venerdì 15 marzo 2019

L’approccio comparativo alle letterature antiche. Parte 3


Pindaro
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L’approccio comparativo alle letterature antiche. Parte 3

Percorso della conferenza che tenuta il 26 gennaio 2019 per la Valent Academy centro studi internazionali di Milano con la partecipazione di studenti e professori del liceo Manzoni

L’approccio comparativo alle letterature antiche

Introduzione alla metodologia dell’insegnamento delle lingue e letterature greca e latina con taglio europeo e topologico



Platone ha scritto che tutta la natura è imparentata con se stessa (th'" fuvsew" aJpavsh" suggenou'" ou[sh", Menone, 81d).
Ebbene, anche tutta la letteratura europea è imparentata con se stessa.
Io intendo e impiego i topoi come idee, frasi, versi belli e pieni di forza, tanto estetica quanto etica, comunque una forza rivelatrice.
Per esempio “tw'/ pavqei mavqo"” (Eschilo, Agamennone, 177) o anche "filokalou'mevn te ga; r met j eujteleiva" kai; filosofou'men a[neu malakiva"" (Tucidide, Storie, II, 40, 1) in effetti amiamo il bello con semplicità e amiamo la cultura senza mollezza, o pure “gevnoio oi|o~ ejssiv” (Pindaro, Pitica II,  v. 72), diventa quello che sei.
I classici insegnano la semplicità: nelle Fenicie[1] di Euripide, Polinice afferma la parentela della semplicità con la giustizia e con la verità: "aJplou'" oJ mu'qo" th'" ajlhqeiva"[2] e[fu, - kouj poikivlwn dei' ta[ndic  eJrmhneuavtwn" (vv. 469 - 470), il discorso della verità è semplice, e quanto è conforme a giustizia non ha bisogno di interpretazioni ricamate. Invece l'a[diko" lovgo", il discorso ingiusto, siccome è malato dentro, ha bisogno di rimedi artificiosi: "nosw'n ejn auJtw'/ farmavkwn dei'tai sofw'n" (v. 472).

Gli ottimi autori europei insegnano ad aborrire l’affettazione che è l’opposto della semplicità della naturalezza, dell’autenticità e della stima di se stesso: “l’affettazione è la peste d’ogni bellezza e d’ogni bontà, perciò appunto che la prima e più necessaria dote sì dello scrivere, come di tutti gli atti della vita umana, è la naturalezza”, scrive Leopardi (Zibaldone, 705).
La semplicità estremizzata diventa sprezzatura: la sui neglegentia del Petronio di Tacito (Annales, XVI, 18).
Tale noncuranza non esclude del resto l’artificio come nel caso di Sofronia della Gerusalemme liberata, "La vergine tra 'l vulgo uscì soletta, /non coprì sue bellezze, e non l'espose, /raccolse gli occhi, andò nel vel ristretta, /con ischive maniere e generose. /Non sai ben dir s'adorna o se negletta, se caso od arte il bel volto compose. /Di natura, d'Amor, de' cieli amici/le negligenze sue sono artifici" (II, 18).
Un correlativo stilistico letterario della neglegentia è l'ajmevleia che l'Anonimo Sul sublime attribuisce a Omero e ad altri grandi della letteratura come Sofocle, Pindaro, Demostene e Platone. L'autore annovera Omero tra i grandissimi nei quali egli stesso ha rilevato non pochi difetti ("oujk ojlivga... aJmarthvmata") i quali però non sono errori volontari ma piuttosto sviste dovute a casuale noncuranza ("paroravmata di jajmevleian eijkh'/") e prodotte distrattamente dalla stessa grandezza dell’autore. Le nature eccellenti non sono senza difetti. Apollonio e Teocrito sono senza mende. Ma non preferiresti - domanda retoricamente l’Anonimo - essere Omero piuttosto che Apollonio? Anche Sofocle ha qualche caduta di tono poetico, ma nessuno con un poco di senno scambierebbe il solo Edipo re con tutti i drammi di Ione di Chio (33).

