venerdì 22 marzo 2019

L’approccio comparativo alle letterature antiche. Parte 5

Cesare Pavese
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L’approccio comparativo alle letterature antiche. Parte 5

Percorso della conferenza che tenuta il 26 gennaio 2019 per la Valent Academy centro studi internazionali di Milano con la partecipazione di studenti e professori del liceo Manzoni

L’approccio comparativo alle letterature antiche

Introduzione alla metodologia dell’insegnamento delle lingue e letterature greca e latina con taglio europeo e topologico

Necessità della conoscenza della storia
Un grave difetto, un’altra carenza capitale è quella della conoscenza della storia.
L’ignoranza del passato è una limitazione mentale che impedisce di progettare il futuro.
Lo afferma Cicerone nell'Orator[1]: "Nescire autem quid ante quam natus sis acciderit, id est semper esse puerum. Quid enim est aetas hominis, nisi ea memoria rerum veterum cum superiorum aetate contexitur? " (120), del resto non sapere che cosa sia accaduto prima che tu sia nato equivale ad essere sempre un ragazzo. Che cosa è infatti la vita di un uomo, se non la si allaccia con la vita di quelli venuti prima, attraverso la memoria storica?
Restare bambini, dal punto di vista del pensiero, non e cosa buona.
Lo fa notare C. Pavese: "C’è qualcosa di più triste che invecchiare, ed è rimanere bambini"[2].
Leopardi trova che nella sua età prevalgano queste “creature”, giovani e anziane, infantilmente insensate[3]: "Amico mio, questo secolo è un secolo di ragazzi, e i pochissimi uomini che rimangono, si debbono andare a nascondere per vergogna, come quello che camminava diritto in paese di zoppi. E questi buoni ragazzi vogliono fare in ogni cosa quello che negli altri tempi hanno fatto gli uomini, e farlo appunto da ragazzi, senza altre fatiche preparatorie"[4].
Nel Satyricon, il retore Agamennone dice: "Nunc pueri in scholis ludunt, iuvenes ridentur in foro, et quod utroque turpiùs est, quod quisque puer perperam didicit, in senectute confiteri non vult" (4, 4), ora i ragazzi nelle scuole giocano, da giovani adulti vengono derisi nel foro, e quello che è peggio dell'una e dell'altra cosa, è il fatto che quanto ciascuno ha imparato male, nella vecchiaia non vuole ammetterlo.

“Maturità della mente: a questa occorre la storia e la consapevolezza della storia”[5].
La conoscenza della tradizione richiede il senso storico: “the historical sense involves a perception not only of the pastness of the past, but of its presence"[6], il senso storico implica la percezione non solo della passatezza del passato, ma anche della sua presenza.
“Chi è privo di senso storico rischia di confondere l’attuale con l’eterno”[7].
Insomma la topica, o arte dei luoghi, richiede anche la conoscenza della storia.
Il senso storico e quello letterario di T. S. Eliot contribuiscono a una visione d’insieme: "with a feeling that the whole of the literature of Europe from Homer and within it the whole of the literature of his own country has a simultaneous existence and composes a simultaneous order"[8], con la sensazione che tutta la letteratura europea da Omero, e, all'interno di essa, tutta la letteratura del proprio paese, ha un'esistenza simultanea e compone un ordine simultaneo.
La Memoria è madre delle Muse (Esiodo, Teogonia, 53 - 54) e la perdita della Memoria significa anche la rinuncia alla bellezza e alla poesia.
Del resto la poesia è a sua volta madre della storia.
“La storia romana si comincio a scrivere da' poeti", afferma Giambattista Vico[9].

