra del Peloponneso rovesciò la democrazia per instaurare il cosiddetto governo dei Trenta): in esso si suppone che un antico saggio, per favorire lo sviluppo della società organizzata, avesse escogitato l’esistenza degli dei onniscienti, ai quali non sfuggono neppure gli atti che rimangono nascosti alla giustizia terrena”
Canfora scrive che “è ragionevole pensare” che il dramma satiresco Sisifo di Euripide, rappresentato nel 415 ad Atene con le Alessandro, Palamede,  Troiane, sia “il medesimo che una parte della tradizione antica conosceva come di Crizia” (“”Dioniso” 2011 I numero, nuova serie, p. 75.
[13] …alla spedizione ateniese in Sicilia fanno pensare le insistite allusioni all’ambientazione del dramma nell’isola.
[14] Orietta Pozzoli, traduzione e note di, Eschilo Sofocle Euripide, Drammi Satireschi, pp 124-125.
[15] Torna l’insaziabilità di 354c.
[16]Canfora, Lo Spazio Letterario Della Grecia Antica , Volume I, Tomo II, p. 835.
[17] Rappresentata postuma nel 405 o nel 403.
[18]Canfora, op. cit., p. 342. 
[19] G. Glotz, La città greca, p. 124.
[20] Gli aveva detto swvqhti (44b) salvati. Critone dice che per lui la morte di Socrate sarà ouj miva sumforav, non una sola disgrazia. Oltre il dolore ci sarà il biasimo della gente. Ma Socrate ribatte che l’opinione dei più non deve preoccuparlo, poiché oiJ polloiv non sono capaci di fare né il male né il bene ma agiscono a casaccio (poiou`si de; tou`to o[ti a}n tuvcwsi (44d). Critone risponde che farlo evadere è un rischio ma lui e gli altri amici ritengono giusto rischiare.
In Critone dunque ci sono due componenti: una eroica e una volgare.
[21] T. Mann, Nobiltà dello spirito, p. 824.. Ovviamente “ il suo” di Nietzsche.

[22] B. Snell, Eschilo e l'azione drammatica, p. 121.
[23] Fenomenologia dello spirito (del  1807) . Capitolo 4 (A)
[24] U. Galimberti, L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani, p. 21. Si veda a questo proposito U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano, 1999.
[25] Quelli tra gli uomini e gli dèi.
[26] Attivo nella seconda metà del V secolo. Dal 407 al 367 fu a Siracusa dove frequentò Dioniso e scrisse tragedie con lui. Non va confuso con Antifonte oratore di parte oligarchica, condannato a morte nel 411 dopo la restaurazione democratica. Ma alcuni studiosi ritengono che si tratti della stessa persona e che l’oratore oligarchico abbia manifestato la sua ostilità alla democrazia ateniese parzialmente o falsamente egualitaria con un egualitarismo radicale. In politica non poche volte le parti estreme si toccano.
[27] Lucrezio considera coniunctum al corpo quanto non può essere separato, pondus uti saxis, come il peso per i sassi, mentre    eventum è quello che non ne cambia la sostanza: “ servitium contra, paupertas divitiaeque,/libertas bellum concordia…haec soliti sumus, ut par est, eventa vocare” (De rerum natura, I, 451 sg.), al contrario la schiavitù, la povertà, la ricchezza, la libertà, la guerra la concordia, questi fatti siamo soliti, come è giusto, chiamare accidenti.
[28]  44 D. K. Fr. B Oxyrh. Pap. XI Fragmetum I
[29] Cfr. Le Fenicie di Euripide citate sopra :"kei'no kavllion, tevknon,-ijsovthta tima'n" (vv. 535-536). Tra gli “incantatori e gli stregoni” Platone infatti mette anche i poeti tragici.
[30] E' collegabile a  "Macbeth  ha ucciso il sonno" di Shakespeare (Macbeth , II, 2).
[31] 904C-905D
[32] Dodds, I Greci e l’irrazionale, p. 271.
[33] P.P. Pasolini, Scritti corsari, p. 49.
[34] J. Hillman, Il potere, p. 17.
[35] Nell’Oreste di Euripide il protagonista riconosce che l’apparenza prevale anche se è lontana dalla verità: “krei`sson de; to; dokei`n, ka]n ajlhqeiva~ ajph`/”(v. 236).
[36] 427-347 a. C.
[37] Penso ai vari cantautori moderni alcolizzati o drogati.
[38] La supremazia dei guerrieri secondo Nietzsche ha provocato nella storia il risentimento dei preti. Cfr. nell’Andromaca l’uccisione del ragazzo di Achille da parte della pretaglia deifica.
I preti ce l’hanno anche con i filosofi: gli intellettuali.
[39] Frammenti postumi, 1876, 14
[40] G. De Sanctis, Storia dei Romani, vol. II, pp. 46-48.
[41] Del 339.
[42] Machiavelli, discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, 17.
[43]L'obbedienza non è più una virtù , p.38