venerdì 1 marzo 2019

"La mente inquieta. Saggio sull'Umanesimo" di Massimo Cacciari. Parte 2




Massimo Cacciari, La mente inquieta. Saggio sull’Umanesimo (Einaudi, Torino, 2019)
Presenterò l'intero volume l'11 aprile alla Sapienza di Roma (sala Odeion)


Il problema della lingua (pp. 14-28)

Si tratta di “ritrovare una parola potente quanto quella che ancora risuona negli auctores classici”. “E rinascita significa non tanto far risorgere un passato (che mai, appunto, viene sentito o studiato come tale), ma “risvegliare il presente

Lo chiede anche Leopardi nella canzone Ad Angelo Mai: “o scopritor famoso,/segui, risveglia i morti, poi che dormono o vivi” (vv.175-177).

“E’ questo tempo che occorre destare a nuova vita anche attraverso la re-novatio dell’Antico; a questo tempo, al suo dramma, alle sue attese, è necessario dare parola, e una parola potente quanto quella che ancora risuona negli auctores classici” (p. 15).
“L’epoca è ancora come non parlasse, come non fosse dotata del logos necessario ad affrontare il proprio dramma. Questo logos, dunque, è necessario costruire, facendo nostri, interiorizzandoli, i paradigmi e i modelli che individuiamo operanti nei ‘migliori fabbri’, nelle loro arti, in tutto lo spessore etimologico del termine, e che per questo rappresentano il nostro portante passato. I testi in cui esso ha trovato la più degna espressione (dignitas ha anzitutto un timbro etico-politico) sono fondamento imprescindibile del cammino che deve ora essere intrapreso (…) perciò per essi occorre avere ogni cura, nient’affatto servile o ‘superstiziosa’, bensì per commentarli e, oltre ancora, interpretarli” p. 16)

 La renovatio necessaria è quella di ridestare la forza espressiva di parole che rivelino idèe mostrando immagini “Filologia immanente nell’idea di renovatio. Ri-forma che è cammino, progetto, filosofia nuova-e nuova proprio in quanto consapevole che non si dà idea se non nell’espressione linguistica, che l’idea vale in quanto comunicata con passione e precisione in uno, e che l’idea, nella forma linguistica, è anche immagine, partecipa sempre alle dimensioni metaforiche del linguaggio, il che significa, come vedremo, alla sua sostanza poetica” (p. 17).

“Una simile filosofia del linguaggio si annuncia con il De vulgari eloquentia (…) Senza l’enfasi che ritroviamo in certe pagine dell’Umanesimo (la lingua latina ‘come un Dio inviato dal cielo (…) pegno di una divina volontà’ dell’Introduzione alle Elegantiae di Valla!) e senza pregiudizi ‘idealistici’ nei confronti della lingua scritta, letteraria, Dante tuttavia afferma che per forgiare il volgare come un’arma potente è necessario tenere a mente il paradigma fornito dal latino” (p. 19).

Credo che la maggior parte degli auctores successivi abbiano tenuto a mente tale paradigma e non pochi tra gli ottimi autori anche di quello del greco già raccomandato da Orazio quando nell’Ars poetica prescrive: “vos exemplaria Graeca/nocturna versate manu, versate diurna” (vv. 268-269), voi leggete e rileggete i modelli greci, di notte e di giorno.

Per quanto riguarda il latino, ricordo alcune parole di Vittorio Alfieri il quale scrive che “al far tragedie il primo sapere richiesto, si è il forte sentire, il qual non s’impara. Restavami da imparare (e non era certo poco) l’arte di fare agli altri sentire quello che mi parea di sentir io” (…) Bisognava creare una giacitura di parole, un rompere sempre variato di suono, un fraseggiare di brevità e di forza (…) I giambi di Seneca mi convinsero di questa verità, e forse in parte me ne procacciarono i mezzi.”. (Vita. Epoca quarta, Capitolo secondo).

Torniamo a Cacciari e a Dante: “Dante non cerca un altro latino, ma la lingua capace di dar forma alla sua esperienza del tempo, che la ‘eternizzi’ senza smarrirne l’intensità, il pathos. Virgilio è norma di ciò che tale lingua deve essere (…) Due soli, perciò, inseparabili, latino e volgare illustre, come immanenti l’uno all’altro”. La grammatica è indispensabile, per evitare il pericolo del fraintendersi
“Se il nostro dire non assumesse “quaedam inalterabilis idemptitas” (De vulgari, I, 9) quale dialogo pubblico, quale colloquio potrebbe concepirsi? (…) Non si dà colloquio se non alla luce di un volgare che sappia latinamente costruirsi (…) ma quel colloquio è arte. Chi ne è il fabbro? E’ il poeta che battendo e ribattendo sulla propria incudine la lingua matrice ne trae il volgare illostre” (p. 20).

