Le leggi scritte e quelle naturali. - 18 marzo 2013
Nell’ Antigone
, la protagonista figliola di Edipo si rifiuta di obbedire a Creonte, suo
re e zio, che ha decretato con un bando
il divieto di seppellire Polinice, il figlio di Edipo morto combattendo contro
la patria. Dopo che la ragazza ha compiuto il gesto di ribellione, il despota
le domanda
“Kai; dh`t j ejtovlmaς touvsd j uJperbaivnein
novmouς;” e allora osavi trasgredire queste leggi?" v. 449.
E Antigone risponde: “"Sì, infatti secondo me non è
stato per niente Zeus il banditore di questo editto/né Giustizia che convive
con gli dei di sotterra/determinò tali leggi tra gli uomini,/né pensavo che i
tuoi bandi avessero tanta/forza che tu, essendo mortale, potessi oltrepassare/i
diritti degli dei, non scritti e non vacillanti (a[grapta kajsfalh`
qew`n
novmima.)/Infatti non solo oggi né ieri, ma sempre/ sono vivi
questi, e nessuno sa da quando apparvero (vv. 450-457)".
I versi
455-457 sono citati da Aristotele,
quando nella Retorica distingue la legge particolare di ciascun popolo da
quella comune secondo natura levgw…koino;n de; to;n kata; fuvsin (1373b). Tra queste c’è
l’abitudine e la norma di seppellire i morti, poi quanto dice Empedocle
a proposito di non uccidere i viventi (peri; tou` mh; kteivnein to; e[myucon), e quanto scrive Alcidamante
nel Messeniaco:” ejleuqevrou~ ajfh`ke pavnta~
qeov~, oujdevna dou`lon hJ fuvsi~ pepoivhken”, dio ci lasciò tutti liberi, la natura nessuno fece
schiavo.
All'opposto dell’
u{bri~ tirannica, Antigone afferma il suo amore per l'umanità
:" ou[toi sunevcqein
ajlla; sumfilei'n e[fun", (v. 523), certamente non sono nata per condividere l'odio, ma l'amore.
"Esiste un umanesimo greco, al quale dobbiamo opere come l'
Antigone
di Sofocle, una delle più alte tragedie ispirate a quest'atteggiamento;
in essa, Antigone rappresenta l'umanesimo e Creonte le leggi disumane che sono
opera dell'uomo"
.
Le leggi che contano per Sofocle
sono quelle provenienti dagli dèi. Lo stesso pensa il coro dell'Edipo re che nella prima strofe del secondo Stasimo,
"punto nodale della tragedia", canta:"Oh, mi accompagni
sempre la sorte di portare/ la sacra purezza delle parole/e delle opere tutte,
davanti alle quali sono stabilite leggi/sublimi, procreate/attraverso l'aria
celeste di cui Olimpo è padre da solo né le /generava natura mortale di
uomini/né mai dimenticanza/potrà addormentarle:/grande c'è un dio in loro e non
invecchia" (vv. 863-872).
"Da
questi versi risuona chiaro ad ognuno l'addolorato avvertimento del
poeta:"la religione è in pericolo", la religione che per lui coincide
con le leggi non scritte, eterne e divine che rappresentano il fondamento
morale della vita sociale. Con tutta la forza della sua convinzione egli scende in campo per essa nel luogo
sacro, per umiliare con la
rappresentazione della storia sacra la
superbia dell'intelletto, per fugare il dubbio e per sostenere la fede vacillante".
Edipo con il suo
impareggiabile vigore, la sua fede nell'azione, la volontà di rischiare pur di
sapere, sarebbe un microcosmo della popolazione ateniese
che in
effetti, dovrà provare pure l'onta della sconfitta, al pari del re di Tebe il
quale, insuperbitosi per la propria forza intellettuale, subisce un'umiliazione
rimasta paradigmatica nella letteratura europea, come ci mostrano queste parole
di Proust:" E meglio di un coro di Sofocle sull'umiliato
orgoglio di Edipo, meglio della morte stessa e di qualsiasi orazione
funebre, il saluto premuroso e umile del barone alla signora di Saint-Euverte
proclamava quanto di fragile e perituro c'è nell'amore d'ogni terrena grandezza
e d'ogni umana superbia"
.
tiv dei' me coreuvein vv.895-896."è
detto assai più che dal Coro, da Sofocle", secondo Perrotta."Qui non
parla più il Coro, ma il poeta che si lamenta dell'empietà del suo popolo"
(Sofocle, p.239).
La punizione divina non può mancare poiché, se
gli dei non intervenissero a colpire gli empi, le stesse tragedie di Sofocle,
sacre rappresentazioni di condanna dell'ateismo, perderebbero credibilità e
valore. Un frammento (12) del sofocleo Aiace
locrese afferma che l'occhio aureo
della giustizia vede e contraccambia l'ingiusto:"to; cruvseon de; ta'"
Divka" devdorken o[mma to;n d& a[dikon ajmeivbetai".
Su questa domanda
chiave sentiamo anche Dodds:“the meaning
is surely ‘Why should I, an Athenian citizen, continue to serve in a Chorus? (il
significato è certamente ‘Perché dovrei io, un cittadino ateniese, continuare a
servire nel coro? )
In speaking of themselves as a chorus they step out of
the play into the contemporary world, as
Aristophanes’ choruses do in the parabasis.
And in effect the question they are asking seems to be this: ‘ If Athens loses
faith in religion, if the views of the Enlightement prevail, what significance is there in tragic drama,
which exists as part of the service of the gods? To that question the rapid
decay of tragedy in the fourth century may be said to have provided an answer. In
sayng this, I am not suggesting with
Ehrenberg that the position of Oedipus reflects that of Pericles, or with Knox that is intended to
be a symbol of Athens:
allegory of that sort seems to me wholly alien to Greek tragedy. I am only
claiming that at one point in this play Sophocles took occasion to say to his
fellow citizens something which he felt to be important. And it was important, particularly in the
period of the Archidamian War, to which
the Oedipus rex probably belongs. Delphi
was known to be pro-Spartan: that is why Euripides was given a free hand to
criticize Apollo.
But if
Delphi could not be trusted, the whole fabric of traditional belief was
threatened with collapse”,
Sofocle si
inserisce nel dibattito acceso dalla sofistica: esso contrapponeva le leggi
naturali a quelle artificiali o culturali. Delle une e delle altre vengono date
interpretazioni differenti.
Il poeta
di Colono non considera naturali e degne di obbedienza le regole che lasciano
correre o addirittura convalidano l' u{bri", intesa come prepotenza, sia essa di un tiranno, suo parto
mostruoso ( u{bri"
futeuvei tuvrannon, Edipo re , v.873), sia di un popolo
intero che per avidità di maggior avere (pleonexiva) scatena guerre aggressive foriere di stragi e lutti, tanto
per gli aggrediti quanto per gli aggressori.
Difesa delle leggi scritte.
