giovedì 7 marzo 2019

"La mente inquieta. Saggio sull'Umanesimo" di Massimo Cacciari. Parte 4

Giorgione, Tre filosofi

Massimo Cacciari, La mente inquieta. Saggio sull’Umanesimo (Einaudi, Torino, 2019)
Presenterò l'intero volume l'11 aprile alla Sapienza di Roma (sala Odeion)

Philosophica Philologia (pp. 29-51)


Torniamo a Valla in Cacciari: “E paradigma di tale eloquenza è quella latina. Ottima messe, ma per produrre nuove sementa, dirà Valla prefacendo le Elegantiae. L’oratio esalta, non offusca e tantomeno sostituisce, la ratio. La retorica, quando latina, insegna a rendere compiutamente efficace la ragione, anche certo, per renderla utile alla vita, perché produca optimas leges”.
Associo a questa idea Cicerone. Agli studi separati dalla vita allude Cicerone nell'orazione Pro Archia [1] e proclama la necessario diversità del poeta da tale genìa che ha tutte le ragioni per vergognarsi: "Ceteros pudeat, si qui ita se litteris abdiderunt, ut nihil possint ex iis neque ad communem adferre fructum neque in aspectum lucemque proferre" (6, 12), gli altri si vergognino se si sono seppelliti negli studi letterari in modo che da questi non possono recare niente all'utilità comune, né presentare alcunché alla vista e alla luce.
Quindi Tolstoj: "La cultura, secondo noi, rappresenta l'insieme di tutti gli elementi che contribuiscono alla crescita dell'individuo, che gli forniscono una più ampia concezione del mondo, che gli danno nuove conoscenze. Tutto produce cultura: i giochi infantili, le sofferenze, le punizioni dei genitori, i libri, il lavoro, lo studio libero e lo studio imposto, l'arte, la scienza, la vita[2]".
Di certo gli studenti proveranno simpatia per le parole dei grandi autori contro i cattivi maestri. Possiamo aggiungere queste parole di Mefistofele a Faust: " Che è questo luogo di martirio? E che vita è questa che consiste nell'annoiare sé e i giovani?"[3].
La cultura insomma va intesa come potenziamento della natura
“L’idea di paideia non è riducibile al saper pensare e scrivere. E il parlare? E l’inventio di immagini efficaci? Si può pensare bene senza immaginare, senza quella ‘gagliardia’ sell’immaginazione, che innalza e gonfia le parole” ritenuta da Montaigne (Saggi, III, 5), ancora sulla scia dell’0ratore quintilianeo, virtù fondamentale del discorso? Si può forse astrattamente separare il coerente ragionamento dall’efficacia con cui esso si esprime? (p. 34)
Allora torniamo a Quintiliano il quale vuole escludere l'ombra, la solitudine e la muffa dall'educazione del ragazzo che deve diventare un buon oratore: "Ante omnia futurus orator, cui in maxima celebritate et in media rei publicae luce vivendum est, adsuescat iam a tenero non reformidare homines neque illa solitaria et velut umbratica vita pallescere. Excitanda mens est et adtollenda semper est, quae in eiusmodi secretis aut languescit et quendam velut in opaco situm ducit, aut contra tumescit inani persuasione; necesse est enim nimium tribuat sibi, qui se nemini comparat "[4], prima di tutto il futuro oratore che deve vivere frequentando moltissime persone, e in mezzo alla luce della politica, si abitui fin da ragazzo a non temere gli uomini e a non impallidire in quella vita solitaria e come umbratile. Va tenuta sveglia e sempre innalzata la mente che in solitudini di tal fatta o si infiacchisce, e nella tenebra prende un certo puzzo di muffa, o al contrario si gonfia di vuoti convincimenti: è infatti inevitabile che attribuisca troppo a se stesso chi non si confronta con nessuno.

Valla considera il latino un cibo dell’anima di cui non potremo mai saziarci “Il latino educa, questa la sua funzione: trarci fuori dal parlare disordinato, incoerente, dalla decadenza in cui è caduto il linguaggio che è il segno più drammatico della decadenza della cultura tutta” (35)
Lo studio del latino “dovrà servire ad armarci di un logos capace di significare con precisione e di comunicare universalmente” (p. 35).