 “Il poeta fonda; il grammatico ordina e interpreta. Straordinario valore attribuito al linguaggio poetico, presupposto della considerazione di ogni sua qualità estetica; primato ontologico, direi, della poesia nella formazione di una comunità linguistica, cioè di una civitas hominis” (p. 21).

Credo che questa riflessione debba venire in mente a quanti insegnano le lingue: dopo il doveroso approccio grammaticale, gli idiomi vanno insegnati attraverso le espressioni sintetiche, belle e potenti dei poeti. La bellezza infatti è memorabile dal momento che colpisce la sfera emotiva e suscita pathos poiché lo contiene; la potenza della parola poetica viene avvertita come potenziamento di chi la conosce, e l’originalià delle parole, insperata atque inopinata verba[1], gli accostamenti attenti (cfr. callida iunctura in Orazio, Ars, 47-48) suscitano quello stupore dal quale secondo Aristotele nasce la filosofia: "dia; ga;r to; qaumavzein oiJ a[nqrwpoi kai; nu'n kai; to; prw'ton h[rxanto filosofei'n". Dallo qaumavzein non nasce solo la filosofia ma anche la poesia e tutta la cultura. Il filovsofo~ infatti è anche filovmuqo~ poiché il mito è composto da elementi che suscitano meraviglia oJ ga;r mu'qo~ suvgkeitai ejk qaumasivwn (Metafisica, 982b).

“Che il linguaggio retorico e poetico disponesse, come suoi mezzi specifici, di metafora e allegoria è costante coscienza di tutta la letteratura romanza”, ma in nessun luogo prima di Dante esse sono chiamate a ‘oltrepassarsi’ per dar voce a un’idea filosofico-teologica, idea che in forma poetica soltanto potrebbe essre espressa” (p. 22) .
 L’autore ricorda “il grande prosimetro di Alano di Lilla[2] Anticlaudianus, opera profondamente connessa alla scuola di Chartres” e i confronti che sono stati fatti con il poema dantesco.
Il paragone tra il viaggio di Dante nell’aldilà e altri itineraria dal genere “non fanno che porre in evidenza l’assoluta novità filosofico teologica dell’allegorismo della Commedia. In Alano l’idea o il significato dell’allegoria risultano perfettamente esprimibili attraverso forme discorsive. Il senso allegorico è trasponibile in ogni suo elemento a un senso letterale e, al più, tropologico-morale. Il problema, con Dante-e che da Dante trapassa alla teologia poetica dell’Umanesimo- si pone invece in questi termini: metafora e allegoria possono far conoscere qualcosa che non potrebbe essere compreso-rappresentato attraverso concetti? In Alano l’allegoria è solo in verbis; palese l’intenzione dell’autore di conferire a un referente un significato diverso da quello comune” (p. 23)

Non molto diversamente è considerata da Aristotele la metafora quando nella Poetica fornisce delle indicazioni sul linguaggio poetico: "Levxew~ de; ajreth; safh' kai; mh; tapeinh;n ei\nai” (1458a, 18 ), pregio del linguaggio è essere chiaro e non pedestre.
Il poeta è libero di variare rispetto all’usuale. Il linguaggio si scosta dall’ordinario quando usa espressioni peregrine: “xeniko;n de; levgw glw'ttan kai; metafora;n kai; ejpevktasin kai; pa'n to; para; to; kuvrion” (1458a, 22 ), con peregrino intendo la glossa, la metafora, allungamento e ogni forma contraria all’usuale. Glossa è la locuzione non comune, quella di cui non tutti fanno uso (1457b, 4). Metafora è il trasferimento del nome da una cosa a un’altra: “metafora; dev ejstin ojnovmato~ ajllotrivou ejpiforav” (1457b, 7).