La semplicità come abbiamo visto nel citare Tucidide, comprende la bellezza che tocca la sfera emotiva; i ragazzi provano interesse e gioia nel sentire parole belle e vere, insomma parole che sono tasselli di opere d’arte: "l'arte è il fatto più reale, la più austera scuola di vita, e il vero Giudizio finale"[3].
Perfino i criminali provano gioia e meraviglia per le parole belle, finanche gli animali, perfino i morti e le creature infernali se pensiamo a Orfeo.
Erodoto racconta di un grandissimo prodigio (qw`ma mevgiston Storie I, 23) capitato ad Arione, il primo fra gli uomini che compose un ditirambo, gli diede il nome e lo fece rappresentare a Corinto, al tempo del tiranno Periandro (inizio VI sec. a.C.).
Questo poeta dunque viaggiava su una nave corinzia per tornare da Taranto a Corinto. Ma i marinai in alto mare complottarono per gettarlo in acqua e prendersi le sue ricchezze. Arione li pregò di non ammazzarlo almeno, ma quei farabutti gli concessero soltanto di uccidersi da solo, saltando in mare se voleva.
Allora Arione chiese di poter cantare stando in piedi tra i banchi della nave  jen th`/ skeuh`/ pasvh/, con tutta la sua acconciatura, promettendo che dopo il canto si sarebbe ucciso.
Allora quelli si sentirono invadere da senso di gioia (kai; toi'si ejselqei'n hJdonhvn[4]) al pensiero che stavano per udire il migliore di tutti i cantori, e si ritirarono, dalla prua, verso il centro della nave. Arione, indossato tutto il suo abbigliamento, ritto tra i banchi, eseguì il canto nel tono elevato (novmon to; n o[rqion), quindi si gettò in mare, vestito com’era. A questo punto intervenne un delfino che, evidentemente affascinato anch’esso dal canto del poeta, lo prese sopra di sé e lo portò fino a capo Tenaro (to; n delfi`na levgousi uJpolabovnta ejxenei`kai ejpi; Taivnaron).
Orfeo con il suo canto riusciva a commuovere addirittura le tenui ombre dei morti e le loro dimore, le Eumenidi, e Cerbero, e a fermare la ruota di Issione[5].
Tale è l’incanto delle parole, in questi casi accompagnate dalla musica, ma non dimentichiamo che la civiltà dei Greci e dei Latini è logocentrica e, nel rapporto tra parola e musica, questa è ancilla verbi.
Quindi, tornando a noi, credo che ricordare le sentenze belle degli auctores, e citarne brani delle opere mostrandone la carne viva, significhi imparare a esprimersi non senza bellezza e, quindi, trovare e riconoscere qualche cosa di bello in noi stessi.

Questo per quanto riguarda il campo dell’efficacia e della bellezza, della prassi e dell’estetica.
Ma c’è pure, e forse anche prima dell’estetica, la categoria dell’etica. Si pensi alla crasi kalokajgaqiva.
Quello dei Greci “intendentissimi del bello”[6], era: “un popolo che, eziandio nella lingua, faceva pochissima differenza dal buono al bello” (Leopardi, Operette morali, Detti memorabili di Filippo Ottonieri). Per questo la bruttezza di Socrate gli era di non piccolo pregiudizio in un popolo che per giunta “era deditissimo a motteggiare”.
Sicché Socrate “impedito di aver parte, per dir così, nella vita (…) si pose per ozio a ragionare sottilmente (…) nel che gli venne usata una certa ironia, un’ironia che “non fu sdegnosa e acerba, ma riposata e dolce”. Socrate parlava con le persone giovani e belle “più volentieri che cogli altri” poiché da questi avrebbe voluto essere amato. L’Ottonieri concludeva che “l’origine di quasi tutta la filosofia greca, dalla quale nacque la moderna, fu il naso rincagnato, e il viso da satiro, di un uomo eccellente d’ingegno e ardentissimo di cuore”.
Dunque Socrate, come Ulisse. “non formosus erat, et tamen…”

Non si può essere nemmeno morali se non si conoscono a fondo i princìpi e i valori dell’etica classica.
Questa non penalizza la felicità, che anzi deve essere associata alla moralità. Fare bene e stare bene, avere successo, come si sa, coincidono (eu\, kalw'" pravttein).
Essere felici secondo Strabone è un atto di pietas: "gli uomini imitano benissimo gli dei quando fanno del bene (o{tan eujergetw'sin), ma si potrebbe dire ancor meglio quando sono felici (o{tan eujdaimonw'si)"[7].
C’è una interdipendenza tra etica e felicità: "sostengo che non vi è profonda felicità senza morale profonda"[8].