Si dice che oggi la scuola è decaduta rispetto a quella selettiva del buon tempo antico. In parte è vero. Ma, come sempre, c’è un rovescio della medaglia, c’è una possibilità di sostenere il contrario, secondo una logica aperta al contrasto che divenne metodica con i Dissoì lógoi[10] i “Discorsi in contrasto”, presenti nelle Antilogie perdute di Protagora[11] il quale "fu il primo a sostenere che intorno ad ogni argomento ci sono due asserzioni contrapposte tra loro" come ricorda Diogene Laerzio[12].
La logica dei Greci è aperta al contrasto, come si vede in vari testi (p. e. nelle Coefore e nelle Eumenidi[13] di Eschilo o nelle Troiane di Euripide). Questo aspetto sviluppa lo spirito critico.
Con alcune ragioni si può sostenere che la scuola è peggiorata, ma con altre che è diventata migliore.
Il bello della scuola dei miei tempi (sono stato scolaro, prima a Pesaro poi a Bologna, dall’ottobre del 1950 al marzo del 1969) era che lo studente, arrivato alla laurea, trovava il lavoro, subito, o quasi subito, ed era un impiego a tempo indeterminato.
Il brutto di quella scuola era che imponeva uno studio mnemonico, generalmente acritico e dogmatico di alcuni aspetti delle materie, talora nemmeno i più rilevanti.
Il greco e il latino, erano fatti studiare prevalentemente su grammatiche e sintassi, in minima parte sugli autori dei quali si imparavano a memoria le vite e le opere attraverso dei manuali privi anche di brani antologizzati.
La storia veniva fatta studiare quasi solo attraverso le battaglie dei grandi condottieri. Le lingue europee si studiavano poco e male. Una sola lingua e solamente fino alla V ginnasio.
Ora i giovani hanno maggiori opportunità e vie per informarsi.
L'attuale formazione dell'Europa che da una parte porta con sé non pochi sconvolgimenti, dall'altra può indurci a prendere coscienza di appartenere a una civiltà nobile e antica, di sentire "il benessere dell'albero per le sue radici, la felicità di non sapersi totalmente arbitrari e fortuiti, ma di crescere da un passato come eredi, fiori e frutti, e di venire in tal modo scusati, anzi giustificati nella propria esistenza. E' questo ciò che oggi si designa di preferenza come il vero e proprio senso storico"[14].
Togliere il latino e il greco dalla scuola significa, a parer mio, dissanguarla, disanimarla e mortificarla. Vero è che in troppe scuole, da parte di tanti professori, le lingue classiche sono state insegnate male, e chi lo faceva bene, ossia mostrando l'albero ramificato della cultura europea cresciuto sulle radici e il tronco del greco e del latino, è stato magari molto amato e seguito dai ragazzi, ma spesso poco capito e benvoluto, talora anzi addirittura ostacolato da colleghi e da presidi.
Ne scrivo per esperienza diretta. Facevo del comparativismo quando non era ancora di moda: il preside Magnani del liceo Galvani chiamò in tre anni due ispezioni contro di me.
Per fortuna gli ispettori ministeriali, Adelelmo Campana (1984) e Antonio Portolano (1988), erano più aggiornati e preparati di lui e sbugiardarono quel burocrate ottuso, messo su da colleghi poco studiosi e invidiosi. Non ne faccio i nomi perché non sono più su questa terra e riposano, spero in pace.
Questo corsivo si può togliere se non dà lumi.
Il difetto dell'insegnamento tradizionale, quello impartito a noi che frequentavamo i licei nei primi anni Sessanta, era che riduceva la cultura classica a una serie di tecnicismi, la restringeva al significato minimo della grammatica elementare e la snaturava. Non sto dicendo che la morfologia e la sintassi non siano necessarie, ma ho sempre sostenuto che devono essere i primi gradini, non i punti d'arrivo. Comunque le regole devono essere ricavate dai testi e illustrate con molti esempi tratti dalle opere più belle degli autori più bravi.
"Pascoli, invitato a stendere una relazione sulle cause dello scarso rendimento degli alunni agli esami di licenza liceale, così si esprimeva: "Si legge poco, e poco genialmente, soffocando la sentenza dello scrittore sotto la grammatica, la metrica, la linguistica… Anche nei licei, in qualche liceo, per lo meno, la grammatica si stende come un'ombra sui fiori immortali del pensiero antico e li aduggia. Il giovane esce, come può, dal liceo e getta i libri: Virgilio, Orazio, Livio, Tacito! de' quali ogni linea, si può dire, nascondeva un laccio grammaticale e costò uno sforzo e provocò uno sbadiglio"[15].
Contro questo studio sbagliato, "morboso" dei classici si era già schierato Seneca: "Graecorum iste morbus fuit quaerere quam numerum Ulixes remigum habuisset, prior scripta esset Ilias an Odyssia, praeterea an eiusdem essent auctoris, alia deinceps huius notae, quae sive contineas nihil tacitam conscientiam iuvant, sive proferas, non doctior videaris sed molestior (De brevitate vitae, 13, 2), questa fu una malattia dei Greci, cercare quale numero di rematori avesse avuto Ulisse, se sia stata scritta prima l'Iliade o l'Odissea, inoltre se siano del medesimo autore, e successivamente altre notizie di questo tipo, nozioni che se le tieni per te non giovano per niente al puro fatto di saperle, se le tiri fuori, non sembri più dotto ma più pedante.
Unum studium vere liberale est: quod liberum facit” (Ep. 88, 2)
E ancora: "Itane est? annales evolvam omnium gentium et quis primus carmina scripserit quaeram? quantum temporis inter Orphea intersit et Homerum, cum fastos non habeam, computabo? et Aristarchi notas quibus aliena carmina conpunxit recognoscam, et aetetem in syllabis conteram? (…) adeo mihi praeceptum illud salutare excidit: “tempori parce”? Haec sciam? Et quid ignorem?” (Ep., 88, 39) Davvero? dovrò srotolare gli annali di tutti i popoli e indagare su chi abbia scritto versi per primo? calcolerò quanto tempo ci sia tra Orfeo e Omero mentre non ho i documenti? e dovrò esaminare i segni diacritici di Aristarco con cui egli infilzò i versi interpolati e consumerò la vita a contare le sillabe? (...) davvero mi è sfuggito quel sano precetto: risparmia il tempo? Dovrei sapere queste pedanterie? E che cosa ignorare?
Il sapere non è sapienza dicono le Baccanti di Euripide nel I Stasimo "to; sofo;n d jouj sofiva" (Baccanti, v. 395)
Pindaro nell’Olimpica IX denuncia l’odiosa sapienza che consiste nel diffamare gli dèi (tov ge loidorh'sai qeouv" - ejcqra; sofiva, vv. 37 - 38). Più avanti aggiunge che le montagne della sapienza, essendo scoscese (sofivai menv - aijpeinaiv, 107 - 108), comprendono la forza della natura e richiedono grandi energie per scalarle.