“Esiste, invece, una forma di allegoria che non stia in verbis o in sermone, e che assuma un valore filosofico-teologico insostituibile? Sappiamo bene come la teologia avesse profondamente elaborato tale problema, anzitutto proprio da parte di quei dottori della Chiesa che saranno tra i più citati e amati dall’umanesimo, da Clemente a Origene. I fatti della historia sono per loro comprensibili soltanto come figure della salvezza. La storia è historia salutis e le sue figure figurae futuri; esse significano, cioè, Christum venturum esse”. (p. 23)

Auerbach fa risalire tale interpretazione figurale a Tertulliano che “Nello scritto Adversus Marcionem, 3, 16, parla di Hosea, figlio di Nun, che da Mosè è chiamato Giosuè (da 4 Mos., 13, 16): “ …et incipit vocari JesusHanc prius dicimus figuram futurorum fuisse” (…)
Si tratta qui della denominazione Giosuè-Gesù, come processo profetico che preannuncia fatti successivi. Come Giosuè, e non Mosè, condusse il popolo d’Israele nella terra promessa della Palestina, così è la grazia di Gesù, e non la legge ebraica, che porta il “secondo popolo” nella terra promessa della beatitudine eterna (…)
Il tipo di interpretazione mirava a vedere nelle persone e nei fatti dell’Antico testamento figure o profezie reali della redenzione del Nuovo”[3]
Auerbach subito dopo precisa che Tertulliano “non vuole affatto intendere l’antico Testamento come mera allegoria; esso ha sempre un senso letterale e reale, e anche là dove c’è una profezia figurale la figura ha una realtà storica pari a quella di ciò che profetizza”.

“I testi di profeti e Sibille (e perché non anche di vati e poeti?) esigono un’intelligenza spirituale, capace di riportarli-riferirli all’Evento che costituisce non solo l’unità delle Scritture, ma il centro che decide la storia umana” (p. 23)
La forma allegorica non è destinata a tacere con la rivelazione del Cristo, e il verbum che descrive un evento reale carico di un significato ancora nascosto, non diviene “per nulla un mero passato, quando si sia giunti all’Ora ultima rappresentata dall’evento dell Croce. Anzi, per un aspetto decisivo, tale forma si rende ancora più necessaria. Necessario è ancora un Sagen, una profetica sagacitas, indispensabile un dire nella forma dell’anagogia, perché tre decisive dimensioni della historia salutis non potrebbero venire altrimenti esposte: la prima concerne gli stessi mysteria dell’inizio, dell’arché, ovvero i bathe tou theou, gli abissi della divinità; la seconda la storia delle origini; “non si metta in dubbio la realtà del Paradiso terrestre”, decreta Agostino in De genesi ad litteram, esso è reale locus hominis (…) la terza riguarda i Novissima. La parousia e il Giorno del Signore possono essere rappresentati solo attraverso figurae futuri, analogamente a come i profeti presagivano l’Evento” (p. 24)

