martedì 12 marzo 2019

"La mente inquieta. Saggio sull'Umanesimo" di Massimo Cacciari. Parte 5

Anselm Feuerbach, Il simposio di Platone
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Massimo Cacciari, La mente inquieta. Saggio sull’Umanesimo (Einaudi, Torino, 2019).
Presenterò l'intero volume l'11 aprile alla Sapienza di Roma (sala Odeion)

Philosophica Philologia (pp. 29-51)



Nel Simposio platonico Socrate afferma di ripetere quanto udì da Diotima di Mantinea una donna sapiente nelle cose d'amore e in molte altre (tau'tav ge sofh; h\n kai a[lla pollav , 201 d). La sacerdotessa dunque gli insegnò che Eros è qualche cosa di intermedio (ti metaxuv, 202 a). E' gran demone, figura intermedia tra i mortali e gli dèi (Daivmwn mevga"metaxuv ejsti qeou' te kai; qnhtou' , 202d), figlio di Poros (Espediente) e della mendicante Penia (Povertà), e partecipa della natura di entrambi, delle miseria della madre e delle capacità anche seduttive del padre; inoltre è un filosofo poiché si trova a metà strada fra sapienza e ignoranza:"sofiva" te au\ kai; ajmaqiva" ejn mesw/ ejstivn" (203 d).

Aggiungo con un’associazione forse non del tutto arbitraria queste parole dell’ Alcibiade II di Platone
SW . J Ora'/" ou\n, o{te g j e[fhn kinduneuvein to; ge tw'n a[llwn
ejpisthmw'n kth'ma , eja;n ti" a[neu th'" beltivstou ejpisthvmh" kekthmevno" h\/, ojligavki" me;n wjfelei'n, blavptein de; ta; pleivw to;n e[conta aujtov, a\r j oujci; tw'/ o[nti ejfainovmhn levgwn ;
vedi dunque, dice Socrate ad Alcibiade, quando dicevo che il possesso delle altre scienze se uno non possiede la scienza di quanto è ottimo (l'idea del Bene), di rado giova, mentre per lo più danneggia chi ce l'ha, non ti sembra che io parlavo dicendo quanto è sostanzialmente corretto? 

Alcibiade  dà ragione a Socrate il quale aggiunge
oj de; th;n kaloumevnhn polumaqivan te kai; plolutecnivan kekthmevno", orfano;" de; w]n tauvth" th'" ejpisthvmh", ajgovmeno" de; uJpo; mia'" ejkavsth" tw'n a[llwn, a\r j oujci; tw'/ o[nti dikaivw" pollw'/ ceimw'ni crhvsetai, a{te oi\mai a[neu kubernhvtou diatelw'n ejn pelavgei, crovnon ouj makro;n bivou qew'n; w{ste suvmbaivnein moi dokei' kai; ejntau'qa to; tou' poihtou', o} levgei kathgorw'n pouv tino", wJ" a[ra polla; me;n hjpivstato e[rga, kakw'" dev mfhsivn, hjpivstato pavnta (Alcibiade II 147b)
e chi possiede la cosiddetta conoscenza enciclopedica e politecnica , ma sia privo di questa scienza (del Bene), e venga spinto da ciascuna delle altre, non farà uso sostanzialmente di una grande tempesta senza un nocchiero, continuando a correre sul mare, non a lungo del resto? Sicché mi sembra che anche qui capiti a proposito quello che dice il poeta criticando uno che effettivamente sapeva molte cose ma le sapeva tutte male

Cfr. Eraclito: polumaqivh novon ouj didavskei: JHsivodon ga;r a[n ejdivdavxe kai; Puqagovrhn aujti;" te Xenofavneav te kai; JEkatai'on (fr. 82 Diano)
Si possono commentare entrambi questi testi con la sintesi di Euripide"to; sofo;n d j ouj sofiva" (Baccanti, v. 395), il sapere non è sapienza. La sofiva è lo scopo di quella cultura che Nietzsche chiama tragica: "la sua principale caratteristica consiste nell'elevare a meta suprema, in luogo della scienza, la sapienza". La sapienza si tuffa nel fiume della vita. Il sapere al contrario è il fine dell'uomo teoretico il quale "non osa più affidarsi al terribile fiume dell'esistenza: angosciosamente egli corre su e giù lungo la riva”1 . Aggiungo che hJ sofiva è femminile e produttiva, creativa, to; sofovn è neutro e sterile.

