sabato 14 marzo 2020

Elena. Parte 26. L’alba nell’orto botanico. Summertime

Unity Art Nabiha and Thom, Nightgarden

L’alba nell’orto botanico. Summertime

“Magnifica” pensai. La stimai e l’amai ancora di più per questa bella affermazione della sua dignità di donna e di persona; quindi vidi con chiarezza maggiore quanto fossi stato volgare, crudele e immorale civettando con la ragazza francese.
“Non tutte le femmine dunque”, pensai, “sono creature contraffatte, segugi sagaciamente a caccia di matrimonio, maschere prive di interiorità: leziose e smancerose, o tetre e arrabbiate, parassitarie o prepotenti, istrioni tragiche o guitte comiche, volgari mime arcisfrontate o ipocrite perbeniste pudibonde, quali le considerano, e spesso le condizionano a essere, i maschi frustrati nell’amore e nel lavoro. Se ci sono nemiche, siamo noi uomini che spesso le rendiamo tali1
Guarda questa finlandese: una donna autentica, una che ti mette addosso la vergogna di essere rozzo e sozzo, egoista, immaturo e ti fa crescere con l’esempio di un comportamento, di uno stile elevato”.
Quindi le dissi: “Elena, oltre all’amore e al rispetto, io per te provo ammirazione poiché tu sei capace di aprirmi ogni giorno nuovi spiragli sull’anima mia. Davvero tu non sei soltanto né soprattutto materia, anche se bella. Prima di tutto sei spirito: mente, cuore, stile sei.
La tua parte materiale è spiritualizzata, mentre lo spirito traspare nelle tue forme, tesoro.
 Ti prego, non andare via, non lasciarmi troppo per tempo, ante diem, amore mio! Da te ho imparato più che dai libri. Quello che tu mi hai insegnato, lo insegnerò. Quod a te didici, docebo”.
Così, con l’amore, le contraccambiai pure il latino.

Rispose con un sorriso di gratitudine e gioia. Qualche giorno più tardi mi rese felice dicendo che mi amava anche perché, quando ne avevo avuto l’occasione e la possibilità, non le avevo fatto del male. Come fa la canaglia di tutte le classi sociali, le caste, le religioni, i partiti.
Così la sera del 4 di agosto del 1971 io le chiesi perdono e facemmo la pace, poi parlammo a lungo e facemmo l’amore nel letto dei nostri colloqui e dei nostri sospiri; quindi tornammo a ballare sulla terrazza sotto il cielo colmo di astri. Eravamo felici. Prima di andare a dormire, ciascuno nel suo edificio del collegio immerso nella grande foresta di Debrecen, passeggiammo in mezzo alle piante strane dell’orto botanico. Notavo con gioia e meraviglia l’originalità della vita in tutto quanto osservavo.
Volevamo stare insieme ancora del tempo, sebbene oramai l’alba cedesse all’aurora.
Elena cantava: “Summertime and the living is easy, fishes are jumping and the cotton is high”, con voce calma e calda; e bruna com’era, vestita della tunica bianca, calzata di sandali neri con fibbia, sembrava un’antica poetessa greca che recita una sua lirica in lode della bella stagione, dell’amore e della vita.  Quella donna, di sensibilità aristocratica, possedeva l’eleganza nella propria memoria. Quella musica e quelle parole mi commuovono ancora quando le sento. Nessun disincanto me le ha fatte obliare. Già sulle prime note sorge il ricordo con Elena, il bosco, i fiori, il cielo, con tutto insomma.
Tutte le cose intorno a noi sembravano prossime a schiudersi per rivelarci chissà quali segreti. Ma compresi che non c’era nessun segreto nella bellezza del cosmo così dispiegata.
“La terra è in mezzo alle stelle che ora si spengono nel bianco rosa del cielo, mentre il tuo volto si illumina”, pensai.
“Il ricordo di te durerà quanto i moti degli astri fulgenti nel cielo, e il nostro amore sarà l’eredità delle nostre vite”, le dissi.