Penso alle Baccanti di Euripide il cui Evento viene presagito da Tiresia, il profeta di Tebe appunto, il quale dice a Penteo, il re di Tebe ostile al nuovo dio e alla religione da lui importata dall’Asia:
“Io dunque e Cadmo, che tu deridi,
ci incoroneremo d’edera e danzeremo,
coppia canuta, ma tuttavia bisogna danzare,
e non combatterò contro un dio persuaso dalle tue parole.                                     
Infatti tu sei matto nel modo più doloroso, e non potresti trovare
rimedio nei filtri, né senza questi sei malato” (vv. 322-327).
 L’evento profetizzato in questa tragedia però è tutt’altro che la crocifissione del Dio figlio di Zeus e di Semele, figlia di Cadmo. I versi nei quali Agave, la madre di Penteo, sbranato dalle Menadi, riconosce e piange lo smembramento del figlio sono probabilmente il modello di quelli pronunciati dalla Madonna per la morte del figlio. Le parti dunque sono ribaltate
Manca la risposta di Cadmo[4]. Dunque c’è una lacuna dopo il v. 1300. “Il retore Apsin, collocabile nel III sec. d. C., ricordava-riferendosi al testo euripideo ancora integro-la reazione di Agave in quest’ultima parte del dramma: “dopo essersi liberata dalla follia e aver riconosciuto il figlio fatto a pezzi, ella si accusa e suscita pietà nel pubblico…prendendo ogni membro nelle sue mani, la madre leva un lamento su ognuno (587-590 Waltz=318-322 Hammer). A tale scena appartenevano presumibilmente il frammento euripideo 847 Kannichr-che doveva essere pronunciato da Agave: “se io non avessi preso tra le mani questo orrore”-nonché le parole ravvisabili in alcuni lacerti papiracei (P. Ant. 24).
Riscontri si rinvengono nel centone del Christus patiens[5] (cfr. in particolare vv. 1256-1257, 1311-1314, 1466-1472), ove il lamento della Madonna sul cadavere del figlio crocifisso riadattava la disperazione di Agave alla scena evangelica della deposizione e della sepoltura: “Chi è questo cadavere che tengo tra le mani? Povera me, come farò a stringerlo al petto e a rendergli i dovuti onori? Come intonerò il lamento?”, “Come abbracciare ad una ad una queste membra, queste carni che io stessa ho nutrito?”, “Su, sistemiamo come si deve la testa, ricomponiamo tutto il corpo, distendiamolo bene, per quanto è possibile. O viso amatissimo, o giovani guance, ecco, copro con questo velo la tua testa, le tue membra grondanti di sangue”.
Molti degli editori ritengono che tali passi, insieme ai frammenti sopra menzionati, dovessero appartenere all’ulteriore e più estesa lacuna riconoscibile dopo il v. 1329 delle Baccanti in cui si produceva anche l’epifania di Dioniso come deus ex machina (gli stessi vv. 1300-1301 venivano trasportati da Wilamowitz dopo il v. 1329). Ma essi appaiono ugualmente plausibili qui[6], tanto più che le successive parole di Cadmo-la lode di Penteo pronunciata “guardando il capo” del nipote (vv. 1310-1311) fanno supporre che il cadavere sia ormai sistemato e che la testa sia stata collocata al suo posto (così Seaford). Ponendo qui la scena della ricomposizione e del lamento-quale climax dell’emozione tragica-si può inoltre ipotizzare che la lacuna dopo il v. 1329 riguardasse essenzialmente la comparsa del dio”[7].
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Torniamo a Cacciari. Anche ora, pur nella certa speranza che i tempi della parousia verranno, “tuttavia tanto l’Inizio come il Fine mai potrebbero essere oggetto di una descrizione obiettiva, di un discorso concettualmente articolato, o riportati a un senso letterale. Essi possono essere conosciuti soltanto nella forma di una magistralis sagacitas allegorico-anagogica[8]” (p. 25)
“Ancora la lettera deve farsi segno della realtà spirituale, di cui altrimenti potremmo soltanto tacere”.
Il linguaggio poetico che sta crescendo nello stesso volgare “può assurgere a una sapientia (a un sapere prossimo davvero al frui) superiore alla scientia teologica. Senza la potenza dell’immagine, che da metafora e allegoria si fa evidenza simbolica, non potrebbero trovare espressione il Primo e l’Ultimo della historia salutis” (p. 25).

Mi viene in mente la historia salutis ricavabile da opere greche che trattano la cosmogonia come per esempio la Teogonia di Esiodo o il Prometeo incatenato: anche da queste opere si vede come “Le profondità di Dio non possono essere pensate, ‘speculate’ diremmo, che attraverso immagini, nell’immagine”. Ovviamente mutato mutando ossia Zeus con Dio, o viceversa

“Da qui si origina la profonda diffidenza dell’Umanesimo nei confronti della teologia scolastica e, insieme, si spiega, il ruolo essenziale che svolgono nel suo pensiero il motivo artistico-poetico e l’interesse per la facoltà immaginativa dell’anima, la quale giace sì, longe a Deo, ma giunge fino a rappresentare le realtà mondane come segni, figure di quella sovra-essenziale” (25).

 Cacciari segnala opere di arti figurative che rappresentano direttamente in immagini la storia sacra e la storia dell’umanità: ut pictura poesis (cfr. Orazio, Ars poetica, 361) e viceversa. Nelle pagine finali del volume si trovano 16 tavole con le riproduzioni di queste pitture e sculture accompagnate ciascuna da un pregevole commento che riferirò.

“Il linguaggio allegorico-simbolico non sarà, per il neoplatonismo fiorentino, che l’espressione dell’inesauribile farsi- prossimi al Bene in sé indicibile, la capacità dell’anima di trasporsi dalla lettera allo Spirito che la vivifica, dal visibile, all’Invisibile. Senza però che in questo trasporsi-superarsi la lettera, il visibile, la loro carne vengano, alla fine, come dimenticati” (26).

Questo secondo me è in gran parte merito della lezione dei Greci: senza la carne mancherebbe l'elemento concreto indispensabile per un conoscitore e amante della cultura greca: "il realismo, in arte, è greco; l'allegorismo è ebraico", ebbe a scrivere Pavese[9].