Euripide Supplici e Ciclope. Cicerone De officiis
G. Ugolini sostiene che le leggi scritte sono
anteposte a quelle non scritte dai sostenitori della democrazia e fa l'esempio
delle Supplici di Euripide
dove "Teseo si produce in un'esaltazione del sistema
democratico...replicando alle accuse dell'araldo, puntualizza un aspetto della
democrazia che in questa sede ha grande rilevanza: mentre nella città governata
da un tiranno la legge è del tutto arbitraria, in un regime democratico (Eur. Suppl.
433-437): le leggi sono scritte (gegrammevnwn tw'n novmwn), la giustizia è uguale per il debole e per il
ricco”...
“gegrammevnwn de; tw'n novmwn o{
t ’ ajsqenh;~-oJ plouvsiov~ te th;n divkhn i[shn ecei ” (vv. 433-434), quando ci sono le
leggi scritte il debole e il ricco hanno gli stessi diritti
“Chi è più
debole può fronteggiare chi sta meglio, qualora ne riceva offesa, e se ha
ragione il piccolo prevale sul grande. Al di là dei topoi democratici ricorrenti nel discorso di
Teseo, che per molti aspetti hanno
richiamato il parallelo con l'epitafio di Tucidide, è importante soffermarsi sul nesso che egli istituisce tra
"leggi scritte" e democrazia: la pratica effettiva della
giustizia e dell'uguaglianza tra i cittadini, indipendentemente dai loro
rapporti di censo e di forza, è garantita dalla scrittura delle leggi, che
tutela i diritti dei meno potenti.
La necessità e la difesa della scrittura delle leggi doveva essere
percepita come un punto essenziale della propaganda democratica nell'ambito di
quella tensione e contrapposizione che
vi era ad Atene tra la legislazione scritta della polis e quella orale
propugnata e gestita dalle casate aristocratiche".
Della vasta produzione
euripidea ci sono arrivate 18 drammi di
sicura attribuzione, tra i quali
uno
satiresco, il Ciclope , di cronologia incerta, ma
probabilmente posteriore al 410. L’autore porta sulla scena il noto episodio
omerico del IX canto dell’
Odissea. “
Attraverso Polifemo, Euripide critica
apertamente l’estremismo degli intellettuali del suo tempo, che
consideravano
lo “stato di natura” un
modello al quale ritornare ed esaltavano il ruolo dell’uomo come misura di
tutte le cose, proclamando l’individualismo sfrenato, la supremazia assoluta
del diritto del più forte, l’agnosticismo religioso.
Il valore di questa polemica risulta ancora più chiaro se si accetta di
attribuire il
Ciclope agli ultimi
anni della vita del poeta, dopo la fallimentare spedizione militare degli
ateniesi in Sicilia
,
in un momento delicato per il destino della democrazia ateniese”
.
Polifemo, dopo che si è
ingozzato dei compagni di Odisseo e
intende mangiare anche lui, fa una predica all’”ometto” dicendo che la
ricchezza è l’unico dio per le persone sagge (oJ plou`to~, ajnqrwpivske, toi~ sofoi`~ qeov~, v.316). Più avanti, coerentemente con questa visione
crassamente materialistica, il Ciclope aggiunge che sacrifica le greggi a se
stesso kai; th`/
megivsth/ gastri; th`/de, daimovnwn (v.
335), e a questa pancia, la più grande tra le dèe. Zeus per i saggi è mangiare e bere tutti i
giorni e non prendersela per niente (lupei`n de; mhdevn,
v. 338).
Devono invece piangere i legislatori che con le leggi
hanno complicato la vita umana: “oi{ de; tou;~
novmou~ e[qento poikivllonte~ ajnqrwvpwn bivon” (v. 338-339).
Cicerone bel De officiis ricorda che la causa della creazione delle leggi fu un bisogno di
giustizia e di uguaglianza: “leges sunt
inventae, quae cum omnibus semper unā atque eādem voce loquerentur” (II, 42), furono trovate le leggi
perché parlassero a tutti con una sola e identica voce.
Vediamo adesso alcune testimonianze
di autori che, come Sofocle, criticano le leggi scritte.
Platone nella Lettera VIII sostiene che mentre la servitù e la libertà
smodate sono un gran male (pavgkakon),
quelle moderate sono un gran bene, e moderata è la servitù a Dio, smodata agli
uomini ("metriva
de; hJ qew'/ douleiva, a[metro" de; hJ toi'" ajnqrwvpoi"", 354e).
Dunque dio per gli uomini saggi è
legge, per gli stolti il piacere (" qeo;" de;
ajnqrwvpoi" swvfrosin novmo", a[frosin de; hJdonhv", 355a ).
Platone
consiglia ai familiari e amici di Dione un accordo e la divisione del potere in
tre re (Ipparino, figlio di Dioniso
I e di Aristomache, Dioniso II,
figlio di Dioniso I ( fu tiranno dal 405-367) e di Doride, e Dione II, il figlio di Dione (410-354)
che era cognato e genero di Dioniso I poiché era fratello di Aristomache e aveva sposato Arete, figlia di Dioniso I e
Aristomache.
Il modello, secondo Platone, può essere
la costituzione di Licurgo il quale come favrmakon contro la tirannide introdusse tre poteri: i re,
il
consiglio degli anziani
e il freno
degli efori-kai; to;n tw`n ejfovrwn desmovn, 354b.
Non viene
nominata l’apella, l’assemblea popolare che del resto non aveva facoltà di
iniziativa.
La legge
deve essere signora degli uomini e non gli uomini tiranni della legge. Bisogna
fuggire a gambe levate (feuvgein
fugh`/) la
tirannide, ajplhvstw~ peinwvntwn
eujdaimovnisma ajnqrwvpwn kai; ajnohvtwn (354c), presunta felicità di uomini insaziabilmente
affamati e stupidi.
La
tirannide è dunque universalmente biasimata
Condanna della libertà sfrenata. Né dispotismo
né anarchia
Bisogna scappare
dalla tirannide e pure guardarsi eujlabei`sqai dal desiderio insaziabile di una libertà inopportuna (ajplhstiva/
ejleuqeriva~ ajkaivrou, 354d).
La libertà
sfrenata porta le sciagure subite dai Siracusani prima della tirannide di
Dioniso I.
Essi praticando un amore smisurato di libertà
(ajmevtrw/
ejleuqeriva~ crwvmenoi e[rwti ) caddero nelle sciagure dell’anarchia. Vivevano licenziosamente (trufw`nte~) addirittura comandando sui loro
comandanti (te kai; a{ma ajrconte~ ajrcovntwn), fino al punto che lapidarono (katevleusan) i dieci strateghi che governarono
prima di Dioniso kata; novmon oujdevna, senza processo, per non sottostare ad alcuno,
neppure secondo giustizia e secondo la legge, ma poi caddero sotto i tiranni.
Questo avviene quando la massa
ritiene suo diritto fare quello che vuole, anche contro la legge.
