domenica 29 marzo 2020

la storia di Kaisa. Capitolo 5. Narciso e Lenone di se stesso

Jules-Cyrille Cavé, Narciso

Narciso e Lenone di se stesso

Sulla via del ritorno alla terrazza dopo lo svuotamento della vescica, passai davanti a uno specchio murale posto in uno dei lunghi corridoi del grande albergo di Debrecen. Mentre camminavo piuttosto in fretta verso la sperata vittoria olimpica, con la coda dell’occhio destro intravvidi la mia sagoma riverberata di profilo. Fatti pochi altri passi però, tornai indietro: volevo vedere bene quale fosse la consistenza e la forza attrattiva della mia figura osservata nell’immagine riflessa.
Fermo davanti a me stesso, mi piacqui, rafforzai la fiducia nella bontà della vita a mio riguardo. Ero un suo prediletto: snello, abbronzato, il corpo ben fatto, non alto ma limpidamente proporzionato, vestito di lino bianco: un tessuto semplice e puro, non l’escrescenza[1] di un corpo pigro, grasso e molle.
Avevo un volto simpatico e sorridente a se stesso: quanto mutato da quello[2] del disgraziato ragazzo grasso, malconcio, infelice, arrivato all’Aranybika di Debrecen nel luglio del 1966[3], sporco, spaventato e ingordo di cibo, pur con il ventre vicino a scoppiare!
Né valeva colpirlo con i pugni perché non reclamasse altro cibo: quello suonava come un tamburo e tuonando chiedeva sempre nuove vivande.
Allora evitavo ogni specchio per non vederci riflesso lo sciagurato corpo sformato, deforme, i capelli costantemente unti, e il viso foruncoloso angosciato stravolto in grugno di maiale invecchiato in un porcile angusto, odioso a se stesso e a tutti gli umani, soprattutto alle donne.

“Adesso invece - pensavo nel luglio del ’72 - mi piaccio, mi amo, e lassù, sulla terrazza per la seconda volta in due anni, mi aspetta una donna bella, colta e fine che contraccambia la mia simpatia. Intanto la simpatia. Entro il mese di luglio però devo portarmi nel letto anche questa. Allora sentirò di nuovo l’armonia dell’Universo. Potrò trarne e darle piacere, e specializzarmi in adultèri con spose novelle o prossime alle nozze.
Sento la buona sorte che arriva nella sua pienezza.
Gianni, non devi temere gli anatemi della pretaglia che ignora perfino le parole di Cristo il quale perdona le adultere, come diverrà, se non lo è già, Kaisa la bella. Il Nazareno ha rimesso tutti i peccati a quelli che hanno amato molto. Indulgenza plenaria. I sacerdoti santi, anzi, benediranno la nostra lussuria felice con le loro preghiere”.
Mi osservai per qualche minuto, e mentre l’occhio si spostava in gioiosa frenesia dal volto abbronzato alla vita da torero, provavo qualche movenza da ripetere davanti alla graziosa, preparandomi mentalmente citazioni splendide da recitare al momento opportuno. Mi venne in mente un distico del magister[4] del gioco amoroso dal quale mi facevo appunto ammaestrare:
Rusticus est nimium quem laedit adultera coniunx[5] .
Feci a me stesso qualche sorriso per scegliere le parole che potevano giovarmi nella commedia che mi apprestavo a recitare. Durante queste prove della scena seguente, tutta l’immagine mia sorrideva contenta nel grande specchio murale, perfino il lino della giacca e il cuoio lucido dei mocassini davano segni di compiacimento.