Ora torno a Cacciari: “Il significato che Ficino e Poliziano attribuiscono a Filologia non è diverso. Filologia resterebbe cieca senza orientarsi attraverso la fatica dell’esegesi a Filosofia, senza spingersi, guidata da Ermete, verso i ‘misteri di Platone’. E un Ermete, anche se tentato da Saturno, è lo stesso Ficino, l’insuperabile ‘traduttore’. Ma Filosofia, d’altra parte, non sarebbe che vuoto esercizio scolastico se non lo alimentassero continuamente le scienze particolari e le arti tutte, cioè l’autentica antrhropine sophia. Filosofia si ingravida dei pragmata che Ermete le trasmette da Filologi e, a sua volta, di essi si illumina, fa comprendere il significato più essenziale e riposto”.

La sofiva di Socrate è, a detta di Platone, ajnqrwpivnh sofiva, sapienza relativa all’uomo. Tw'/ o{nti ga;r kinduneuvw tauvthn ei\nai sofov~ (Apologia, 20d) in questa infatti io sono probabilmente saggio davvero.

La Primavera di Botticelli è un’opera chiave dell’epoca il cui esame iconologico può aiutarci a capire come il testo di Marziano Capella sia pertinente al significato filosofico che l’Umanesimo diede alla Filologia:
questa coopera con Ermete e con Filosofia la quale sale alla luce poi torna quaggiù e salva i fenomeni . Senza filologia, senza le nozze tra filologia e Mercurio, questo suo compito mai potrebbe essere svolto. (p. 40)
Il filologo restaura il testo con le sue competenze di grammatico, poi lo interpreta secondo i princìpi filosofici.Non basta una disciplina sola: è necessaria una paideia , una cultura.
Io la chiamo una visione d’insieme della cultura letteraria europea.

Garin in Medioevo e Rinascimento ha scritto che ‘la verità della Rinascenza è proprio nei Valla, negli Alberti, nei Poliziano, e poi nei Masaccio, nei Brunelleschi, nei Leonardo (..) perché la più consapevole meditazione umana fu proprio in quella storia’
C’è filosofia non nella riscoperta in quanto tale del platonismo ma nella comprensione dei suoi rapporti con l’aristotelismo (riassunti forse dalle loro figure di La scuola di Atene di Raffaello) da un lato e con la tradizione teologico-filosofica della cristianità e delle altre religioni monoteistiche. E c’è filosofia nel problema della traduzione (cfr. Cicerone e Leopardi). C’è filosofia nel chiedersi da parte di Valla, Alberti e Pico quis es homo? Uomo che è il qau'ma da comprendere (42).
Io dico l’uomo come problema, o, con l’Antigone di Sofocle, l’uomo come deinovn.
Non diceva già Dante nel De vulgari eloquentia che ciascuno è come avesse un intelletto proprio e singolare? Non ripeteranno questa stessa idea, in chiave drammatico-scettica, Machiavelli e lo stesso Guicciardini?” (42)
Machiavelli Lettera al Soderini, 13 -21 settembre 1506)
Io credo che, come la Natura ha facto ad l'huomo diverso volto,
così li habbi facto diverso ingegno et diversa fantasia”

Fare filosofia significa ricercare - interrogare i fondamenti della facultas loquendi.
Dante, Petrarca e Boccaccio avevano dato voce alla lingua e reso vivente la sua forma e senza di loro non ci sarebbe stata questa filosofia dell’Umanesimo
Sono questi gli autori che introducono L’Umanesimo come grande epoca di crisi, passaggio decisivo fra l’autunno del Medioevo e il mutamento radicale di stato, la katastrofé che inaugura il Cinquecento, soprattutto in Italia. Ben prima che Machiavelli e Guicciardini riflettessero sulle grandi “mutazioni di regni, imperi e stati”, sugli “alti accidenti e fatti furiosi” che travolgono “l’italico sito” (Decennale secondo2, 1-5), questa catastrofe era stata presentita dagli interpreti più acuti e disincantati, specchio di un Umanesimo che potremmo davvero definire tragico, Alberti e Valla” (p. 43)

Lorenzo Valla (1405-1457) “è la grande figura dell’Umanesimo in lotta, critico fino all’eresia, di ogni forma di sedentaria erudizione, la cui latinitas significa esatta definizione del testo affrontato, chiara memoria del passato che è radice, precisione nell’uso della lingua che in noi vive (…) l’uomo pensa - comunica per mezzo del segno doppio, sensibile e sprituale del linguaggio”.

Penso al significante e al significato dello strutturalismo che deriva dalla linguistica degli stoici: Il logos è una voce significante proveniente dal pensiero
Zenone divise la dialettica in due parti: la prima si occupa dei significanti shmaivnonta, i suoni della parola, la seconda dei significati shmainovmena, il contenuto3.