Una storia
che avvenne poco dopo anche ad Atene.
dopo la battaglia delle Arginuse ( tarda estate del 406 a. C.), il popolo ateniese, nel quale era stato inoculato l'odio per gli strateghi e il desiderio
dei capri espiatori, gridava che era
grave se qualcuno non permetteva al popolo di fare quanto voleva ("to; de; plh'qo" ejbova
deino;n ei\nai, eij mhv ti"
ejavsei to;n dh'mon pravttein o{ a]n bouvlhtai", Senofonte,
Elleniche I, 7, 12).
"E' la rivendicazione che
riecheggia minacciosamente in assemblea ad Atene durante il processo popolare
contro i generali delle Arginuse", è "la formula che caratterizza,
secondo Polibio, la degenerazione della democrazia (VI, 4, 4:" quando il
popolo è padrone di fare quello che vuole").
Un’ altra
espressione di condanna di questa negazione dello Stato di diritto si trova nell’Ifigenia
in Aulide di Euripide quando il coro delle donne
calcidesi lamenta che sono caduti i valori forti del Valore e della Virtù,
mentre regna l’empietà, e ajnomiva de; novmwn kratei' (v. 1095), la licenza prevale sulle leggi.
Alla sovranità popolare ed
alla
volontà popolare come unica fonte della sovranità e
dell'autorità,
Polibio oppone-quando
tratteggia la "buona" democrazia-
la
sovranità della legge : è democrazia-osserva- quel regime nel quale,
fermi restando l'indiscussa autorità delle leggi e l'impegno a rispettarle, le
decisioni vengono prese in base al principio maggioritario (VI, 4, 5), un
regime cioè nel quale il prevalere della volontà della maggioranza non pone
comunque in discussione, né può intaccare, le leggi esistenti.
Vi è insomma "buona"
democrazia-secondo Polibio-quando tra volontà popolare e legge (magari
preesistente all'affermarsi del regime democratico) prevale la legge"..
Sentiamo Polibio:" non è democrazia quella in cui la massa sia padrona di
fare tutto ciò che voglia e preferisca; invece quella presso la quale è tradizionale e abituale venerare gli dèi,
onorare i genitori, rispettare gli anziani, obbedire alle leggi; presso
tali comunità, quando prevale il parere
dei più, questo bisogna chiamare democrazia" (VI, 4, 4).-
Concludiamo l’VIII Lettera di
Platone.
Viene
introdotto a parlare Dione in prosopopèa.
Consiglia di dare leggi che mettano
al primo posto l’anima, poi il corpo, poi le ricchezze, serve del corpo e dell’anima
(355c).
Solo tale
disposizione si può chiamare legge.
Invece il discorso che chiama felici i ricchi, è
miserevole (lovgo~ a[qlio~, di chi fa la gara a[qlo~ e non la vince) ed è un lovgo~ a[nou~, stolto, da bambini e da donne, e rende miseri e stupidi
chi se ne lascia persuadere. La via
giusta è utile a tutti adesso è quella di mezzo (mevson. 455d).
Ossia un governo monarchico con la
libertà. (Si può
pensare a quello di Pelasgo nelle Supplici
di Eschilo o a quello di Teseo nelle Supplici
di Euripide).
Le leggi devono essere al di sopra
del re e dei cittadini.
I poteri andranno divisi fra i tre re che avranno l’autorità suprema nelle cose sacre, i 35 custodi delle leggi (ad Atene fino a
Efialte erano gli Areopagiti) che dovranno decidere, con il popolo e il Consiglio, sulla pace e sulla guerra. I 35 dovranno
giudicare i reati che comportano pena capitale, carcere o esilio. Questi
resteranno in carica un anno. Il re che è anche sacerdote non deve essere
contaminato da condanne a morte.
Le leggi personificate nella
prosopopea del Critone platonico
Nel Critone
troviamo esposta da Socrate nella celebre prosopopea “ la più alta idea
che il Greco si sia formata delle leggi laiche quasi divinizzate…il testo
platonico serba un altissimo interesse perché c’insegna a qual genere di
rispetto uno spirito elevato si sentisse obbligato anche verso leggi giudicate
cattive. Chi viola la legge distrugge, per quanto sta in suo potere, la Città. Lo Stato non può
sussistere, se le sentenze in esso pronunciate restano senza efficacia, e anzi
da privati cittadini sono fatte vane e distrutte. Bisogna osservarle, anche se ingiuste: ché il cittadino è tenuto a
obbedire alle leggi in virtù di un patto inviolabile. Esso è debitore della sua nascita e della sua educazione allo Stato e
alle leggi”.
Nel
dialogo platonico le leggi personificate
parlano al vecchio educatore condannato a morte e lo esortano a dare retta a loro che sono le sue nutrici:"peiqovmeno" hJmi'n toi'" soi'" trofeu'si",
(54)., e non lo hanno offeso. (hjdikhmevno~ a[pei…oujc uJf j hJmw`n tw`n novmwn ajlla; uJp j ajnqrwvpwn” 54c). Te ne vai offeso non da noi leggi ma dagli uomini . Se evadi, come ti suggerisce Critone, reagisci a un’ ingiustizia con
un’altra ingiustizia, offendendo te stesso, la tua famiglia, il tuo paese e
noi. Sicché noi ti saremo ostili finché vivi e anche le nostre sorelle dell’Ade
non ti accoglieranno benevolmente oiJ hJmevteroi ajdelfoi; oiJ
ejn [Adou oujk eujmenw`~ se
uJpodevxontai, sapendo
che hai alzato le mani su di noi per ucciderci (54d).
Socrate
dice di sentire questa voce come i coribanti che credono di sentire i flauti.
T. Mann scrive che c’è in Nietzsche una
“sopravvalutazione coribantica” . della vita
istintiva e Nietzsche sostiene che Socrate reprime sempre l’istinto con la
razionalità, o meglio che il suo istinto lo tira indietro invece di spingerlo
avanti. Nel Critone si vede che
l’istinto lo induce a morire.
Un altro punto cruciale di questo dialogo è la noncuranza di Socrate per quello che
pensa la gente comune, la massa che non ha il criterio del bene e del male e
vive oujdeni; xu;n nw`/ (48c):
“quella ti ammazza e magari, potendo, ti farebbe risorgere”.
Solone
in Plutarco. Le tevcnai. Prometeo di Eschilo e Platone.
Socrate
conformava se stesso e la realtà alla legge, mentre Solone, a detta di Plutarco, adattava le leggi alla realtà
piuttosto che la realtà alle leggi: “Sovlwn de; toi`~ pravgmasi tou;~ novmou~ ma`llon h] ta;
pravgmata toi`~ novmoi~ prosarmovzwn…(Vita di Solone,
22, 3).
Quindi conferì dignità ai mestieri (tai`~ tevcnai~ ajxivwma perievqhke). Nel pensiero di Platone i lavori
banausici (degli artigiani) non hanno dignità
L’inventore delle tevcnai è Prometeo. Le sue invenzioni sono mal
reputate
Nel Prometeo incatenato di Eschilo il Titano afferma di avere escogitato le tevcnai (v. 477), che fanno partire la civilizzazione,
anzi:"pa'sai
tevcnai brotoi'sin ejk Promhqevw" (v. 507), tutte le tecniche ai mortali derivano da
Prometeo.