Quel momento, verso le tre del mattino, è stato uno dei più chiari e luminosi di mia vita mortale.
Mentre la donna, rischiarandosi alle rosee carezze di quell’aurora lontana, 
celebrava l’estate e la nostra felicità con limpido canto, la luce crescendo e propagandosi ovunque, mostrava la bellezza ordinata dell’esistenza terrena e io me la sentivo fluire dentro, nei polmoni e nel sangue pulsato dal cuore pieno di gioia. Avvertivo il richiamo dell’arte che è fusione di bellezza, bontà e verità.  
Tutte le piante, i fiori e le erbe dell’orto botanico si vivacizzavano: i campanellini dell’Heuchera sanguinea trillavano di felicità, la Campanula carpatica brillava di luce azzurra, e la Tunica saxifraga dal carneo colore danzava nella brezza mattutina al canto della donna innamorata.
Sentivo l’ordine del cosmo e sapevo che il nostro amore ne faceva parte, contribuiva a formarlo. Respiravo con il mondo: ero entrato in quella unità, secondo natura, della mia persona con l’universo. Credo che sia questa la quintessenza della felicità.
“L’amore è la vita, l’amore è Dio”, pensai. “Un dio tanto umano da rendere divine le sue creature più buone e più belle, più simili a lui.”
Ancora oggi, dopo quasi mezzo secolo, se per caso sento una voce femminile cantare quell’aria di Gershwin, rivedo l’estate di Debrecen con il grande bosco di alberi sacri, le querce dodonee che accarezzano le stelle del cielo, rivedo i salici che, piegati sul lago, vellicano le schiene purpuree dei pesci, rivedo le farfalle variopinte che danzano liete, quindi riappare la vegetazione strana dell’orto botanico e infine completa il quadro le membra di un bianco luminoso, i neri capelli, il volto dolce e intelligente, lo sguardo bello e buono di Helena Sarjantola che quell’estate remota, con parole piene di significato, con lo sguardo espressivo e penetrante, con la figura ben modellata da quel sommo artista che è Dio, mi mostrò l’idea eterna della bellezza corporea armonizzata con la nobiltà dello spirito.
Ora tutto quanto vidi durante quella passeggiata remota è scomparso dal mondo, ma rimane dentro di me ancora osservato dalla mente e dal cuore con gioia e gratitudine verso la vita che mi ha donato quale regalo eterno, questo bene per sempre.  

Domenica 22 agosto 1971, quando partì dalla Keleti Pályaudvar, la stazione orientale di Budapest, lasciandomi l’immortale memoria di sé, prima di salire sul treno celeste chiaro, come i laghi e il cielo un poco sbiaditi della sua terra, Elena mi ringraziò di non essere stato cattivo, né volgare, né stupido con lei. Le promisi che non lo sarei stato mai più con nessuno, poiché durante quel mese passato con lei mi ero sentito bene, ero stato, finalmente, me stesso. Le ripetei le parole dette da Odisseo a Nausicaa al momento del congedo: tu di fatto mi hai salvato la vita, ragazza2.
Non ho sofferto per la sua sparizione, forse perché il desiderio ardente di quella donna, più che brama carnale del suo corpo era un bisogno struggente di identità da definire e completare grazie a lei.
Quel 22 agosto Elena aveva già compiuto la sua funzione “storica”.
 Dopo la partenza del treno non l’ho più vista mai più, nemmeno quando, nel settembre del 1974 andai a Yväskylä a trovare Päivi che aspettava una bambina da me. Eppure l’ho sempre pensata come la creatura preziosa che, contraccambiando il mio amore, per prima mi ha insegnato ad amare la vita, a credere nel Bello e nel Bene, ad avere fiducia in me stesso, a diventare quello che sono, qualunque piccola, poca e povera cosa io sia.
Comunque corrispondente alle mie aspirazioni commisurate alle mie qualità.
Nei momenti più tristi e desolati di questa mia vita terrena, quando altre persone mi hanno deluso o tradito, da Päivi che dopo l’ultimo incontro in un letto di infelicità non mi mandava notizie, a Ifigenia che la notte atroce del pozzo di Vernicino, volle gettarsi nell’abisso anche lei, sempre mi sono rifugiato nel ricordo della notte felice in cui Helena mi insegnò ad aborrire dall’ingiustizia; poi, mentre il sole spuntava sul giardino di quel paradiso e versava le prime luci della sua bellezza inesausta, lei con angelica voce cantava un peana colmo di gratitudine alla vita bella, serena, meritevole di riconoscenza al Creatore, degna di essere vissuta in pieno, con gioia.
Mi aveva insegnato a non averne paura3.
 Apollo accompagnava quel canto suonando la cetra.
E se dopo questa mirabile vita terrena, potremo viverne un’altra in mezzo alle stelle del cielo, o se4 avremo una seconda possibilità qui, su questa bella terra illuminata dal sole, io spero di incontrarti ancora, Elena, amore mio, e di amarti di nuovo.



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1. Cfr. Seneca, non habemus illos hostes sed facimus (Lettere a Lucilio, 47, 5), non abbiamo quelli (gli schiavi) quali nemici, ma li rendiamo tali.
2. Odissea, VIII, 468 Suv ga;r  m j ejbiwvsao, kouvrh,
3. Come ha raccomandato di recente papa Francesco: "non abbiate paura della gioia!". Parole sante.
 Le aveva già scritte Strabone il quale nella sua Geografia- redatta nei primi anni del regno redatta nei primi anni del regno di Tiberio- afferma che gli uomini imitano benissimo gli dèi quando fanno del bene ma, si potrebbe dire anche meglio, quando sono felici, (a[meinon d& a[n levgoi ti", oJvtan eujdaimonw'si, X, 3, 9) .
4. Non sono d’accordo con gli estremisti del laicismo i quali che escludono questo “se” cruciale. La penso come il buffone di corte Touchstone, “Pietra di paragone”, che nella commedia pastorale As you like it di Shakespeare sentenzia: " 'If' is the only peace-maker: much virtue in 'If' " (V, 4) , "Se" è l'unico paciere: c'è molta virtù nel "Se".

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