Platone scrive che parlare male fa male all’anima: Lo afferma Socrate nel Fedone: "euj ga;r i[sqi (…) a[riste Krivtwn, to; mh; kalw'" levgein ouj movnon eij" aujto; tou'to plhmmelev", ajlla; kai; kakovn ti ejmpoiei' tai'" yucai'" " (115 e), sappi bene…ottimo Critone che il non parlare bene non è solo un errore, una stonatura in sé, ma mette anche del male nelle anime[5].

Leggo in un’intervista rilasciata da Cacciari al quotidiano “la Repubblica” (1 marzo 2019, p. 31): “Allora-spiega- anche nella lotta tra idee differenti, prevaleva il riconoscimento reciproco. Si studiava il passato per elaborare il futuro. E si capiva che per pensare bene si deve pensare bene”.
Allora è il tempo dell’Umanesimo del Quattrocento che non coincide con l’Humanismus continua Cacciari “cioè con una posizione filosofica che vuole definire in astratto l’essenza dell’uomo. Io credo invece che l’Umanesimo sia stato un momento di crisi nell’accezione letterale del termine, pieno di passione, anche di disperazione. Di grandi figure-Leon Battista Alberti, Pico della Mirandola. Lorenzo Valla –che guardavano nello stesso tempo indietro e avanti (…) un’età in cui la filologia, la riflessione sul passato, finisce per alimentare la profezia, il futuro”.
Quindi l’intervistatrice Claudia Morgoglione fa una domanda sull’“intreccio unico tra arte e filosofia”
Ecco la risposta di Cacciari: “Quando ci si trova di fronte, stupefatti, alla facciata di Santa Maria Novella di Leon Battista Alberti, davanti a tanta bellezza, a tanta armonia, ci si chiede come è possibile che lui sia stato anche l’autore di libri come Momus e Theogenius, in cui la riflessione tormentosa ricorda il Leopardi delle Operette morali.
Stesso discorso per un capolavoro che anticipa l’Umanesimo: la Allegoria del Buon governo di Ambrogio Lorenzetti (1338-1339), opera tutt’altro che risolta, piena di umori contrastanti come ogni immagine piena di vita. Con una serie di elementi inquietanti, come la Sicurezza che regge un uomo impiccato. Anche questa non è semplice arte: è filosofia”
Quindi Cacciari individua “il vero centro storico dell’Umanesimo” nella “Amicizia come concordia tra opposti. Qualcosa di molto diverso dalla tolleranza in cui chi “tollera” si pone in posizione di superiorità. Qui invece abbiamo la lotta, la polemica anche asperrima, ma nel riconoscimento reciproco, nella scoperta delle affinità”.
Poi l’autore di La mente inquieta Saggio sull’umanesimo indica il pericolo attualle dell’omologazione e torna sul problema della lingua nella cui assenza “oggi le passioni restano libere, inespresse e fanno danni. Invece, alla disperazione bisogna dare una voce, una forma. E quindi la prima cosa da fare è coltivare la lingua, perché la lingua è il nostro unico strumento di elaborazione del pensiero. Bisogna tornare a parlare bene. E a conoscere il latino: non perché era la lingua di Cicerone, ma perché un’idea potente esiste solo all’interno di una lingua potente. Il legame tra linguaggio e idee è indissolubile: un’altra grande lezione dell’Umanesimo. La prima cosa è smettere di fare strame della lingua (e quindi delle idee), come accade adesso. E poi dobbiamo recuperare la consapevolezza culturale che siamo fatti di passioni, di affetti, fino alla follia. Lo sapevano gli uomini dell’Umanesimo, ma anche quelli del Rinascimento: Leonardo, Michelangelo. E infine dobbiamo riallacciare, attraverso la memoria, il passato al futuro. Altrimenti non guariremo”
La domanda successiva riguarda Machiavelli, se si debba tornare a lui
“Certo. Ed è molto importante che siano usciti proprio ora due saggi cruciali su di lui: uno di Michele Ciliberto, l’altro di Alòberto Asor Rosa” Cacciari li considea affini alla sua riflessione sull’Umanesimo. “Ad esempio nell’idea di un disincanto che per Machiavelli non è affatto ozio, ma che al contrario ci spinge ad agire di più”.
Quindi una domanda sulla storia che, nota l’intervistatrice, “viene ridimensionata sia a scuola che all’università”
Cacciari risponde: “La scuola dovrebbe essere il luogo della memoria: se la si perde anche il futuro viene schiacciato dalla realtà onnipervasiva del presente, da una banale attualità. Quella che adesso sembra prevalere nella didattica di tutte le materie”.
 Ultima domanda: “Come vive in un’Italia che lascia annegare i nostri simili nel Mediterraneo?
Cacciari risponde evocando Foscolo: “Mai come ora ci vorrebbe un nuovo Foscolo che scriva dei nuovi Sepolcri. Per non farci dimenticare che noi i morti li seppelliamo, non li lasciamo in fondo al mare. E che li seppelliamo per ricordarli, non per dire”finalmente ce ne siamo liberati”.
Cacciari preannuncia un suo prossimo libro sulla costituzionalizzazione della crisi di disperazione, ricordando il tentativo di Weber che fu consulente dei redattori della Costituzione della Repubblica di Weimar.