"Questo
sapere è sempre una conoscenza pratica:
è il sapere che ha creato la civiltà, le tevcnai. Egli ha insegnato loro i diversi mestieri, inoltre l'astronomia, i
numeri e le lettere; ma non per allargare la conoscenza del mondo nel senso
degli antichi ionici: al contrario, questo
sapere è orientato, alla maniera attica, verso le tevcnai, verso uno scopo pratico e un'utilità…il fuoco è il simbolo delle tevcnai, dell'attività pratica".
Hegel nella Fenomenologia
dello spirito scrive: “il signore si
rapporta alla cosa in guisa mediata, attraverso il servo”; il servo invece
“col suo lavoro non fa che trasformarla”.
“La tecnica, infatti, non tende a uno
scopo, non promuove un senso, non apre scenari di salvezza, non redime, non svela la verità: la tecnica funziona. E siccome il suo funzionamento diventa planetario, finiscono sullo sfondo, incerti nei
loro contorni corrosi dal nichilismo, i concetti
di individuo, identità, libertà, salvezza, verità, senso scopo, ma anche
quelli di natura, etica, politica, religione, storia di cui si era nutrita
l’età pre-tecnologica, e che ora, nell’età della tecnica, dovranno essere
riconsiderati, dismessi, o rifondati dalle radici”.
Diversi
autori hanno disprezzato le tevcnai.
Si veda, per esempio, un esplicito svuotamento della sofiva tecnologica nel discorso di
Diotima del Simposio platonico:"kai; oJ me;n peri; ta; toiau'ta
sofo;" daimovnio" ajnhvr, oJ dev, a[llo ti sofo;" w[n, h] peri;
tevcna" h] ceirourgiva" tinav", bavnauso"" (203a), chi è sapiente in tali rapporti
è un uomo demonico, quello invece che si intende di qualcos'altro, o di
tecniche o di certi mestieri, è un facchino.
Antifonte Sofista critica le leggi
scritte
Una
critica delle leggi scritte dagli uomini troviamo in Antifonte sofista. Vediamo alcuni frammenti dallo
scritto Sulla Verità:
“Ta; me;n ga;r tw`n novmwn
ejpiqevnta, ta; de; th`~ fuvsew~ ajnagkai`a”, Le norme di legge sono aggiunte, quelle di natura
necessarie (simili agli eventa e ai coniuncta di Lucrezio).
" e[sti de; pavntw" tw'nde
e{neka touvtwn hJ skevyi", o{ti ta; polla; tw'n kata; novmon dikaivwn
polemivw" th'/ fuvsei kei'tai" (Della verità , fr. B 44 Diels-
Kranz), per queste ragioni soprattutto
si svolge la nostra indagine: che la
maggior parte di quanto è giusto secondo la legge si trova in contrasto con la
natura.
Sono state
emanate leggi per gli occhi, su ciò che devono vedere e non vedere, per le
orecchie, su ciò che devono sentire e non sentire, e per la lingua, su quanto
deve dire e non deve dire e così via.
Fino alla
mente su quello che deve desiderare e quello che no.
Fatti di
natura, continua Antifonte, sono il vivere e il morire, e il vivere per gli
uomini deriva da ciò che è utile (kai; to; me;n zh'n aujtoi'" ejstin ajpo; tw'n
xumferovntwn) la morte
da ciò che è dannoso. Ebbene, riguardo all'utile le prescrizioni sottoposte
alla legge sono ceppi per la natura
(ta; me;n uJpo;
tw'n novmwn keivmena desma; th'"
fuvsewv" ejsti),
mentre ciò che è prescritto dalla natura è libero (ta; d j uJpo; th'"
fuvsew" ejleuvqera).
E certamente quello che addolora non giova alla natura, secondo la retta
ragione, più di quello che rallegra.
La legge istituita dunque non
è giusta né utile poiché non incrementa ma danneggia la vita.
Antifonte denuncia come innaturali le
differenze che le leggi e le usanze stabiliscono tra gli uomini: "quelli
che provengono da una casata non illustre non li rispettiamo né onoriamo. In
questo ci comportiamo come barbari gli uni verso gli altri. Infatti per natura,
in tutto, tutti siamo costituiti per essere uguali barbari ed Elleni (pavnta pavnte~ oJmoivw~ pefuvkamen kai; bavrbaroi kai; {Ellhne~)…tutti di fatto inspiriamo nell'aria attraverso la bocca e le narici e
tutti mangiamo con le mani ".
Voglio
citare anche un frammento di Sulla
concordia: “ajnaqevsqai
de; w{sper petto;n to;n bivon oujk e[stin”
(B 52 Diels-Kranz), non è possibile
rimettere in gioco la vita come una pedina.
La
vita infatti è breve come un effimero turno di guardia e un sol giorno, nel
quale, una volta alzato lo sguardo alla luce, dobbiamo cedere il turno ad altri
che sopraggiungono (ajnablevyante~
pro;~ to; fw`~ paregguw`men toi`~ ejpigignomevnoi~ eJtevroi~ (B50 Diels-Kranz).
Nelle Troiane di Euripide, Andromaca
arriva a dire che i veri barbari sono i Greci “w\ bavrbar
j ejxeurovnte~ [Ellhne~ kakav-tiv tovnde
pai`da kteivnet j oujde;n ai[tion;
(764-765), o Greci inventori della barbarie, perché uccidete questo bambino che
non è colpevole di niente?
I sofisti nei
dialoghi di Platone
Nel Protagora, Platone
introduce Ippia di Elide che dice:
“credo che voi qui presenti siate tutti della stessa razza (suggenei`~) e della stessa
famiglia (oijkeivou~) e concittadini (polivta~) per
natura (fuvsei), non per legge (ouj novmw/), poiché il simile è della razza del simile per natura, mentre
la legge, tiranna degli uomini, in molte
cose commette violenza contro natura (oJ de; novmo~, tuvranno~ w]n
tw`n ajnqrwvpwn, polla; para; th; fuvsin biavzetai, 337d)
Secondo
il sofista Callicle del Gorgia di Platone oiJ ajsqenei'", i deboli, e oiJ polloiv, i più, sono
quelli che stabiliscono le leggi (oiJ tiqevmenoi tou;~ novmou~) per se stessi
e per il proprio tornaconto (to; auJtoi`~ sumfevron, 483b).
Cercano
di spaventare i più forti per difendersi dalla loro legittima volontà di
emergere e di avere la meglio secondo la natura del diritto,
kata; fuvsin th;n tou' dikaivou
(483e
) e secondo la legge della natura,
kata; novmon ge to;n th'" fuvsew". Ma la legge innaturale della polis stravolge il
diritto naturale dei più forti plasmandoli
(
plavttonte~),
prendendoli da giovani (ejk
nevwn lambavnonte~)
come si fa con i leoni da domare, poi con queste leggi li assoggettiamo (katadoulouvmeqa)
incantandoli (katepav/dontev~) e stregandoli (te kai; gohteuvonte~) dicendo loro che bisogna avere uguaglianza (to;
i[son, 484a) e che
questo è bello e giusto (kai; tou`tov ejstin to; kalo;n kai; to; divkaion).