Lo stesso riconoscimento del ‘valore’ della storia, in un senso affatto concreto, che ritroveremo in Machiavelli, ha in Valla il suo auctor: dalla storia, egli dice, viene la più grande conoscenza della natura umana, e sono le sue esperienza che poi si trasformano in norme, precetti e ogni altro genere di sapienza (Historiarum Ferdinandi regis Aragoniae libri tres)” 1445-1446

Senza la conoscenza della storia non c’è maturità di pensiero e di persona
Cicerone nell'Orator (del 52 a. C. ) scrive: "Nescire autem quid ante quam natus sis acciderit, id est semper esse puerum. Quid enim est aetas hominis, nisi ea memoria rerum veterum cum superiorum aetate contexitur?" (120), del resto non sapere che cosa sia accaduto prima che tu sia nato equivale ad essere sempre un ragazzo. Che cosa è infatti la vita di un uomo, se non la si allaccia
Sentiamo anche T. S. Elio:t“Maturità della mente: a questa occorre la storia e la consapevolezza della storia”4.
La conoscenza della tradizione richiede il senso storico: “the historical sense involves a perception not only of the pastness of the past, but of its presence"5, il senso storico implica la percezione non solo della passatezza del passato, ma anche della sua presenza.
Poi Natoli: “Chi è privo di senso storico rischia di confondere l’attuale con l’eterno”6.

Il motto machiavellico: farci guidare dalla storia, se mai una guida ci è data per orientarci nell’universale vicissitudine, si connette inscindibilmente al senso che la filologia assume con Valla” (p. 43)

La parola deve parlare del presente e pure del passato “ogni parola è come la vera del pozzo del passato. Una filologia filosofica deve osare calarvisi, ben sapendo che revocare gradum superasque evadere ad aursa/ hoc opus , hic labor est” (Eneide, VI, vv. 128-129)” (p. 44)
E non che sia facilis descensus Averno (v. 124)
La pietas per il passato è vuoto sentimento se non si orienta a un nuovo inizio”
La scuola dei Valla combatte tanto la filologia che non si collega criticamente a Ermete (non interpreta) (“che non si cura, potremmo aggiungere con Nietzsche, di svolgersi lento pede dal noto a qualcosa di ancora in-audito, dal conosciuto verso acque mai percorse”) quanto quella filosofia che superbamente astrae il suo ego cogito dall’ego loquor e quest’ultimo dal plurale loquimur et locuti sumus”.
L’Umanesimo insiste sul Comune, sull’Universale che si invera nel continuo divenire della prassi linguistica.

Alberti e Valla sono avversi in philosophos, cioè a quella boria che pretende autofondantesi l’esercizio della ragione

Prima della philo-sophia c’è la ragione della lingua, indissociabile da quella del corpo (…) Prima della philo-sophia inoltre, vi è la sophia dei saperi concreti, delle technai o artes” (p. 45).

Insomma il sapere di Prometeo, limitato, insufficiente, ma necessario.
Nel Prometeo incatenato di Eschilo il Titano afferma di avere escogitato le tevcnai (v. 477), che fanno partire la civilizzazione, anzi:"pa'sai tevcnai brotoi'sin ejk Promhqevw" (v. 507), tutte le tecniche ai mortali derivano da Prometeo.
Prometeo del resto sa bene che la forza della Necessità è superiore “ tevcnh d j ajnavgkh" ajsqenestevra makrw'/ ” (v. 514):, la conoscenza pratica è molto più debole della necessità.
"Questo sapere è sempre una conoscenza pratica: è il sapere che ha creato la civiltà, le tevcnai. Egli ha insegnato loro i diversi mestieri, inoltre l'astronomia, i numeri e le lettere; ma non per allargare la conoscenza del mondo nel senso degli antichi ionici: al contrario, questo sapere è orientato, alla maniera attica, verso le tevcnai, verso uno scopo pratico e un'utilità…il fuoco è il simbolo delle tevcnai, dell'attività pratica"7.
Le tevcnai dunque sono necessarie ma non sufficienti.

