mercoledì 20 marzo 2019

"La mente inquieta. Saggio sull'Umanesimo" di Massimo Cacciari. Parte 8

Hieronymus Bosch, Trittico del carro di fieno
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Massimo Cacciari, La mente inquieta. Saggio sull’Umanesimo (Einaudi, Torino, 2019).

Ne farò una presentazione il 28 marzo a Bologna

Presenterò l'intero volume l'11 aprile alla Sapienza di Roma (sala Odeion)

Capitolo V
La Pace impossibile (pp. 74-111)

Inizio questo capitolo riferendo il commento di Cacciari al Trittico del carro di fieno di Hieronymus Bosch, olio su tavola, 1516 circa, Madrid, Museo del Prado.
La parte iconografia del libro riproduce il pannello centrale nella Tavola 1.

Alla fine del Quattrocento si spezza “quella tensione, sempre drammaticamente vitale nell’Umanesimo, tra presagi apocalittici e idee di concordia, armonia, pace”. Prevalgono le immagini del Giudizio e dell’inferno, con accenti radicalmente pessimistici, in particolare nella pittura nordica e fiamminga. “La nostra natura qui non solo si rivela ontologicamente vulnerata, ma addirittura deforme. “Die Zeit kommt…” scrive nella Nave dei folli Sebastian Brant. “Arriva il momento. Temo che l’Anticristo sia vicino”. Di questa nave, il cui albero è insieme quello del peccato e quello della cuccagna (o carro, carro carnevalesco di un sinistro carnevale), le raffigurazioni più cupe e potenti sono forse quelle di Bosch.
Il carro del fieno, trascinato da mostri e seguìto, come da vassalli, da papi e imperatori, cui dà l’assalto un’umanità che ha smarrito ogni misura, ogni civilitas, in preda al puro eccesso, sembra inesorabilmente destinato all’inferno, dipinto sul pannello di destra del trittico del Prado. Tuttavia, sulla cima dell’immenso covone è ancora in corso una lotta.  Un demone-farfalla musicante contende a un angelo le anime di quelle figure intente ai piaceri della musica, illudendosi quasi di vivere in un hortus conclusus. L’angelo invoca l’aiuto del Cristo; è riposta in Lui l’ultima speranza; mai egli potrebbe acquistare la potenza seduttiva che esercita il dèmone sulla nostra libertà. Il Cristo, lontanissimo, dall’alto del cielo, apre le braccia in gesto di misericordia, che sembra rispondere alla preghiera dell’angelo e raccogliere in sé, in qualche modo, l’intera scena della nostra miseria e follia”.

E ora leggiamo le prime pagine (74-76) del quinto e ultimo capitolo:

La Pace impossibile
Pico della Mirandola nell’Oratio (1486) mostra “il tentativo , di grande mole davvero[1], di combinare l’immagine neoplatonica dell’uomo, depurata da ogni verbosa laudatio, con quelle stesse problematiche che nell’Alberti si erano tragice delineate” (p. 74).
Mirabile l’uomo. Magnum miraculum”. Ma “questo miracolo è veramente tremendo.”

E nessuna cosa è più tremenda dell’uomo (koujde;n ajnqrwvpou deinovteron pevlei, come canta il primo stasimo dell’Antigone, 332-333).

Nel mezzo, in un leonardesco vortice più che al centro della natura, è stato posto un essente nullis angustiis cohercitus, la cui felicitas  la suprema liberalitas divina ha fatto consistere nell’id esse quod velit. L’uomo, unico essente creato al fine di ricrearsi”.
 Questo fine comporta il rovesciamento del “diventa quello che sei” in “divieni ciò che vuoi, che scegli di essere” (p. 75)

Diventa quello che sei è la somma del pensiero educativo di Pindaro: “gevnoio oi|o~ ejssiv" ( Pitica II  v. 72).

Ma la libertà è un dono tremendo: “ciò che vogliamo è vario, multiforme e cangiante. Due facce dell’universale vicissitudo. L’uomo è, sì, capax Dei, come  lo considera il platonismo, capace di ‘indiarsi’ (…) e tuttavia nella sua essenza altri semi, altri germi di vita rimangono incustoditi e possono in ogni istante ridurlo a strisciare a terra come un bruto[2] (…) L’esserci umano è un puramente possibile; libertà in lui non significa che pura apertura all’essere possibile. Non ha certa sede come gli altri enti, è aoikos, diremmo, come L’Eros platonico”.

Aggiungo di nuovo l’uomo tremendo del coro di Sofocle ricordato sopra:
Possedendo  il ritrovato della tecnologia,/ che è un qualche sapere, oltre l'aspettativa/ora si volge al male, ora al bene/ e le leggi della terra unendo/e degli dei la giurata giustizia/è grande nella città; bandito dalla città è quello con il quale /coesiste la negazione del bello morale, per la sfrontatezza./Non mi stia accanto sul focolare/né sia uno che ha lo stesso pensiero/chi compie queste azioni  ( Antigone, vv. 365-375)

L’uomo dunque “non possiede un volto proprio né una figura definitiva (…) camaleonte l’uomo simboleggiato da Proteo nei misteri, in perenne metamorfosi” (p. 76)

Nell’Odissea,  Menelao ricorda questo vecchio marino verace "gevrwn aJvlio" nhmerthv""(IV, v. 349). Nel poema omerico Proteo sembra una figura assolutamente rivelatrice, del resto difficile da essere afferrata e consultata. L'Atride minore dunque era pericolosamente bloccato dalla bonaccia nell'isola di Faro, davanti all'Egitto, quando suscitò la pietà della figlia del vecchio Proteo, Eidotea, la quale gli insegnò come bloccare l'uomo che "conosce gli abissi del mare tutto" (vv. 385-386) e costringerlo a parlare.