Callicle sostiene (483a-d) che legge naturale è il predominio del più forte e che
la giustizia perequativa è una falsificazione architettata dai deboli,
confederati insieme per contraffare la natura e non lasciarsi schiacciare
da chi ne ha le capacità e il diritto.
Ma
il giusto è che il più forte prevalga
sul più debole e l'uomo veramente dotato di forza lo dimostrerà spezzando tutti
i vincoli e facendo brillare to; th'" fuvsew" divkaion, il diritto della natura.
Questa
prefigurazione del superuomo farà brillare to; th'" fuvsew" divkaion, il diritto della natura dopo avere calpestato i
nostri scritti (katapathvsa~
ta; hJmevtera gravmmata) e i sortilegi (kai; magganeuvmata) e gli incantesimi ( kai; ejpw/dav~) e le leggi quelle che sono tutte contro natura kai;
novmou~ tou;~ para; fuvsin a{panta~ (484b).
Callicle cita alcuni versi di Pindaro che dicono
novmo~ oj pavntwn
basileu;~
qnatw`n te kai; ajqanavtwn , la legge è regina di tutti mortali e immortali .
Ma
questo novmo~ è il
diritto del più forte, prosegue
Callicle citando e integrando Pindaro, un diritto che muove giustificandola
somma violenza con mano possente, come quella di Eracle che portò via i buoi di Gerione senza pagarli.
Callicle dunque dà alla parola novmo" il significato di legge naturale
che giustifica la violenza, come quella di Eracle che portò via i buoi di Gerione senza averli
pagati né ricevuti in dono ("ou[te priavmeno" ou[te dovnto" tou' Ghruovnou
hjlavsato ta;" bou'""). Infatti è così il diritto di natura che i buoi e gli altri
beni dei peggiori e dei più deboli devono appartenere a chi è migliore e più
forte (484b).
Il
principio di Callicle è lo stesso affermato dagli Ateniesi che vogliono sopraffare Melo nel V libro delle Storie di Tucidide
" riteniamo infatti che la divinità,
secondo la nostra opinione, e l'umanità
in modo evidente, in ogni occasione, per necessità di natura, dove è più forte,
comanda".
Questa
sarebbe un'eterna legge di
natura:
"noi non abbiamo imposto questa legge né l'abbiamo
utilizzata per primi quando vigeva, ma avendola ricevuta che c'era, e pronti a
lasciarla rimanere per sempre, ce ne avvaliamo, sapendo che anche voi e altri, se vi trovaste nella stessa condizione
di potenza in cui siamo noi, fareste lo stesso". (Tucidide, V, 105,
2).
Tale logica imperiale era già
stata dichiarata qualche anno prima senza ipocrisie da Cleone, il più violento dei cittadini ("biaiovtato"
tw'n politw'n", III, 36, 6) e quello più capace di
persuadere ("piqanwvtato"") il popolo, quando, nel
427, aveva proposto di uccidere tutti i Mitilenesi ribelli. Il demagogo aveva
aggiunto, sempre senza infingimenti: avete
un impero l'impero che è una tirannide ("turannivda e[cete th;n ajrchvn", III,
37, 2) la quale per reggersi deve usare la forza e bandire la compassione.
Gli Ateniesi indecisi erano stati
rimproverati di estetismo molle dal loro beniamino irritato: "vi lasciate
convincere dalle parole belle dei sofisti e non badate alla visione concreta
dei fatti. Affascinati da questa eloquenza, sembrate cercare qualcosa di diverso
dal mondo in cui viviamo (zhtou'ntev" te a[llo …h] ejn
oi|" zw'men, III, 38, 5);
e finite con l'assomigliare a gente seduta per uno spettacolo di gara tra
sofisti, anziché ad un'assemblea deliberante". La compassione dunque e
l'umanità secondo tale visione sono fuori dal mondo. Sono comunque fuori dal
mondo retto dalla logica e dalle armi dell'impero dominante.
Nella risoluzione finale contro i Meli (inverno 416-415)
dunque furono evocati il cielo e la terra, quindi i signori della guerra fecero
valere il loro diritto sugli abitanti della piccola isola, che non avevano
voluto piegarsi con le buone, ammazzando
i maschi adulti e rendendo schiave le donne con i bambini.
Non molti anni più tardi però (404 a. C.), quando persero la
guerra quasi trentennale con gli Spartani sostenuti dal denaro persiano, gli
stessi Ateniesi ricordarono questo episodio funesto, se non con rimorso, con
terrore di ritorsioni.
Dopo la battaglia di Egospotami
nella quale la flotta ateniese andò distrutta quasi senza combattimento,
come per una nemesi delle stragi perpetrate dagli Ateniesi su gente inerme, la
nave di Stato Pàralo giunse al Pireo, di notte, e subito si diffuse la notizia della
catastrofe, lungo le Mura, fino ad Atene dove si raccontava la
disgrazia, e il lamento dal porto si diffondeva ovunque, poiché un cittadino
trasmetteva l'orribile novità all'altro . "Sicché-procede il racconto di
Senofonte continuatore della Storia di Tucidide-quella notte nessuno dormì, non solo perché piangevano i morti, ma anche,
molto di più, se stessi, ritenendo che avrebbero subìto i mali che avevano
inflitto ai Meli che erano coloni di Sparta, dopo averli presi con
un assedio, e anche agli abitanti di Istiea, di Sicione, di Torone, di Egina, e
a molti altri Greci" (Elleniche II, 2, 3).
Nel terzo libro delle
sue Storie, Erodoto
utilizza il primo dei versi di Pindaro
di Pindaro citati sopra (novmo~ oj pavntwn basileu;~) in senso quasi opposto a quello
datogli dal personaggio di Callicle.
Il re
Dario aveva domandato a dei Greci se
sarebbero stati disposti a cibarsi dei loro padri morti, ed essi risposero che
non l'avrebbero fatto per niente al mondo. Quindi il re dei Persiani chiese
agli Indiani chiamati Callati" oi{ tou;" goneva" katesqivousi"( III, 38, 4) che mangiano i
genitori, a quale prezzo avrebbero accettato di bruciarli nel fuoco, e quelli,
gridando forte, lo invitavano a non dire tali empietà. Così, conclude Erodoto, queste usanze sono diventate tradizionali, e a me sembra che Pindaro abbia fatto bene (ojrqw`~ poih`sai) affermando che la consuetudine è regina di tutte le cose
("novmon pavntwn basileva
fhvsa" ei\nai").
Torniamo a Callicle. Le leggi
della maggioranza, continua il sofista, sono prodotte da un'accozzaglia di
servi e da uomini senza valore tranne, forse, la forza fisica (Gorgia, 489c). Diritto di natura è che
il migliore e più intelligente comandi e abbia più di chi è sciocco (490a).