L’inventio del poeta deve trovare la parola come “segno di ciò che eccede lo stesso esprimibile-rappresentabile (…) La poesia è divina quando la sua parola appare segno dell’Invisibile (…) quando lo illumina-illustra e ne è illuminata. La poetria mystica vedrà nella ‘irrapresentabilità stessa della Luce, la più verace figura futuri. Per Roberto Grossatesta[10] la Luce, che pure è corpo, anzi: “forma corporea prima” (De luce), vale a un tempo anche come la facies del divino a noi rivolta, figura mondana della Gloria” (p. 26).

Che il Sole sia nel visibile quello che è l’idea del Bene nell’intellegibile lo ha scritto Platone e ripetuto Giuliano Augusto

Giuliano, A Helio re, 5
L’Uno e{n che sembra presistente a tutte le cose o il Bene tajgaqovn per usare l’espressione di Platone, è il principio unitario causa di tutto hJ monoeidh;" tw'n o{lwn aijtiva, ed è fonte di bellezza, perfezione, unità, ha originato da sé , quale mediatore al centro tra le cause mediatrici mevson ejk mesw'n intelligenti e demiurgiche, Elio, dio potentissimo in tutto simile a sé- ajnevfhnen ejx eJautou' pavnta o{moion eJautw'/.
Quindi Giuliano cita Platone (Repubblica 508b)
Il Sole è figlio del Bene to;n tou' ajgaqou' e[gkonon, che il Bene generò analogo a se stesso o{n tajgaqo;n ejgevnnhsen ajnavlogon eJautw'/: quello che è il Bene ejn tw'/ nohtw'/ nell’intellegibile, è il Sole ejn tw'/ oJratw'/, nel
 Visibile.
6 La sua luce nel visibile -to; fw'" pro;" to; oJratovn- è analoga alla verità nell’intelligibile pro;" to; nohto;n ajlhvqeia.
 Il Sole dunque è figlio dell’Idea che è il primo e massimo bene e fornisce agli dèi intelligenti toi'" noeroi'" qeoi'" quanto il bene produce per gli dèi intelligibili toi'" nohtoi'".

Si può pensare anche a Francesco d’Assisi
nel Cantico delle creature il santo celebra fra tutte le creature di Dio " spetialmente messor lo frate sole/lo quale è iorno, et allumini noi per lui./E ellu è , bellu e radiante cum grande splendore: de Te, Altissimo, porta significatione".
Questa riconoscenza per il sole interpretato quale Dio, o quale immagine visibile di Dio, come si vede, percorre vari momenti della letteratura europea.
Nella Commedia di Dante il sole è il “pianeta/che mena dritto altrui per ogni calle” (Inferno, I, 17, 18). La luce del sole dunque è il simbolo della grazia divina e guida verso la salvezza; infatti la lupa simbolo dell’avarizia risospingeva Dante “là dove il sol tace” (v. 61).
Nel Purgatorio torna tale identificazione del sole con la grazia divina in questa preghiera di Virgilio:
" O dolce lume a cui fidanza[11] i’ entro
Per lo novo cammin, tu ne conduci,
-dicea-, come condur si vuol quinc’entro
Tu scaldi il mondo, tu sovr'esso luci:
s'altra ragione in contrario non pronta,
essere dien sempre li tuoi raggi duci"(Purgatorio , XIII, 19-21).

La preziosa parte iconografica del libro di Cacciari riporta un “Francesco, pittura murale, prima del 1224. Subiaco, Sacro Speco”.
Il commento dice: “Forse nessuna successiva immagine come questa prima è ritratto di Francesco più spiritualmente autentico e più prossimo al significato del sermo humilis. Da qui nasce il realismo della figura, santità che si incarna fino alla Croce, secondo un cammino complementare e opposto a quello di Bisanzio, dove la croce ‘sublima’ il Christus patiens, ne contempla la carne solo sub specie resurrectionis. Confronto epocale e in tutti i sensi decisivo tra due mistiche e due visioni del mondo” (tavola 2)

La Luce “nella poesia divina, nell’anima poietico-immaginativa, che sarà continuamente esaltata dall’Umanesimo fino alla Lalde del Sole di Leonardo, è irradiante-illuminante, rivelativa, dona il proprio stesso valore alle figure, ai corpi, all’ombra stessa. La poesia divina dipinge – e la sua pittura costituisce l’unico ponte all’anima concesso tra l’ora attuale e l’eschaton, tra il reale sensibile e il Realissimum spirituale” (27)
La teologia scolastica considerava la poesia tutta cognitio minor e “le opere dei poeti pagani integumenta mendaci, sotto il cui velo nessuna verità si nasconde”
Ma c’è un altro punto di vista di straordinaria novità senza il quale “mai la ‘rinascita dell’Antico’ e gli studia humanitatis avrebbero potuto assumere tra Dante e l’Umanesimo l’importanza spirituale complessiva che ne segnò lo sviluppo, e che sarà determinante per la cultura moderna europea.
Sulla scia di autori come Macrobio e Marziano Capella, già i grandi di Chartres, avevano imparato a leggere gli stessi classici pagani come autori che “inserviunt veritati” (Giovanni di Salisbury, Policraticus, III, 6)” p.28