Valla Pico e Poliziano concordano sull’unità di verba e res.
“La parola, approfondita nel suo etymon, sotto il profilo sia linguistico che semantico, vale in quanto esprime la più ferma intenzione a designare ordinate le cose” (35).

Ordinato è antonimo di cofuso e la confusione, il caos è sinonimo di infelicità e anche di truffa. Cfr. I Cavalieri di Aristofane o pure le Anime morte di Gogol.

La confusione danneggia, l’ordine aiuta, a partire dalle parole.
“De re agitur. E tuttavia nessuna cosa, mai, potrà essere conosciuta dall’uomo se non attraverso la potenza del linguaggio, dono divino” (p. 35)

Isocrate è arrivato alla celebrazione quasi religiosa della parola, senza la quale non ci sarebbe umanità né civiltà: "ejggenomevnou dj hJmi'n tou' peivqein ajllhvlou~ kai; dhlou'n pro;~ hJma'~ aujtou;~ peri; w|n a]n boulhqw'men, ouj movnon tou' qhriwdw'~ zh'n ajphllavghmen, ajlla; kai; sunelqovnte~ povlei~ w/jkivsamen kai; novmou~ ejqevmeqa kai; tevcna~ eu{romen, kai; scedo;n a{panta ta; di j hJmw'n memhcanhmevna lovgo" hJmi'n ejstin oJ sugkataskeuavsa" "( Nicocle[6], 6), ma siccome è connaturata in noi la capacità di persuaderci a vicenda e di rendere chiaro a noi stessi quello che vogliamo, non solo ci siamo allontanati dalla vita selvaggia, ma ci siamo riuniti, abbiamo fondato città, dato leggi e inventato arti, e quasi tutto quanto è stato costruito da noi è stata la parola a organizzarlo.
La sapientia , sostiene Seneca "res tradit, non verba"[7] insegna ad agire, non solo a parlare. E in un'altra Epistula: "Sic ista ediscamus ut quae fuerint verba sint opera" (108, 35), cerchiamo di apprendere la filosofia in modo che quelle che furono parole diventino azioni.
Infatti "Soltanto il pensiero vissuto ha valore"[8].
“Abbiamo a che fare soltanto con fatti, e cioè eventi, situazioni, drammi che sono in quamto da noi espressi, interpretati, agiti. Si tratta della cosa che il greco chiama pragma” (p. 35)

“Verso entrambi , logos e sophia, rivolgiamo il cammino”, metodicamente “proprio nel cammino, nell’aprirsi la strada, più terso e vivo diviene il linguaggio, più critico il modo in cui ne affrontiamo la storia e gli autori (modello di tale filologia critica, e della sua straordinaria vis polemica sarà il Discorso sulla falsa e menzognera donazione di Costantino- autentico omaggio di Valla alla lotta teologico-politica di Dante!), più forte il nesso tra ratio e oratio , più feconda l’invenzione di motivi e immagini con cui esprimerlo” (p. 36)
Quindi Cacciari passa all’inventio: “Sul tema dell’inventio rimane fortissima anche l’influenza della topica aristotelica: trovare il ‘luogo’ dell’argomento viene prima di ogni argomentazione e di ogni conclusione logica”.