I più intelligenti, lo sono negli affari di
stato "eij" th'" povlew" pravgmata", e
sono anche coraggiosi :"mh; movnon frovnimoi, alla; kai; ajndrei'oi", e
sono pure capaci di realizzare quello che pensano:" iJkanoi;
o[nte" a} a]n nohvswsin ejpitelei'n",
né si scoraggiano per debolezza d'animo ("dia; malakivan
th'" yuch'""491b).
Bello e giusto per natura, sostiene il sofista, è che chi
vuole vivere rettamente lasci diventare il più
possibile grandi le sue brame, e non le freni, anzi sia capace di
assecondarle proprio quando sono enormi:" [Alla; tou't j ejsti; to; kata; fuvsin kalo;n
kai; divkaion..o[ti dei' to;n ojrqw'" biwsovmenon ta;" me;n
ejpiqumiva" ta;" eJautou' eja'n wJ" megivsta" ei\nai kai;
mh; kolavzein, tauvtai" de; wJ" megivstai" ou[sai" iJkano;n
ei\nai uJphretei'n (491e-492a).
Tale teoria viene biasimata dai più siccome costoro, la
maggioranza, non hanno la capacità di attuarla:" jAlla; tou't j, oi\mai, toi'"
polloi'" ouj dunatovn: o{qen yevgousi tou;" toiouvtou" di j
aijscuvnhn, ajpokruptovmenoi th;n auJtw'n ajdunamivan"
(492a), ma questo, penso, non è possibile per i più: perciò biasimano gli
uomini siffatti, per vergogna, cercando di nascondere la propria impotenza, e,
non potendo procurare soddisfazione ai loro desideri, elogiano la temperanza e
la giustizia per la loro debolezza:" ejpainou'si th;n swfrosuvnhn kai; th;n dikaiosuvnhn dia; th;n aujtw'n
ajnandrivan"492b.
I potenti non hanno bisogno di temperanza e giustizia. Essi
non hanno un padrone nella legge, nei discorsi e nei biasimi della maggioranza.
Invero la felicità, eujdaimoniva, è data da lusso, intemperanza e libertà:"trufh; kai; ajkolasiva kai; ejleuqeriva",
se uno può permettersele; il resto sono imposture, convenzioni di uomini contro
natura, buffonate che non valgono nulla:"ta; para; fuvsin
sunqhvmata ajnqrwvpwn, fluariva kai; oujdeno;" a[xia"492c.
Socrate
riconosce che Callicle ha parlato con franchezza (parrhsiazovmeno~) e non senza nobiltà ("oujk ajgennw'"", 492d):
infatti ha detto ciò che altri pensano ma non osano dire.
Il
maestro di Platone però si colloca sul versante opposto: quello della
virtù con la morale e la temperanza sostenendo che chi vuole essere felice deve cercare la moderazione ("swfrosuvnhn") e
fuggire la sregolatezza ("ajkolasivan", 507) a gambe levate. Insomma bisogna acquisire
giustizia e temperanza ("dikaiosuvnh...kai; swfrosuvnh"),
virtù che costituiscono l'ordine e la salute dell'anima, mentre l'ingiustizia è la malattia più grave,
tanto che se subirla è un male, il male
peggiore è infliggerla:"mei'zon
mevn famen kako;n to; ajdikei'n, e[latton de; to; ajdikei'sqai"(509c).
Nel X
libro delle Leggi di Platone, l’Ateniese afferma che “la legge della giustizia cosmica è una
legge di gravitazione spirituale; in questa vita e nella serie completa di
vite, ogni anima gravita naturalmente
verso la compagnia dei propri simili e in ciò sta il suo premio o il suo
castigo…E Platone aggiunge un altro
avvertimento…se qualcuno chiede alla
vita una felicità personale, ricordi che il cosmo non esiste per lui, ma lui
per il cosmo”.
Vediamo ora un altro luogo platonico che tratta il
problema. Nel primo libro della Repubblica il sofista Trasimaco è un
altro rappresentante della filosofia di potenza. Egli raggomitolatosi come una
fiera si dirige contro Socrate come se volesse sbranarlo (336b). Quindi afferma
che il giusto non è altro che l'utile di chi è superiore:"to;
divkaion oujk a[llo ti hj; to; tou' kreivttono" sumfevron"(338c).
Socrate
obietta che il capo deve cercare il bene dei subordinati.
Trasimaco
ribatte che l'ingiustizia è biasimata da chi teme di subirla. Ma chi riesce a
sottomettere gli altri si prende l'appellativo di fortunato e felice (344b).
L'ingiustizia realizzata ha più forza, indipendenza e potere della giustizia.
Socrate ribadisce che un capo vero e genuino non cerca il
proprio utile bensì quello dei governati, e aggiunge che l'ingiustizia genera odiosità dovunque si
insedi (351d), paralizza l'azione a causa di tumulti e discordie, poi rende
ciascuno agitato, conflittuale con se stesso e nemico dei giusti (352a). Gli
ingiusti in definitiva sono anche completamente incapaci di agire:"televw"
a[dikoi televw" eijsi; kai; pravttein ajduvnatoi"(352b).
Cfr.
Leopardi, Zibaldone, 1641: “Ma la
morale non è altro che convenienza”.
Tradotto in termini erotici: l’amore non è altro che
l'utile di chi è più forte.
Si può chiamare in causa e inserire in questa categoria
della gente guidata dall’utile, pure in campo erotico, anche la Poppea Sabina
di Tacito: unde utilitas ostenderetur, illuc libidinem transferebat
(Annales, XIII, 45), dove si presentasse l'utile, là volgeva la
libidine.
Qui si può ricorrere a Pasolini:"
L'interpretazione
puramente pragmatica (senza Carità) delle azione umane deriva
dunque in conclusione da questa assenza di cultura: o perlomeno da
questa cultura puramente formale e pratica".
Il culto del sumfevron (utile) che precede il kalovn (bello e bello morale)
contraddistingue anche la nostra epoca.
Lo afferma
Hillman
nel suo ultimo lavoro:"
La civiltà
odierna è tenuta insieme non dall'idea di bellezza, di verità, di giustizia o
di destino, non da una forza basata sulle armi come la
pax romana, non da leggi, divinità, o dalle fedi condivise.
Soltanto
le idee del business sono realmente universali. Se le idee del business,
come il commercio, la proprietà, il prodotto, lo scambio, il valore, il
profitto, il danaro, sono quelle che, in modo cosciente o inconscio, governano
la vita umana del pianeta, allora sono queste le idee che concorrono a dare al
business il suo potere, stabilendo il suo impero mondiale al di là di ogni
confine geografico e di ogni barriera di costume"
.
Nel secondo libro della Repubblica prende la parola
Glaucone, fratello di Platone.
Egli sostiene che nell'uomo è innata la prepotenza.
Dicono infatti che fare ingiustizia sia per
natura un bene, subirla un male: la giustizia dunque è amata per l'impotenza
di fare ingiustizia (359b). Gige,
l'antenato di Creso, appena ne ebbe la possibilità, grazie all'anello che lo
rendeva invisibile, sedusse la moglie del re e lo uccise.