Soltanto perché la cultura del periodo si agitava e pensava anche nel solco della filosofia che andiamo delineando, essa poteva costituire l’humus del Cupolone di messer Filippo, del pulpito di San Lorenzo, di palazzo Rucellai, dei dipinti platonici di Botticelli. L’esercizio dell’arte, il ruolo dell’artista, di colui che sa fare ( e può saper- fare soltanto se ‘orientato’ da Filologia-Ermete- filosofia), hanno potuto assumere un’importanza centrale, perché centrale filosoficamente era apparsa l’interrogazione intorno ai problemi dell’espressione del pensiero, della vis imaginativa, della inventio, del rapporto tra pensiero e pittura” (p. 45).
Nel De vero falsoque bono (1441) Valla “avanzava la propria proposta filosofica, tutta rivolta contro quello stoicismo che pure costituiva una corrente importante del pensiero umanistico. Qui egli aderisce decisamente alla spiritualità dei padri semper reformanda, e in particolare ad Agostino” (46).
Valla giungeva anche a sostenere il valore di Tommaso in quanto erede degli ‘antichi teologi’, ma non per la sua metafisica. Poi però si distacca da questi maestri “quasi provocatoriamente con la riscoperta dell’epicureismo nei suoi tratti più realistici, direi più romani”.
Come Alberti e Machiavelli alla fine di questa età, Valla dipinge l’esserci umano nelle istanze concrete che lo muovono ad agire, nei fini reali che agendo persegue, e tutti i fini si riducono a un principio: la ricerca del proprio piacere, ontologicamente inteso; la volontà incondizionata di perseverare nel proprio essere si esprime come volontà di piacere, in quella idea di voluptas 8 che ‘sedurrà’ anche il giovane Ficino”. (p. 47)
Qualsiasi ascetismo ne misconosca il potere è mera ipocrisia. Piacere deve essere anche l’amore per il logos, piacere deve dare Donna Filologia. E Filosofia significherà cercare la vera voluptas, la sua misura più piena, non disprezzando affatto le altre, e meno che meno quelle del corpo. Compito di una paideia filosofica consisterà nell’insegnare come il nostro naturale conatus alla eudaimonia , alla vita felice possa venire soddisfatto” (p. 47).

Mi viene in mente Seneca che cita spesso Epicuro e tende a negare quella ricerca del piacere bestiale rinfacciata agli Epicurei dai detrattori come Cicerone.
Istuc quoque ab Epicuro dictum est: si ad naturam vives, numquam eris pauper, si ad opiniones numquam eris dives. Exiguum natura desiderat, opinio immensum (16, 7-8)
Epicuro voleva raggiungere l’ajtaraxiva, mancanza di turbamento nell’animo e l’ajponiva, mancanza di dolore nel corpo, voleva hjdonai; katasthmatikaiv, piaceri stabili, piuttosto che in movimento kata; kivnhsin.
La scelta dei piaceri va riferita ejpi; th;n tou' swvmatoς uJgiveian kai; th;n th'ς yuch'ς ajtaraxivan (A Meneceo, 128). Pavnta pravttomen, o{pwς mhvte ajlgw'men mhvte tarbw'men. Allora ogni tempesta della vita si placa: luvetai pa'ς oJ th̃ς yuch'ς ceimwvn Noi soffriamo per il bisogno del piacere che è il bene primo e a noi connaturato prw'ton ajgaqo;n toũto kai; suvmfuton (129), ma noi ne tralasciamo molti se ad essi segue un incomodo maggiore (pleĩon to; duscerevς) e addirittura a volte scegliamo dei dolori quando ce ne consegua un piacere maggiore (ejpeida;n meivzwn hJmi'n hJdonh; parakolouqhh/'
Ogni piacere ci è congeniale ma non è sempre da eleggere, i dolori sono un male ma non sono tutti da evitare. Conviene giudicare in base al calcolo (th/' summetrevsei), una valutazione comparativa, degli utili e dei danni. A volte un male per noi può essere un bene e un bene un male. Grande bene è l’aujtavrkeia, l’indipendenza dai desideri. Quello che è fusikovn, richiesto dalla natura, è facilmente procacciabile eujpovriston, mentre to; kenovn, il vuoto è duspovriston.



CONTINUA

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1 La nascita della tragedia , p. 122 e p. 123.
2 I Decennali di Niccolò Machiavelli sono due cronache in terzine dantesche sulle vicende fiorentine (dal 1494 al 1504 e dal 1504 al 1509. La seconda è incompiuta)
3 Cfr. Il Saussure (Corso di linguistica generale, uscito postumo nel 1916) e lo strutturalismo di moda nel ’68 quando feci l’ultimo esame, quello di glottologia. Ci facevano studiare tutto a memoria senza che nessuno all’Università avesse mai indicato questo collegamento con gli Stoici quando ripetevano che la doppia articolazione costituisce una proprietà fondamentale del linguaggio verbale umano.
4 T. S. Eliot, Che cos’e un classico? (del 1944) In T. S. Eliot, Opere, p. 965.
5 T - S. Eliot, Tradition and the Individual Talent. In Il bosco sacro. Saggi sulla poesia e la critica (1920)
6 Natoli, Parole della filosofia, p. 109.
7 B. Snell, Eschilo e l'azione drammatica, p. 121.
8 Valla. De voluptate 1457)

3 commenti:

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