Aristotele ha scritto Ta;; topikav [9] che Cicerone ha rielaborato (molto) in forma epistolare all'amico Trebazio nel breve trattato Topica ad Trebatium[10]. La topikhv è l'arte dei luoghi, ossia di reperire gli argomenti[11]. Un'arte necessaria in quasi tutte le circostanze della vita.
 Cicerone la definisce:" disciplinam inveniendorum argumentorum…ab Aristotele inventam" (I, 2), il sistema per trovare gli argomenti scoperto da Aristotele.

Questa disciplina è mediata da Cicerone: il giovane oratore nel De inventione [12]  aveva definito i loci communes: "argumenta quae transferri in multas causas possunt" (2, 48), argomenti che si possono utilizzare per molte cause. Sono strumenti del parlare e dello scrivere.
Sono luoghi comuni agli auctores da contrapporre ai luoghi comuni dei dectractores dell'humanitas .
 Curtius chiama la topica "deposito delle scorte"[13] seguendo le indicazioni di Quintiliano[14]:"in greco si chiamano koinoi; tovpoi, in latino loci communes (...) originariamente mezzi ausiliari per l'elaborazione di discorsi; essi sono, come dice Quintiliano (V 10, 20), "miniere di argomenti per l'elaborazione del pensiero" ( argumentorum sedes ) e sono quindi utilizzabili per un fine pratico"[15]. Curtius allega un paio di esempi:"topos diffusissimo è "l'accentuazione della propria incapacità di trattare degnamente un tema"; nel panegirico, "la lode degli antenati e delle loro gesta" è un topos".
L'autore di Letteratura europea e Medio evo latino aggiunge che "Nell'Antichità si approntarono intere raccolte di simili topoi. L'insegnamento dei topoi, chiamato topica, venne trattato in scritti appositi"[16]. Insomma:"nell'insegnamento della retorica, anticamente la topica costituiva il deposito delle scorte"[17].

 “E inventio, a sua volta, non può non collegarsi a ingenium e immaginazione, , e perciò, appunto, a poesia, ai caratteri ‘geniali’ dell’arte. Filologia si configura così come amore per la parola che vive, che inventa, metaforizza, presagisce, che si avverte e ascolta come voce dello spirito. Divina natura del linguaggio, quando la si intenda, poiché in sé, immediatamente, contrasta con il mero opinare, la doxa, la Meinung, come la traduce Hegel nella Fenomenologia” (p. 36).

Cacciari poi considera “un’opera straordinariamente fortunata, fin dall’età carolingia, il De nuptiis Philologiae et Mercurii del retore cartaginese Marziano Capella, di cui abbiamo le prime citazioni tra il 440 e il 480” (p. 37) E’ un trattato didattico misto di prosa e di versi in metro vario indirizzato al figlio. Quest’opera ebbe una grande importanza in tutto il Medio Evo. Venne commentata da Giovanni Scoto
Il De nuptiis Philologiae et Mercurii ha esercitato un’influenza determinante “sull’iconografia delle artes liberales, dai rilievi del campanile di Giotto fino, in pieno Umanesimo, a quelli di Agostino di Duccio nel tempio albertiano di Rimini. A noi qui interessa brevemente analizzarla come possibile icona di quel nesso tra filologia e filosofia che ci sembra centrale per intendere il pensiero dell’Umanesimo” (p. 37).