Nessuno allora è giusto di
sua volontà ma per forza:" oujdei;" eJkw;n divkaio" ajll j
ajnagkazovmeno""(360d). Glaucone sostiene che se la passa meglio
chi sembra giusto senza esserlo rispetto
all'uomo semplice e nobile che lo è davvero, come Anfiarao di cui
Eschilo dice che non vuole sembrare buono ma esserlo "ouj ga;r dokei'n a[risto", ajll j ei\nai qevlei", I sette
a Tebe , v. 592).
Poi prende la parola Adimanto, un altro fratello di Platone.
Egli afferma che i poeti seppelliscono gli iniqui nel fango dell'Ade (363d), ma
sulla terra se la passano meglio gli ingiusti. Del resto gli stessi poeti
affermano che la virtù è difficile e faticosa. Viene citato Esiodo:"th'" d j ajreth'" iJdrw'ta qeoi; propavroiqen
e[qhkan"(Opere , v. 289), gli dèi hanno messo il sudore davanti alla
virtù". Mentre Omero chiama gli dèi
"esorabili", listoiv, ossia disponibili a perdonare i peccati, Iliade , IX, 497.
In definitiva, come scrive Simonide,
l'apparire violenta anche la verità:" to; dokei'n...kai;
ta;n ajlavqeian bia'tai" (
Repubblica,
365c)
.
Allora io,
aggiunge Adimanto, devo tracciarmi
intorno skiagrafivan ajreth'" un effetto
ottico di virtù, e tirarmi dietro la
volpe furba e versatile del sapientissimo Archiloco. I giovani non sono stati
abituati a pensare che la giustizia è il massimo bene "dikaiosuvnh mevgiston ajgaqovn"(367a), altrimenti ciascuno sarebbe il miglior
custode di se stesso, temendo, con il commettere ingiustizia di incorrere nel
peggiore dei mali. Nessuno mai ha biasimato l'ingiustizia né ha lodato la
giustizia, ma la reputazione e i beni che ne derivano (366e). Insomma Adimanto
chiede a Socrate di dimostrargli non che la giustizia è socialmente utile ma
che è un bene di per sé.
La musica contribuisce all’educazione.
Platone critica gli
agoni drammatici frequentati troppo spesso, e male, da un
pubblico becero, trascinato
dalla musica caotica diffusa da
poeti
ignoranti, maestri di disordinate trasgressioni, i quali mescolavano peani con ditirambi, confondendo,
appunto, tutto con tutto (
pavnta eij~ pavnta sunavgonte~,
Leggi,
700d); di conseguenza le càvee dei teatri
divennero, da silenziose, vocianti, e al posto dell’aristocrazia del
gusto
subentrò una sfacciata
teatrocrazia per quanto riguarda quest’arte (701). Come se fossero
stati tutti sapienti, diventarono impavidi e l'audacia generò l'impudenza
(701b).
.
Licurgo, Il
futuro legislatore spartano si recò all’estero. Prima a Creta e ne studiò le leggi. Di lì mandò
a Sparta il poeta Taleta i cui canti invitavano all’obbedienza e alla concordia
attraverso suoni e ritmi pieni di armonia e potere tranquillizzante (Plutarco, Vita, 4, 2).
Chi li
ascoltava si abituava all’amore e alla virtù. Così Taleta aprì la strada
all’educazione degli Spartani.
Da
Creta Licurgo partì per l’Asia. Nella
Ionia conobbe i poemi di Omero dove notò passi di valore civico e educativo.
Dunque li trascrisse e li portò a Sparta. Prima Omero era poco conosciuto tra i
Greci e solo a pezzi: Licurgo fu il
primo che ne rese nota l’opera (Vita,
4, 6). Poi lo statista si recò in Egitto dove rimase colpito dalla
separazione della casta dei guerrieri, una distinzione (diavkrisi~) che introdusse a Sparta, dove avendo separato i braccianti e gli artigiani
rese il regime davvero civile e puro (4, 7)
.
Gli
Spartani a un certo punto lo richiamarono poiché i loro re erano inetti, mentre
Licurgo aveva una fuvsin hJgemonikhvn (5, 1), l’attitudine al comando e una capacità di trascinare gli uomini.
Licurgo
tornò con la volontà di risanare lo stato.
Con
questo proposito si recò a Delfi, dove sacrificò e consultò l’oracolo: “
prw'ton me;n ajpedhvmhsen eij" Delfouv": kai;
tw'/ qew'/ quvsa" kai; crhsavmeno", ejpanh'lqe to;n diabovhton
ejkei'non crhsmo;n komivzwn, w|/ qeofilh' me;n aujto;n hJ Puqiva prosei'pe kai;
qeo;n ma'llon h] a[nqrwpon, eujnomiva" de; crh/vzonti didovnai kai;
katainei'n e[fh to;n qeo;n h{ polu; krativsth tw'n a[llwn e[stai politeiw'n" (Plutarco,Vita di Licurgo , 5, 4), in primo luogo
si recò a Delfi, e, dopo avere sacrificato al dio e avere consultato l'oracolo,
tornò portando quel famoso responso, con il quale la Pizia lo chiamò caro agli
dei e dio più che uomo, e a lui che chiedeva una buona legislazione disse che
il dio gliela dava e prometteva che la sua sarebbe stata di gran lunga la migliore tra tutte le costituzioni. Licurgo
fece risalire al dio Pitico (eij~ to; Puvqion ajnh`ye, 6, 3) il principio e l’origine della sua costituzione. Anche il poeta
Tirteo ricorda che la costituzione spartana veniva da Febo pitico.
Più
avanti Plutarco scrive che Licurgo non fissè leggi scritte:"novmou" de; gegrammevnou" oJ Lukou'rgo" oujk e[qhken"( 13, 1), anzi una delle
cosiddette retre proibisce di darne.
Nella Vita di Solone dello stesso Plutarco troviamo una derisione delle leggi scritte da parte di Anacarsi che fu
ospite e amico del legislatore Ateniese. Lo Scita dunque derideva l’opera di
Solone che pensava di frenare l’iniquità dei cittadini con parole scritte le quali, diceva, non differiscono affatto dalle
ragnatele (mhde;n
tw`n ajracnivwn diafevrein, 5, 4), ma come quelle trattengono le prede deboli e piccole, mentre
saranno spezzate dai potenti e dai ricchi (uJpo; de; dunatw`n kai; plousivwn diarraghvsesqai).
Le cose
poi andarono secondo le previsioni di Anacarsi il quale disse anche, dopo avere
assistito all’assemblea degli Ateniesi, di essere stupito del fatto che presso
i Greci parlassero i sapienti ma decidessero gli ignoranti (o{ti levgousi me;n oiJ sofoi;
par j { Ellhsi, krivnousi d j oiJ
ajmaqei`~ (5,
6).
Le leggi dunque colpiscono solo i deboli
Nietzsche: “Le leggi
contro i ladri e gli assassini sono fatte a favore delle persone colte e ricche”.