La “pedanteria” dei filologi alessandrini, e stata colpita da Luciano con le armi del ridicolo. Nella Storia vera l’autore immagina di avere incontrato Omero che gli aveva detto di essere un Babilonese, di chiamarsi Tigrane e che i versi atetizzati dai filologi erano tutti suoi “kategivgnwskon ou\n tw`n ajmfi; to;n Zhnovdoton kai; jArivstarcon grammatikw`n pollh;n th;n yucrologivan” (20), allora io accusai la grande pedanteria dei filologi Zenodoto e Aristarco.
All’Università diedi due esami di greco, leggendo non pochi versi invero (tutta l’Odissea e sette tragedie di Euripide). Imparai un poco di lingua ma nessun insegnante mi diede una visione d’insieme, non dico della civiltà greca, ma nemmeno della letteratura né della storia. Neanche di un singolo, neppure di Omero né di Euripide, potei ricavare la sinossi da quelle lezioni.
I testi degli ottimi autori greci e latini inducono a pensare e non possono essere ridotti a raccolte di formule o di ricette: “‘Qua leggiamo Omero’ riprese, in tono beffardo, ‘come se l’Odissea fosse un libro di cucina. Due versi all’ora, che vengono sminuzzati e rimasticati parola per parola, fino alla nausea. Ma alla fine di ogni lezione ci dicono: vedete come il poeta ha saputo esprimere questo? Avete potuto intuire il mistero della creazione poetica! Così ci inzuccherano prefissi e aoristi, tanto per farceli ingoiare senza restare strozzati. In questo modo mi rubano tutto Omero’”[16]. Queste parole di Hermann Hesse mi fanno tornare alla mente tanta aria fritta respirata durante le lezioni liceali, mentre quelle ginnasiali, poi quelle universitarie si limitavano ai tecnicismi il più delle volte.
Ora sentiamo lo scholasticus Encolpio: “Nondum iuvenes declamationibus continebantur cum Sophocles aut Euripides invenerunt verba quibus deberent loqui. Nondum umbraticus doctor ingenia deleverat, cum Pindarus novemque lyrici Homericis versibus canere timuerunt” (Satyricon, 2 - 3), non ancora i giovani erano rinchiusi nelle declamazioni, quando Sofocle o Euripide trovarono le parole con cui dovevano parlare.
Un maestro chiuso nell’ombra non aveva ancora distrutto gli ingegni, quando Pindaro e i nove lirici, si peritarono di cantare in versi omerici.


CONTINUA


[1] Del 46 a. C.
[2] Il mestiere di vivere, 24 dicembre 1937.
[3] Al capitolo 58 ricorderemo l'attardato bambino pargoleggiante dell’età d’argento di Esiodo.
[4] Dialogo di Tristano e di un amico (1832). E’ una delle Operette morali delle quali l’autore scrive: "Cosi a scuotere la mia povera patria, e secolo, io mi troverò avere impiegato le armi del ridicolo ne' dialoghi e novelle Lucianee ch'io vo preparando"(Zibaldone, 1394).
[5] T. S. Eliot, Che cos’e un classico? (del 1944) In T. S. Eliot, Opere, p. 965.
[6] T - S. Eliot, Tradition and the Individual TalentIn Il bosco sacro. Saggi sulla poesia e la critica (1920)
[7] Natoli, Parole della filosofia, p. 109.
[8] Tradition and the Individual Talent (del 1919)
[9] La Scienza Nuova Prove filologiche, III.
[10] "Un testo che può definirsi la formulazione "relativistica" del pensiero dei sofisti… Gli "agoni di discorsi" tucididei echeggiano questa problematica, pur a mezzo secolo di distanza dai Dissoi logoi… uno scritto sofistico redatto verso il 450 o al più tardi 440" (S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, 1 pp. 258 ss. ).
[11] Nato nella ionica Abdera intorno al 485 a. C. , all'incirca coetaneo di Euripide dunque.
[12] Vite dei filosofi IX, 51
[13] Coefore 461: " [Arh" [Arei xumbalei', Divka/ Divka, Ares si scontrera con Ares, Diche con Diche. Nelle Eumenidi la visione matriarcale delle Erinni si scontra con quella patriarcale di Apollo e Atena.
[14] F. Nietzsche, Sull'utilità e il danno della storia per la vita, in Considerazioni inattuali II, cap. 3.
[15] A. Giordano Rampioni, Manuale per l’insegnamento del latino nella scuola del 2000, p. 95
[16] H. Hesse, Sotto la ruota, del 1906, p. 90.

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