Notissimo è un aforisma che Giovanni di Salisbury (XII secolo) attribuisce a Bernardo di Chartres[12]:"Dicebat Bernardus Carnotensis nos esse quasi nanos gigantum humeris insidentes, ut possimus plura eis et remotiora videre, non utique proprii visus acumine, aut eminentia corporis, sed quia in altum subvehimur et extollimur magnitudine gigantea" (Metalogicon III, 4), diceva Bernardo di Chartres che noi siamo come dei nani che stanno sulle spalle di giganti, in modo tale che possiamo vedere più cose di loro e più lontane, comunque sia non per l'acume della nostra vista o la statura del corpo ma poiché siamo portati in alto ed elevati da quella grandezza gigantesca.

 “Il vero grammatico è colui che sa scoprire nei loro testi filosofiche verità, l’interprete-ermeneuta che penetra sagacenente gli involucra o integumenta (…) che quelle verità nascondono o, meglio, ri-velano (…) Anche il paganesimo conosce una mystica poetria, afferma Scoto Eriugena[13], capace di profetizzare intorno allo stesso futuro su cui profetizza l’auctoritas biblica. Profezia inconsapevole, ma reale.

A questo proposito posso ricordare quanto dice Stazio a Virgilio nella V cornice del Purgatorio di Dante: “Ed elli a lui: “Tu prima m’inviasti/verso Parnaso a ber nelle sue grotte,/e prima appresso Dio m’alluminasti./Facesti come quei che va di notte,/che porta il lume dietro e sé non giova, ma dopo lui fa le persone dotte, /quando dicesti: ‘Secol si rinnova;/torna giustizia e primo tempo umano,/e progenie scende da ciel nova’[14]/Per te poeta fui, per te cristiano” (XXII, 67-72).

“Conseguenza difficilmente evitabile: il Signore comunica il proprio spirito sia al profeta di Israele che al vate greco o romano; si tratta, al più, di intensità diversa, di diversi gradi, ma un unico filo, non spezzabile, unisce le diverse figure, un’unica corda intreccia i loro cuori. A un tale presupposto ermeneutico, teologicamente paradossale, si collegherà l’idea umanistica della prisca theologia e della catena aurea che collega sapienza pagana e Rivelazione. Già Fulgenzio[15] interpretava Virgilio come profeta dello stesso Evento, e non solo come il ‘filosofo’ dell’umana vita e delle umane virtù. Abelardo, il più ‘laico’ dei sommi del XII secolo, lo affermerà esplicitamente: i poeti hanno presagito il Cristo al pari dei profeti e delle Sibille (Theologia Scholarium, I, 128). Lo Spirito ha parlato in tutti loro. Lo Spirito che soffia dove vuole può esprimersi anche nel poeta pagano”. (p. 28)

Io sento tale soffio particolarmene nell’Edipo re di Sofocle.
 In questa tragedia Edipo e Giocasta[16] sono rappresentanti di quel pensiero laico-sofistico cui Sofocle si oppone con tutta la sua produzione poetica, e più che mai con questa dramma dove il coro, portavoce dell'autore, durante il secondo stasimo, domanda:"Se infatti tali azioni sono onorate,/perché devo eseguire la danza sacra?"( eij ga;r aiJ toiaivde pravxei" tivmiai-tiv dei' me coreuvein; vv.895-896). Se gli oracoli vanno in malora e Apollo è dimenticato, tutti gli dei tramontano (v.910); allora la stessa rappresentazione tragica, che fa parte della liturgia religiosa, perde ogni significato e diviene assurda.