Nella seconda commedia della trilogia pirandelliana del teatro nel teatro, Ciascuno a suo modo, l'attrice Delia Moreno afferma: "Sapete che cosa significa "amare l'umanità"? Soltanto questo: "essere contenti di noi stessi"[9]. Quando uno è contento di se stesso "ama l'umanità"[10].

Questo mio lavoro ha una conclusione etica per la quale mi affido ad alcune citazioni che convalidano quanto ho sempre pensato della mia deontologia professionale e di educatore: "Ogni altra scienza è dannosa a colui che non ha la scienza della bontà. (…) Il profitto del nostro studio.
Questa affermazione risale a Platone:

SW . J Ora'/" ou\n, o{te g j e[fhn kinduneuvein to; ge tw'n a[llwn ejpisthmw'n kth'ma , eja;n ti" a[neu th'" beltivstou ejpisthvmh" kekthmevno" h\/, ojligavki" me;n wjfelei'n, blavptein de; ta; pleivw to;n e[conta aujtov, a\r j oujci; tw'/ o[nti ejfainovmhn levgwn;
vedi dunque, dice Socrate ad Alcibiade, quando dicevo che il possesso delle altre scienze se uno non possiede la scienza di quanto è ottimo (l'idea del Bene), di rado giova, mentre per lo più danneggia chi ce l'ha, non ti sembra che io parlavo dicendo quanto è sostanzialmente corretto? 

Alcibiade dà ragione a Socrate il quale aggiunge:

oj de; th;n kaloumevnhn polumaqivan te kai; plolutecnivan kekthmevno", orfano;" de; w]n tauvth" th'" ejpisthvmh", ajgovmeno" de; uJpo; mia'" ejkavsth" tw'n a[llwn, a\r j oujci; tw'/ o[nti dikaivw" pollw'/ ceimw'ni crhvsetai, a{te oi\mai a[neu kubernhvtou diatelw'n ejn pelavgei, crovnon ouj makro;n bivou qew'n; w{ste suvmbaivnein moi dokei' kai; ejntau'qa to; tou' poihtou', o} levgei kathgorw'n pouv tino", wJ" a[ra polla; me;n hjpivstato e[rga, kakw'" dev mfhsivn, hjpivstato pavnta (Alcibiade II 147b)
e chi possiede la cosiddetta conoscenza enciclopedica e politecnica , ma sia privo di questa scienza (del Bene), e venga spinto da ciascuna delle altre, non farà uso sostanzialmente di una grande tempesta senza un nocchiero, continuando a correre sul mare, non a lungo del resto? Sicché mi sembra che anche qui capiti a proposito quello che dice il poeta criticando uno che effettivamente sapeva molte cose ma le sapeva tutte male.

Bisogna riflettere su queste parole e su queste altre di Nietzsche: “Siamo arrivati al punto che le nostre scuole e i nostri maestri prescindono semplicemente da una educazione morale o si contentano di formalismi: e virtù è una parola sotto la quale maestri e scolari non riescono a pensare a niente, una parola passata di moda, della quale si sorride - e male se non si sorride perché allora si è ipocriti”[11].

Torniamo al “diventa quello che sei” di Pindaro (Pitica, II, 72)
I classici sono necessari o per lo meno utili e funzionali alla conoscenza della propria identità.
Felicità è anche coscienza di sé, realizzazione e compimento della propria natura, identità di potenza e atto. Per ottenere tali risultati e necessario comprendere a fondo che cosa essenzialmente siamo.

