lunedì 9 marzo 2020

Elena. Parte 21. La notte del dì di festa

Magda Szábo
La notte del dì di festa

Pensai che finita la cena saremmo andati nel grande bosco, un altro santuario del nostro connubio sacro, della nostra ierogamia.
Il grande bosco è rimasto per sempre il bosco più bosco di ogni bosco, più suggestivo delle foreste del Caucaso o della Svizzera, forse perché crescendo su terre sabbiose forniva un esempio di tenacia che gli dava una vita, nonostante le sue misere risorse, piena di forza e di robustezza, che altrove non vedevo mai”.
Questa è Magda Szábo, la brava scrittrice di Debrecen cui ora è intitolato il caffè sotto l’hotel Aranybika. Non ricordo però in quale romanzo ha scritto queste parole che ho fatto mie. La Szábo è una degli scrittori che hanno contribuito a formare il mio repertorio costituito di parole che come “SESAMO” fanno aprire le porte chiuse.

Fulvio dice che il cantore di Debrecen sono io e che dovrebbero dare il mio nome alla Nyári Egyetem, l’Università Estiva dove abbiamo passato alcuni mesi tra i più belli di nostra vita mortale. Caro compagno dell’età mia nova, e pure di questa da rinnovare, ricordi ancora quei nostri giorni fatati e fatali? E come potresti averli scordati, carissimo amico in esilio anche tu dalla nostra città incantata? All’apparir del vero anche se non siamo caduti, ci siamo annoiati. Ora va meglio. Tu dipingi. Io scrivo e tengo conferenze, faccio lezioni per educare i giovani a non dimenticare il bello, il buono, la cultura e l’arte.
E il mio blog, sapessi che soddisfazioni mi dà con le tante visite quotidiane di persone che mi leggono, e trovano i nostri classici greci, latini, italiani, inglesi, russi e tedeschi! Entro quest’anno saranno un milione.
 Pensa agli scrittorucoli che, pur pompati dai media, nessuno legge perché non dicono niente!
Ti ricordi quella canzone, mi pare si chiamasse Delilah: “C’era una volta un bianco collegio fatato, un grande mago l’aveva creato per noi”?
 Sì, noi amavamo, amavamo le donne e ci volevamo bene tra noi, tu, io e parecchi altri! Cantavamo insieme. E adesso chi vuole più bene a chi? Chi canta in coro, in tutte le lingue: “Gallus est mortus, gallus est mortus, gallus est mortus, gallus est mortus, non cantabit iam coccodì coccodà, non cantabit iam coccodì coccodà”?
Oppure Bocca di rosa: “La chiamavano Bocca di Rosa, metteva l’amore, metteva l’amore. La chiamavano bocca di rosa, metteva l’amore sopra ogni cosa”. Chi ama più?
 Intanto io continuo ad amare, a cantare la bella Debrecen che non c’è più, con la sua Università circondata da grande bosco, privo di sfarzi dipinti1 ma ricco di gioia, di affetti, di sapere, più ricco dei tanti ambienti falsi, inquinati, invidiosi che abbiamo frequentato in seguito.
Ora però è fradicio e rotto anche il ponticello di legno dove si camminava o correva con lieto rumore.

Ma torniamo alla sera del primo agosto del 1971.
Prima di andare a dormire facemmo un giro nel bosco. Non senza qualche sosta.
Le cantai e tradussi, con variazioni minime, una strofa della Canzone di Marinella di Fabrizio de Andrè, un altro dei miei educatori.
 “E c’era il sole e avevi gli occhi belli,
io ti baciai le labbra ed i capelli.
C’era la luna e avevi gli occhi stanchi,
io misi le mie mani sui tuoi fianchi”.
Minä rakastan sinua 2, mi sussurrò nella sua lingua dolce. Le risposi con un sorriso: non sapevo dire “anche io” in finlandese. Ma non era necessario: si vedeva che l’amavo. Si vedeva dal piacere mai esausto. Non c’era bisogno di dirlo. Con lo sguardo sentiva.
 Eravamo felici. Una donna e un uomo in mezzo alla natura. Dove l’Italia e la Finlandia si erano strette in alleanza.
 Senza calcoli, senza arzigogoli, senza dolore, senza noia: nient’altro che noi due, il nostro amore e la nostra felicità. Sono rari nella vita momenti del genere.
Vengono e vanno. Comunque ritornano, siccome il cammino della vita, come quello dell’eternità ha le sue curvature, i suoi giri3. Ma questo con Elena, posso dirlo dopo tante e varie giravolte, è stato il più bello.
Nei paraggi scorreva un fiume. Dissi a Elena che potevamo andarvi per fare una nuotata. “Voglio ribattezzarmi nelle onde della vita dopo il nostro amore di oggi”, spiegai con aria mistica.
Sei matto?” domandò, quasi incoraggiandomi tuttavia con l’espressione. “No, non sono matto; voglio sfogare un poco della mia gioia e sento il dovere di fare una bella figura con te”.
Non ne hai bisogno”.  
Lo so, ma voglio farla lo stesso. Non temere: io sono cresciuto al mare. Ho dentro di me i suoi flutti, sono una creatura marina dal vigore ancora non avvizzito, né questo fiume trasuda olio e catrame”.
Allora va bene” acconsentì lei con un sorriso leonardesco. Poi aggiunse: “ti guarderò dalla riva e, se tornerai quale eroe vincitore come hai appena promesso, ti applaudirò per la tua forza primordiale. Poi torneremo in collegio. Domani ci divertiremo ancora con nuovi balocchi”. Eravamo contenti di noi e della vita. La sua ironia derivava dalla confidenza e mi rallegrava.    

Andammo a dormire ciascuno nel proprio collegio, ma nel sonno gocciava davanti agli occhi il sogno che eravamo nello stesso letto e facevamo l’amore. Elena e io. Prima di dormire mi venne in mente che quella notte, così com’era stata, non sarebbe tornata ma più. La felicità non ha il tempo né la voglia di concedere il medesimo dono due volte. Ma non ne piansi al lume della luna tremulo sul vetro della finestra, tenue e delicato nel pavimento come in un sottobosco, non versai una lacrima  poiché quella felicità che sapevo irripetibile nella stessa maniera, quella gioia mi aveva reso meno mediocre, meno debole, addirittura meno mortale.

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1 Nella commedia pastorale As you like it (1599) di Shakespeare, il duca esiliato dal fratello e rifugiatosi nella foresta di Arden con i nobili suoi fedeli dice: “Now my co-mates and brothers in exile, -hath not old custom made this life more sweet-than the painted pomp? Are not these woods-more free from peril than the envious court? ” (II, 1) , ora miei compagni e fratelli d’esilio, non ha l’antico costume reso questa vita più dolce che lo sfarzo dipinto? Non sono questi boschi più liberi dal pericolo dell’invidiosa corte?
2. Io ti amo
3. Cfr. F. W. Nietzsche, “Also sprach Zarathustra”, ’Der Genesende’, 2, 59-69 “Così parlò Zarathustra”, ‘Il convalescente’, 2, 59-69: “Die Mitte ist überall. Krumm ist der Pfad der Ewigkeit. ” Il centro è dappertutto. Ricurvo è il sentiero dell’eternità"

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