Concludo questo secondo capitolo di La mente inquieta.
“Il mosaico pavimentale del duomo di Siena (tav. 3) affonda le sue ragioni in questa lunga storia. Dante stesso ne è parte e ne esprime l’idea con la potenza insuperabile del suo immaginare e rappresentare”. (p. 28)
Questo mosaico riprodotto nella tavola 3 è un intarsio marmoreo attribuito a Giovanni di Stefano e risale al 1488. Vi si vede Ermete Trismegisto che tramette i libri del sapere a Oriente e Occidente:
“Incomparabile documento di quell’idea di accordo tra pia philosophia e docta religio propria del platonismo ficiniano (…) le scritte che lo accompagnano-tratte da uno degli scritti del Corpus Hermeticum, il Primander, venivano interpretate come profezia della venuta del Verbo: “il Logos luminoso proveniente dal Nous è figlio di Dio (…) Essi non sono separati l’uno dall’altro; la vita, infatti, è l’unione di questi due”. Giunge così alla sua ultima stazione, alla vigilia della catastrofe di fine secolo, un cammino che aveva attraversato anche il Medioevo, alla ricerca del ‘passaggio’ tra sapienza pagana e Rivelazione. Gli scritti ermetici sembravano possederne la chiave, o collocarsi, come appunto avviene a Siena, sulla soglia che introduce alla Casa della salvezza”.