Per autorizzare questa mia convinzione, utilizzo Eraclito che scrive: “ho indagato me stesso”[12], e pure Sofocle i cui personaggi affrontano ogni difficolta e qualunque rischio per sapere chi sono, quindi per non smentire la propria identità. Il “conosci te stesso”[13] scritto sul tempio di Delfi e il “diventa quello che sei” di Pindaro[14] esprimono il medesimo pensiero di carattere apollineo.
Oggi, in questo guazzabuglio di idiomi mal conosciuti e parlati male, si rischia di perdere l’identità, umana, linguistica e culturale, di non sapere più parlare bene nemmeno una sola lingua, e, quello che è peggio, di non sapere più chi siamo.
“L’uomo moderno soffre di una personalità indebolita. Come il romano dell’epoca imperiale abbandonò la sua romanità (…) come egli perdette se stesso sotto l’irrompere delle cose straniere e degenerò in mezzo al cosmopolitico carnevale di dèi, costumi e arti; così deve accadere all’uomo moderno”[15].
Le due lingue classiche con le loro letterature, ci danno un ancoraggio doppio e sicuro, al riparo dal fluttuare nella indeterminatezza amorfa o deforme del parlare di uso comune, una chiacchiera, spesso uno sproloquio, che riflette una scarsa aderenza persino alle realtà più evidenti e naturali.
E’ necessario uscire dal pantano fangoso della parola incolore, o addirittura insensata, del luogo comune trito, e pure offensivo, che molti usano per nascondere la verità scomoda, pericolosa, o la propria ignoranza, mentre invece la rivela, e denuncia la pochezza mentale di chi rumina il sentito dire senza sottoporlo a giudizio critico.
Per esempio che l’estate inizi il 21 giugno è una negazione dell’evidenza.
Casomai il 21 giugno è il culmine dell’estate che da quel giorno, almeno come luce, comincia a declinare.
“E’ una beffa! A partire dall’inverno i giorni si allungano, e quando arriva il più lungo, il 21 giugno, ossia l’inizio dell’estate, subito cominciano a calare, si accorciano e si va verso l’inverno… E’ come se un buffone avesse arrangiato le cose in modo tale da far cominciare la primavera all’inizio dell’inverno e l’autunno all’inizio dell’estate”[16].

Autorizzo questa mia conclusione attraverso Seneca: "nulla res nos maioribus malis implicat quam quod ad rumorem componimur", De vita beata, 1, 3, nessuna cosa ci avviluppa in mali maggiori del fatto di regolarci secondo il "si dice".
“Il gregge avverte l’eccezione, tanto al di sopra di sé quanto al di sotto di sé, come qualcosa che ha per esso riflessi ostili e dannosi (…) La diffidenza è rivolta contro le eccezioni; essere eccezione è ritenuto una colpa”[17].
E non solo il gregge: l’imperatore Tiberio secondo Tacito: “ex optimis periculum sibi, a pessimis dedecus publicum metuebat “(Annales, I, 80).


CONTINUA



[1] Composte intorno al 410 a. C.
[2] Seneca cita questo verso traducendolo così: “ut ait ille tragicus ‘veritatis simplex oratio est’, ideoque illam implicari non oportet” (Ep. 49, 12), come dice quel famoso poeta tragico “il linguaggio della verità è semplice”, e perciò non deve essere complicata.
[3] M. Proust, Il tempo ritrovato (uscito postumo nel 1927), p. 211.
[4] I, 24, 5.
[5] Cfr. Virgilio, Georgica IV, vv. 472 - 484
[6] Zibaldone 2546
[7] Strabone (64 ca a. C. - 24 ca d. C.), Geografia, X, 3, 9.
[8] R. Musil, L'uomo senza qualità, p. 846.
[9] Cfr. Seneca ep. 9, 13: Se contentus est sapiens.
[10] L. Pirandello, Ciascuno a suo modo (del 1924), atto I. Le altre due commedie della trilogia sono Sei personaggi in cerca d'autore (del '21) e Questa sera si recita a soggetto (1929).
[11] F. Nietzsche, Considerazioni inattuali III, Schopenhauer come educatore, 2
[12] ejdizhsavmhn ejmewutovn, fr126 Diano
[13] Gnw`qi seautovn.
[14] gevnoio oio| ~ ejssiv, Pitica II v. 72.
[15] Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita (5). Seconda delle Considerazioni inattuali, del 1874
[16]  T. Mann, La montagna incantata, cap. VI
[17] F. Nietzsche, Scelta di frammenti postumi 1887 - 1888, 10 (39)

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