Che è come dire: simulatore e dissimulatore”.  

Torna in mente Catilina cuius rei lubet simulator ac dissimulator (Sallustio, Bellum Catilinae, 5) del quale in un capitolo precedente abbiamo ricordato anche la versatilità camaleontica, messa in rilievo questa da Plutarco, Cornelio Nepote, Cicerone e Montaigne. Ripeto qui sotto tali giudizi per quanti arrivano solo ora a leggermi
Plutarco aveva scritto di Alcibiade che per accalappiare le persone egli era capace di imporsi trasformazioni più rapide e radicali del camaleonte ("ojxutevra"...tropa;" tou' camailevonto""), il quale infatti non è creatura altrettanto versatile, in quanto non è in grado di assumere il colore bianco, mentre per quest'uomo, che passava con uguale disinvoltura attraverso il bene e il male, non c'era niente di inimitabile né di non provato:"  jAlkibiavdh/ de; dia; crhstw'n ijovnti kai; ponhrw'n oJmoivw" oujde;n h\n ajmivmhton oujd j ajnepithvdeuton" : a Sparta viveva da sportivo (gumnastikov"), si comportava da persona semplice e sobria (eujtelhv"), perfino austera (skuqrwpov"); in Ionia invece appariva raffinato (clidanov"),  gaudente (ejpiterphv"), indolente (rJav/qumo");  in Tracia si ubriacava (mequstikov") e andava a cavallo ( iJppastikov"); e quando frequentava il satrapo Tissaferne superava nel fasto  e nel lusso la magnificenza persiana ("uJperevballen o[gkw/ kai;  poluteleiva/ th;n Persikh;n megaloprevpeian"[3]). Insomma assumeva di volta in volta le forme e gli atteggiamenti più consoni a quelli cui voleva piacere, o, per dirla con Cornelio Nepote[4], era "temporibus callidissime serviens "[5] abilissimo nell'adattarsi alle circostanze.
Anche Montaigne mette in rilievo questo aspetto di Alcibiade:"Ho spesso notato con grande ammirazione la straordinaria facoltà di Alcibiade di adattarsi tanto facilmente a usanze così diverse, senza danno per la sua salute: oltrepassando ora la sontuosità e la pompa persiana, ora l'austerità e la frugalità spartana; così moderato a Sparta come dedito al piacere nella Ionia"[6].
Cicerone nell'orazione Pro Caelio[7] attribuisce a  Catilina  dati del carattere simile a questi e ad altri  di Alcibiade . La sua indole multiforme sapeva adeguarsi alle circostanze : "Illa vero iudices, in illo homine admirabilia fuerunt, comprehendere multos amicitia, tueri obsequio, cum omnibus communicare quod habebat, servire temporibus suorum omnium pecunia, gratia, labore corporis, scelere etiam, si opus esset, et audacia, versare[8] suam naturam et regere ad tempus atque huc et illuc torquere et flectere, cum tristibus severe, cum remissis iucunde, cum senibus graviter, cum iuventute comiter, cum facinerosis audaciter, cum libidinosis luxuriose, vivere " (Pro Caelio, 6,13), quei famosi aspetti invero, giudici, fecero stupire in quell'uomo: afferrare molti con l'amicizia e conservarli con la compiacenza, mettere in comune con tutti ciò che aveva, venire incontro alle circostanze critiche di tutti i suoi amici con il denaro, la sua influenza, la fatica corporale, e se ce n'era bisogno anche con il delitto e l'ardimento, modificare la sua indole e indirizzarla secondo le circostanze, volgerla e piegarla di qua e di là, vivere con gli austeri severamente, con i gioviali allegramente, con i vecchi seriamente, con i giovani benevolmente, con i criminali temerariamente, con i libidinosi dissolutamente. Alcibiade, Catilina e Cesare sono seduttori tipici. Hanno un antecedente in Odisseo, con l’aggiunta della bellezza.

Su tonalità diverse, come non avvertire in lontananza l’acre musica, se non addirittura del Momus, di tante Intercenales?
Come  un compito ci appare l’uomo, “se non addirittura un perenne esperiment. Altro che fondata copula del mondo! Anche l’anima di Pico è sempre “in tirocinio, in prova” come quella dell’Alberti, come lo sarà, senza più il pensiero che questo essere in prova possa aver fine, quella di Montaigne. Amicizie stellari tutte, dove le dissonanze partecipano necessariamente di una stessa armonia” (p. 76)

A queste amicizie stellari aggiungo Marziale, almeno per quanto riguarda il tirocinio: “semper homo bonus tiro est" (12, 51, 2), l'uomo onesto fa  tirocinio per tutta la vita.


CONTINUA



[1] Cfr. :"tantae molis erat Romanam condere gentem "(Eneide, I, 33) ndr
[2] Uomini e donne “veluti pecora quae natura prona atque ventri oboedentia finxit " che la natura foggiò chini a terra e al servizio del ventre (Sallustio, De coniuratione Catilinae , 1). n.dr.
[3]Plutarco, Vita di Alcibiade,  23, 4- 5.
[4] 99 ca-24 ca a. C.
[5]Liber de excellentibus ducibus exterarum gentium, Alcibiades ,   1, 4.
[6] Montaigne, Saggi, p. 221.
[7] Del 56 a. C.
[8] Si pensi all’Odisseo poluvtropon di Odissea 1, 1, tradotto da Livio Andronico con versutum.

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