1 marzo 2019 giovanni ghiselli


[1] Frontone (100-166) suggerisce l’impiego di parole significantia piene di significato cioè gli insperata atque inopinata verba, le parole “insperate” e “impensate” che contraddicono l’opinione di chi ci ascolta o ci legge (4, 3, 3, praeter spem atque opinionem audientium aut legentium)
[2] 1125-1202.
[3] Erich Auuerbach , Studi su Dante, antologia della Feltrinelli 1974, p. 187
[4] Alla domanda di Agave “e’ stato ricomposto per bene? (v. 1300) chiede Agave a Cadmo nella traduzione di Susanetti, ndr.
[5] CHRISTUS PATIENS (Χριστς πsχων. - Con questo titolo datogli dal primo editore si designa un dramma sulla passione di Cristo conservato in numerosi codici, di cui nessuno anteriore al sec. XIII, sotto il nome di S. Gregorio Nazianzeno. L'attribuzione è falsa, perché il dramma è compilazione bizantina del sec. XI-XII. L'ignoto autore ha composto un centone di 2640 trimetri giambici, di cui un buon terzo è riportato alla lettera o con adattamenti dai tragici greci, specialmente da Euripide. La materia è fornita oltre che dai libri sacri, dagli apocrifi. Un breve prologo indica lo scopo: narrare alla maniera di Euripide la passione del Redentore. La parte principale è sostenuta non da Cristo, ma dalla Madonna, che si effonde in lunghi lamenti. Non sono osservate le tre unità aristoteliche. In realtà si tratta di un componimento letterario a scopo di lettura edificante, il quale per il contenuto e più ancora per il materiale classico incastratovi ha grandemente interessato i teologi e i filologi
[6] Dopo il v. 1300 “
[7] D. Susanetti, Euripide, Baccanti, Carocci, pp. 277-278
[8] ajnagwgikov", mistico, che eleva 
[9]Il mestiere di vivere, 29 settembre 1946.
[10] Robèrto Grossatesta. - Filosofo inglese (Stradbrook, Suffolk, 1175 - Lincoln 1253). Fautore di un ritorno al platonismo agostiniano, risulta centrale nella sua fisica e metafisica la dottrina della luce e il concetto di illuminazione da essa derivato, che applicò alla conoscenza. Fondamentali (anche per i suoi influssi sulla successiva filosofia di Oxford) il suo interesse per i fenomeni naturali, l'importanza attribuita alla matematica e all'ottica, la teorizzazione di quello che verrà chiamato 'principio d'economia' (la natura opera nel modo più breve e ordinato possibile). 
[11] Cfr. Solem quis dicere falsum/audeat? " Georgica I, 463
[12] Filosofo scolastico francese morto nel 1130. Scrisse un’opera su Porfirio.
[13]Istituto dell'Enciclopedia Italiana Treccani, Enciclopedia Dantesca (1970): Scoto Eriugena, Giovanni. - Filosofo del sec. IX, mai citato da D.; si preferiscono attualmente i nomi di Giovanni Eriugena, o di Giovanni Scoto, in quanto nel sec. IX Eriugena e Scotus significavano la stessa cosa, cioè " irlandese ". Nato infatti in Irlanda nel primo quarto del secolo, giunge sul continente fra l'845 e l'847 circa, provvisto di una formazione culturale che la critica più recente - respingendo il mito di una grande, misteriosa cultura irlandese precarolingia - ritiene non superiore a quella di un qualsiasi chierico del regno franco. Stabilitosi alla corte di Carlo il Calvo, deve aver presto raggiunto una certa notorietà, se fra l'850 e l'851 è invitato da Incmaro di Reims a intervenire nella controversia sulla predestinazione, suscitata da Gotescalco di Orbais. Con l'opera scritta per l'occasione, il De Praedestinatione, l'Eriugena risponde ai problemi della cultura del suo tempo con un linguaggio nuovo, un'esigenza, ignota ai contemporanei, di coerenza sistematica nell'interpretazione delle fonti patristiche e dei testi scritturali, con un'abilità nell'uso della dialettica che susciterà ben presto reazioni scandalizzate. Alle arti liberali, insegnate forse alla scuola palatina, è dedicato soprattutto il suo commentario (scritto fra l'859 e l'860) al De Nuptiis Mercuri et Philologiae di Marziano Capella, che contribuirà, unitamente ad altri commenti (celebre quello di Remigio d'Auxerre), ad assicurare la fortuna del De Nuptiis. L'incontro con la cultura bizantina costituisce un momento determinante per lo sviluppo del pensiero eriugeniano, che da essa deriva gli schemi di un rigoroso neoplatonismo, nel cui ambito diverrà possibile riordinare sistematicamente, in una nuova sintesi dottrinale, i dati di una vasta tradizione patristica, le apparenti incongruenze e contraddizioni dello stesso linguaggio scritturale, così vario e spesso così concreto nella creazione dei simboli o nella stretta aderenza a una narrazione storica.
[14] Cfr. Bucolica IV, 5-7: “magnus ab integro saeclorum nascitur ordo./Iam redit et Virgo, redeunt Saturnia regna;/iam nova progenies caelo demittitur alto
[15] FULGENZIO (Claudius Gordianus Fulgentius) di Ruspe, Santo. - Nato a Telepta, nella Bizacene (Africa), verso la fine del sec. V, dovette ricevere dalla sua famiglia una buona educazione: apprese il greco e fu procuratore nella sua città natale. Preso dal desiderio di ritirarsi a vita eremitica, passò in Sicilia, poi fu a Roma, donde tornò nuovamente in patria. Monaco e chierico, fu eletto vescovo di Ruspe (Bizacene) e venne presto in contrasto col re vandalo Trasamondo. Esiliato in Sardegna, con altri vescovi africani, fu richiamato nel 515, di nuovo esiliato nel 520 e definitivamente richiamato dal successore di Trasamondo, Ilderico, nel 523. Morì il 1° gennaio, probabilmente del 532. Nelle sue opere giunte fino a noi (Patrol. Lat., XLV, col. 151 segg.) si rivela in genere buono stilista, ma teologo poco originale. I suoi scritti (brevi trattati, come Contra Arianos, De Trinitate, De veritate praedestinationis et gratiae Dei, De remissione peccatorum, De incarnatione filii Dei e altri; epistole e sermoni) mostrano al più come egli avesse perfettamente assimilata la teologia e la morale agostiniana. In armonia con questa, combatte il semipelagianesimo di Fausto di Riez (v.) e, soprattutto, l'arianesimo imposto in Africa dai Vandali invasori. Alcuni filologi hanno creduto di poter identificare in F. l'autore di un corpus di scritti correnti sotto il nome di Fabius Planciades Fulgentius, o Fabius Claudius Gordianus Fulgentius e consistenti (vedine l'ediz. di R. Helm, Lipsia 1898) in un trattato mitologico (Mythologiarum libri tres), in un'interpretazione allegorico-moralistica dell'Eneide (Expositio Virgilianae continentiae), una cronaca in prosa artificiosa dalla creazione del mondo a tutta la storia romana (De aetatibus mundi et hominis) e una spiegazione di un gruppo di glosse (Expositio sermonum antiquorum). Ma mentre per considerazioni storiche e stilistiche si può assegnare a queste operette un unico autore, nonostante le discrepanze formali del nome, l'identificazione di questo piatto erudito, detto Fulgenzio il Mitografo, con F. vescovo, incontra fortissimi dubbî.
[16] La quale dice: "O vaticini degli dei, dove siete?", e il re le fa eco con questa tirata blasfema:" Ahi, perché dunque, o donna, uno dovrebbe osservare/ il fatidico altare di Delfi o gli uccelli/ che schiamazzano in alto?... Gli oracoli che c'erano, li ha presi/ Polibo che giace presso Ade, ed essi non valgono nulla"(vv.964 e sgg.).

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