Nella storia romana "la maggiore
singolarità" è data dal fatto che i primi legislatori "e soprattutto il loro capo
Appio Claudio siano stati deposti per la loro indegna tirannide"
mentre diversi altri "veri o mitici
legislatori, Licurgo, Solone, Zaleuco, Mosé, sono dalla tradizione circonfusi
da un'aureola di luce che li rende santi e venerabili". Il fatto è che Appio Claudio e i decemviri
legibus scribundis nel 451/450 agirono in favore della plebe:"
Di contro alla prepotenza patrizia, ordinatasi nel sec. V la plebe a Stato
entro lo Stato, due furono le concessioni che prima cercò di ottenere: leggi
eguali per tutti, e una parte per tutti i cittadini nel governo della
repubblica. A soddisfare l'una e l'altra richiesta si accinsero i
decemviri". Di qui la reazione dei patrizi:"Come dalla decadenza
della monarchia, così dalla caduta del decemvirato trassero sul momento
vantaggio i soli patrizi. E dell'una e dell'altra spetta quindi ai patrizi la
responsabilità".
Tucidide
II, 37, 3. Parla Pericle nel lovgo~ ejpitavfio~
Mentre
trattiamo le faccende private senza recare offese, nella sfera pubblica non
trasgrediamo le leggi soprattutto per paura, in obbedienza ai magistrati
che sono via via al governo e delle leggi, e innanzi
tutto di quelle che sono poste a tutela di chi subisce ingiustizia e quante,
pur non essendo scritte, portano un disonore sul quale tutti concordano-
-dia; devoς: sembra in
contraddizione con quanto dirà tra poco sulle leggi non scritte, ma il timore è
considerato cosa santa già nelle Eumenidi
di Eschilo dove entrambe
le parti contendenti affermano la necessità di mantenere vivo to; deinovn per il bene della povli" : nel secondo Stasimo, il coro delle Erinni
canta:" a volte è bene il terrore (" e[sq j
o{pou to; deino;n eu\")/ e quale ispettore delle anime (frenw'n ejpivskopon)/ deve restarvi a fare
la guardia"(vv. 517-519).
E
subito dopo, ancora le Erinni:" mht j a[narkton bivon-mhvte
despotouvmenon-aijnevsh/" : panti; mesw/ to; kravto"
qeo;"-w[pasen "(526-530), non lodare una vita di anarchia né una soggetta al
dispotismo: in ogni caso il dio dà potenza al giusto mezzo.
Più avanti la stessa
Atena consiglia ai cittadini che hanno cura della città di rispettare uno stato
senza anarchia né dispotismo ("to; mhvt j a[narcon mhvte despotouvmenon", v. 696) e di non
scacciare del tutto la paura dalla città: infatti quale mortale è giusto se non
ha nessuna paura? ("kai; mh; to; deino;n pa'n povlew" balei'n-tiv" ga;r
dedoikw;" mhde;n e[ndiko" brotw'n; " vv. 698-699).
Non erano scritte nemmeno le antiche usanze ateniesi invocate da Adrasto supplice
davanti a Teseo per ottenere un
aiuto contro i Tebani che non volevano
restituire i cadaveri dei caduti. Il comandante argivo pregava di non
permettere che tali uomini restassero insepolti né venissero aboliti quegli
antichi costumi e quelle leggi patrie di
cui tutti gli uomini continuano ad avvalersi in quanto non sono
stabilite dalla natura umana bensì imposti dalla potenza divina:" ejdei'to mh; periidei'n
toiouvtou" a[ndra" ajtavfou" genomevnou" mhde; palaio;n
e[qo" kai; pavtrion novmon kataluovmenon, w|/ pavnte" a[nqrwpoi
crwvmenoi diatelou'sin oujc wJ" uJp j ajnqrwpivnh" keimevnw/
fuvsew", ajll j wJ" uJpo; daimoniva" prostetagmevnw/
dunavmew"" ( Isocrate, Panatenaico, 169).
Nell’Areopagitico del 356, Isocrate scrive che le buone leggi non
bastano se nella polis non ci sono buoni costumi. Il progresso della virtù non nasce
dalle leggi ma dalle abitudini giornaliere:" ejk tw'n kaq j eJkavsthn th;n hJmevran ejpithdeumavtwn" (40).
Infatti le
città si governano bene non con le leggi ma con la bontà dei costumi e coloro che sono stati educati male oseranno
trasgredire le leggi redatte con grande precisione, mentre quelli che hanno
avuto una buona educazione, vorranno rispettare anche le leggi formulate con
semplicità (41)
A Sparta
la condotta dei cittadini era buona e assai modesto il numero delle leggi
scritte.
Anche Platone pensava che una buona
educazione non ha bisogno della costrizione delle leggi (Repubblica, 426e-427a). La parte maggiore e più bella della materia
legislativa deve essere lasciata ad Apollo delfico che interpreta i doveri
sacri e profani epi;
tou` ojmfalou` kaqhvmeno~
(427e), seduto sull’ombelico del mondo
Sallustio nel Bellum Catilinae ,
rimpiange i boni mores dell'antica Repubblica, quando cives cum civibus de virtute certabant ,
i cittadini gareggiavano per il valore con i cittadini, e ricorda che:"ius bonumque apud eos non legibus
magis quam naturā valebat " (9), il diritto e l'onestà da loro aveva
forza non più per le leggi che per natura.
Augusto aveva cercato di reprimere l’adulterio già
dilagante e “di moda” , con diverse leggi. La
volontà augustèa di incoraggiare il matrimonio venne codificata, invano, dalla lex Iulia
de adulteriis coercendis, dalla lex Iulia de maritandis ordinibus (
entrambe del 18 a.
C.) e dalla lex Papia Poppaea
( del 9 d. C. ).
In conclusione “Corruptissima re publica
plurimae leges" (Tacito, Annales,
III, 27), quanto più è corrotto uno
Stato, tanto più numerose sono le leggi.
“E si può fare questa conclusione: che dove la materia
non è corrotta, i tumulti ed altri scandoli non nuocono; dove la è corrotta, le
leggi bene ordinate non giovano”
.
Concludo con
don Lorenzo Milani, il quale,
al contrario di Callicle, sostiene che le
leggi degli uomini sono giuste"quando sono la
forza del debole." Quando invece esse "sanzionano il sopruso del
forte", è bene "battersi perché siano cambiate".
In questo contesto
tuttavia il plh`qo~
povlew~ e grafai; novmwn possono costituire un impedimento alla
libertà e al vivere secondo le proprie inclinazioni (v. 867. Possiamo trovare note addirittura
ottimistiche nelle Supplici, rappresentate
nel 422, quando si profilava la pur malsicura pace di Nicia. Un ottimismo
assente dall’Ecuba del 424.) ndr
Nell’Oreste di Euripide il protagonista riconosce che l’apparenza prevale
anche se è lontana dalla verità: “
krei`sson de; to; dokei`n, ka]n ajlhqeiva~ ajph`/”(v. 236).
La
supremazia dei guerrieri secondo Nietzsche ha provocato nella storia il
risentimento dei preti. Cfr.
nell’
Andromaca l’uccisione del
ragazzo di Achille da parte della pretaglia deifica.
I preti ce l’hanno anche con i filosofi: gli intellettuali.