venerdì 20 marzo 2020

La chiusura in casa. Il nuovo monachesimo



La chiusura in casa. Il nuovo monachesimo[1]

Isolarci, non dare la mano, non abbracciare, non baciare insomma desocializzarci, adesso costituisce una misura necessaria, anche se mi pare eccessiva la proposta di impedire una corsa in solitudine, di notte. Non mi sembra rischioso. Lo è molto di più andare in banca o a fare la spesa.

Fare esercizio fisico è necessario quanto mangiare. 
Ma trovo ripugnante la tesi di molti gravi “ospiti” televisivi addetti a creare consenso. Secondo costoro questo stare chiusi in casa, invece di andare a scuola e al lavoro dove trovarci con colleghi e amici, è un effetto collaterale positivo e benefico, da portare avanti progressivamente anche dopo la minaccia del virus. E’ un progresso, dicono gli addetti. Lo sarà per chi deve vendere strumenti sempre più complicati che dovremmo imparare a usare rinunciando a leggere, a parlare in pubblico e in privato con persone presenti e vive, ad abbronzarci, all'ascesi corporea, a gareggiare. L’estendersi di questo uso della tecnologia ridurrà i rapporti umani già molto inficiati dai cellulari. A chi serve questo? Cui prodest come si diceva una volta? Serve a chi vuole eliminare gli affetti e la salute tra noi umani. Serve a chi vuole ridurre sempre più donne uomini, ragazze e ragazzi, bambine e bambini, tutti gli umani insomma, nelle condizioni di un gregge dai cervelli omologati, una turba lucifugarum, una folla di gente che evita la luce, quella del sole e quella dei rapporti umani, un branco che segue gli stereotipi diffusi dalla propaganda mentre vive ciascuno rinchiuso in un suo spazio, spesso angusto, talora malsano almeno moralmente e intellettualmente patogeno e morboso.
 Pensate solo alla tristezza per gli insegnanti che non vedono presenti e vivi le ragazze e i ragazzi, i colleghi, le mamme e i babbi degli allievi, e non possono confrontarsi agevolmente con loro. Perino nella televsione i collegamenti attraverso skype (si scrive così?) non funzionano.
 Alla tristezza segue sempre lo squallore.
L’ ossimoro concettuale del gregge degli individui isolati può costituire una delle conseguenze nefaste di questo veleno. Pensate a questo dopo avere sentito le bestemmie di chi ci vuole tutti lucifugi, umbratici[2].

giovanni ghiselli

p.s. Mi mancano le mie conferenze seguite da domande e discussioni, con la presenza delle persone attentissime e un po’ meno attente, favorevoli o contrarie a quanto dicevo. Imparavo sempre dell’altro da loro mentre insegnavo quanto avevo già imparato.
giovanni ghiselli



[1] C’è una celebre tirata di Rutilio Namaziano contro i monaci della Capraia.
 “Processu pelagi iam se Capraira tollit;
squalet lucifugis insula plena viris
Ipsi se monachos Graio cognomine dicunt,
quod soli nullo vivere teste volunt
Munera fortunae metuunt, dum damna verentur.
Quisquam sponte miser, ne miser esse queat?
Quaenam perversi rabies tam stulta cerebri,
dum mala formides, nec bona posse pati? ( De reditu , vv. 439 - 448 distici elegiaci, secondo decennio del V secolo)
traduzione
Gia (vedo) la Capraia (che) si alza sul mare;
l’isola desolata è piena di uomini che fuggono la luce.
Costoro si dicono monaci con nome greco,
poiché vogliono vivere soli senza alcun testimone.
Temono i doni nella fortuna, mentre ne paventano i danni.
Vuole essere infelice qualcuno, per non poterlo essere?
Quale furia di un cervello stravolto,
mentre si temono i mali, non poter sopportare i beni?
Già Seneca denuncia la turba lucifugarum (Ep. 122, 15), la folla di gente che evita la luce: a una cattiva coscienza la luce riesce molesta Gravis malae coscientiae lux est (122, 14)
[2] Nondum umbraticus doctor ingenia deleverat, cum Pindarus novemque lyrici Homericis versibus canere timuerunt ”(Satyricon , 2 - 3), non ancora i giovani erano rinchiusi nelle declamazioni, quando Sofocle o Euripide trovarono le parole con cui dovevano parlare.

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