Vediamo dunque il De nuptiis Philologiae et Mercurii
Filologia ha nascita terrena ma ha preso dalla madre Phronesis l’intento di salire alle stelle come riuscì a Omero e Orfeo. Filologia simbolizza l’umano capax dei. Quindi ella deve rappresentare l’insieme delle arti liberali. Filologia è amore per ogni forma del logos.
Scoto legge le nozze in chiave neoplatonica e vede Mercurio come interprete della mente divina, colui che conduce al Nous.
Invece la filosofia è una “gravis insignisque femina”, dalla folta chioma, colei che intercede presso Giove perché il dio conceda agli uomini eccellenti “ascensum in supera. Filologia dovrà sposare l’interprete che conduce a comprendere la Mente (nous). Tale comprensione sarà opus e labor di Filosofia la quale condurrà Filologia alla corte di Giove dove avverranno le nozze.
Per ascendere attraverso i circoli dei pianeti fino al sole, platonicamente chiamato “prima propago” dell’eccelsa potenza del padre inconoscibile, Filologia dovrà bere la bevanda dell’immortalità che Atanasia custodisce, prima però deve vomitare “coactissima egestionetutto ciò di cui è piena, ossia della erudizione umana, troppo umana. Poi quella nausea ac vomitio si trasforma in un’abbondanza di lettere, volumi che le Arti e le Muse raccolgono. Il sapere di Filologia diventa sapienza “passa, per così dire, da potenza ad atto soltanto allorché Filologia inizia il cammino con Filosofia in supera, soltanto nel momento in cui ella desidera ardentemente l’immortalità”. (p. 38)
Dunque Filologia corre da Filosofia omni studio affectuque, e Filosofia la affida a Mercurio perché le faccia da guida e da sposo.
Scoto commenta “Nemo intrat in caelum nisi per philosophiam”.
Filologia subisce una metamorfosi dalla facies terrestre che vomita la disordinata congerie di tecniche a colei che riceve il dono delle arti dalle Muse. Mercurio interpreta le arti con una esegesi orientata verso la filosofia. Dal cumulo di saperi le arti si trasfigurano in Armonia. E Filologia terrestre diventa celeste. Ermete è metaxuv tra Filologia e Filosofia “dialettizza l’ordine dei grammata con quello della philìa o eros per la sapienza del Bene, che costituisce la timé di Donna filosofia” (p. 39).


CONTINUA


[1] Del 62 a. C.
[2] L. Tolstoj, Educazione e formazione culturale in Lev Tolstoj, Quale scuola? p. 77.
[3] Goethe, Faust, Prima parte (del 1808), in Goethe, Opere , p. 22.
[4] Institutio oratoria I, 2, 18.
[5] plhmmelhv" è formato da plh;n e mevlo", e dunque significa chi sbaglia suonando o cantando.
[6] Del 368 a. C. Le stesse parole tornano nell’Antidosis (254-255) del 354 a. C.
[7]Seneca, Epist. ad Luc. , 88, 32.
[8] H. Hesse, Demian (del 1919), p. 116.
[9] Iniziati nel tempo del primo soggiorno ad Atene (366-347) e conclusi ad Asso dove il filosofo si recò dopo la morte di Platone (347 a. C.).
[10] Del 44 a. C.
[11] In inglese topic significa appunto “argomento”.
[12] Trattato in due libri, dell'84 a. C.
[13] E. R. Curtius, Letteratura europea e Medio Evo latino (del 1948), p. 93
[14] Maestro di retorica, tenne la prima cattedra statale di eloquenza per volontà di Vespasiano. Visse fra il 35 e il 97 ca d. C. L' Institutio oratoria in dodici libri uscì nel 96 d. C.
[15]E. R. Curtius, Letteratura europea e Medio Evo latino, p. 81. Più precisamente Quintiliano definisce i loci in questo modo"loos appello argumentorum sedes, in quibus latent, ex quibus sunt petenda " (V, 10, 20), sedi di argomenti dove essi sono riposti e dai quali si devono ricavare.
[16] Curtius, Op. cit., p. 81
[17] Curtius, Op. cit. p. 93.

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