Mi piaceva assai stare lì a contemplarmi, ma non potevo farla aspettare altro tempo. Non volevo del resto finire come Narciso morto annegato per eccessivo amore della propria immagine che non poté stringere con le braccia gettate dentro le acque[6].
 Mi tornò in mente un utile distico dell’ottimo Ovidio pensando di recitarlo a Kaisa, se me ne avesse data l’opportunità: “Conloqui iam tempus adestfuge rustice longe/hinc Pudor: audentem Forsque Venusque iuvat[7].
Poi, se la ragazza, e madre, avesse continuato a mostrare gradimento, le avrei consigliato di non opporsi a un amore gradito: “placitone etiam pugnabis amori?”[8].
Ti chiederai, lettore, Perché tanto latino? Perché è la lingua che salva il pudore, nel senso che quando lo parli puoi dire quale si voglia parola oscena, da fellatio a glubere, senza vergognarti; ma soprattutto voglio spingerti a leggere e amare questa lingua 9 che è l’italiano antico, la nostra lingua nonna, se così si può dire.
Sicché, dato un bacio furtivo all’immagine mia, mosso dalla spinta dell’amore ineccepibile per la bella studiosa, tornai sulla terrazza, alla seggiola rossa, al tavolo coperto di fiori, alla mia finnica dai capelli neri e dagli occhi dal colore amato già quando mi allattava la mamma: azzurri o turchini, o viola, secondo la luce, più chiara o meno chiara. Ero certo di avere preparato bene, con arte, la necessaria parte di lenone di me stesso.



[1] In De Iside et Osiride Plutarco spiega che il lino spunta dal seno della terra immortale e produce una veste semplice e pura parevcei kaqara;n ejsqh`ta che non pesa ma offre riparo dal calore ed è adatta ad ogni stagione e non genera insetti 352F. 
Nel De Magīa Apuleio scrive che la lana è escrescenza di un pigrissimo corpo segnissimi corporis excrementum (56). Già Orfeo e Pitagora la riservavano alle vesti dei profani. Invece mundissima lini seges, la purissima pianta del lino, tra i migliori frutti della terra, copre i santi sacerdoti d’Egitto e gli oggetti sacri. 
Erodoto scrive che gli Egiziani considerano empio entrare nei santuari e farsi seppellire vestiti di lana (II, 81).
[2] Cfr. Virgilio, Eneide II, 274 “quantun mutatus ab illo
[3] Cfr. L’arrivo a Debrecen presente nel blog.
[4] Alla fine dell'Ars Amatoria leggiamo:"Lusus habet finem (...) Ut quondam iuvenes, ita nunc, mea turba, puellae/inscribant spoliis Naso Magister Erat " (III, 809 e 811 - 812), il gioco è finito... Come una volta i giovani, così ora le ragazze, mio seguito, scrivano sulle prede "Nasone Fu Il Maestro".
[5] Ovidio, Amores III, 4, 37, è davvero rozzo quello che una moglie adultera offende 
[6] Cfr. Ovidio, Metamorfosi: “bracchia mersit aquis nec se deprendit in illis! (II, 429)
[7] Ars amatoria I, 605 - 606), è già tempo di parlarle; fuggi lontano di qui, rozzo Pudore, la Sorte e Venere aiutano chi osa.
[8] Eneide IV, 38 v. 38) ti opporrai ancora a un amore che ti piace?
[9] L'uomo che non conosce il latino somiglia a colui che si trova in un bel posto, mentre il tempo è nebbioso: il suo orizzonte è assai limitato; egli vede con chiarezza solamente quello che gli sta vicino, alcuni passi piu in là tutto diventa indistinto. Invece l'orizzonte del latinista si stende assai lontano, attraverso i secoli piu recenti, il Medioevo e l'antichità. Il greco o addirittura il sanscrito allargano certamente ancor piu l'orizzonte. Chi non conosce affatto il latino, appartiene al volgo, anche se fosse un grande virtuoso nel campo dell'elettricità e avesse nel crogiuolo il radicale dell'acido di spato di fluoro" A. Schopenhauer, Parerga e paralipomena, trad. it Adelphi, 1983, Tomo II, Della lingua e delle parole 299, p. 772.

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