domenica 24 marzo 2019

L’approccio comparativo alle letterature antiche. Parte 6

Rembrandt, Colloquio di sapienti
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L’approccio comparativo alle letterature antiche. Parte 6

Percorso della conferenza che tenuta il 26 gennaio 2019 per la Valent Academy centro studi internazionali di Milano con la partecipazione di studenti e professori del liceo Manzoni

L’approccio comparativo alle letterature antiche

Introduzione alla metodologia dell’insegnamento delle lingue e letterature greca e latina con taglio europeo e topologico

Sentiamo anche Nietzsche: “Guardatevi anche dai dotti! Essi vi odiano: perché sono sterili! Essi hanno occhi freddi e asciutti, davanti a loro ogni uccello giace spennato”[1].
“Di fronte al genio, cioè ad un essere che crea o che dà alla luce… il dotto, l’uomo medio della scienza, ha sempre qualcosa della vecchia zitella: in quanto, come quest’ultima, non ha la minima idea di queste due funzioni umane, che sono le più preziose… il suo occhio assomiglia allora a un lago liscio e odioso, la cui onda non si increspa a nessun entusiasmo, a nessuna simpatia. Ma le cose peggiori di cui un dotto è capace, gli provengono dall’istinto della mediocrità, propria della sua razza; da quel gesuitismo della mediocrità che inconsciamente lavora alla demolizione dell’uomo eccezionale e tende a spezzare ogni arco teso o, meglio ancora, ad allentarne la tensione.”[2]
Dotti sono considerati i filologi: una razza disprezzata da Nietzsche:
“L’antichità è stata scoperta in tutte le cose principali da artisti, uomini politici e filosofi, non da filologi, e ciò fino al giorno d’oggi”[3].
“I filologi non sono se non liceali invecchiati”[4]. A volte addirittura dei ginnasiali ammuffiti. Del resto spesso nelle scuole, almeno al tempo del mio scolarato e del mio faticoso apprendistato di insegnante, nelle scuole si spacciavano per filologi quanti si limitavano a ripetere declinazioni, coniugazioni, regole con eccezioni dei manuali e paradigmi del vocabolario. Molti non erano in grado di raccontare nemmeno i contenuti delle opere più importanti dei massimi autori.
L’insegnante bravo è quello che non solo ha letto, studiato e imparato molto ma ha vissuto, gioito e sofferto e amato molto.
A lui molto sarà perdonato.

Sentiamo i ricordi di Fellini studente: "La scoperta, la conoscenza del mondo pagano che si acquisisce a scuola, ad esempio, è di tipo catastale, nomenclativo, favorisce con quel mondo un rapporto fatto di diffidenza, di noia, di disinteresse, al massimo di una curiosità casermesca, abietta, un po' razzistica, comunque di cosa che non ti riguarda"[5].
In un altro libro il regista riminese racconta di un insegnante impreparato che si riempiva di ridicolo: " Il professore era comicissimo quando pretendeva che dei mascalzoni di sedici anni fossero presi da entusiasmo perché lui declamava con la sua vocina l'unico verso rimasto di un poeta: "Bevo appoggiato sulla lancia"[6]; e io allora mi facevo promotore di ilarità sgangherate inventando tutta una serie di frammenti che andavamo sfacciatamente a riproporgli"[7].
La chiave è proprio questa: far capire e sentire ai giovani che quel "mondo pagano" li riguarda. Certamente l'attenzione degli studenti ha un prezzo molto alto, quello della nostra preparazione che per essere buona richiede grandi rinunce e sacrifici.
Josef Knecht durante il suo apprendistato nel mondo spirituale della Castalia "imparò che un po' di questa capacità di attirare e d'influenzare gli altri è parte essenziale delle doti di un insegnante e di un educatore, e che nasconde pericoli e impone certe responsabilità"[8].
La grammatica serve a leggere i testi, la metrica aiuta a memorizzarli. Io credo le cosiddette regole grammaticali e sintattiche andrebbero mostrate attraverso i testi più belli degli autori più bravi, siccome la bellezza e la perizia colpiscono la sfera emotiva e questa potenzia la memoria favorendo il ricordo.
Del resto le regole non possono essere date all'ingrosso: "Qualcuno, chissà chi, v'ha scritto perfino una grammatica. Ma è una truffa volgare. A ogni regola ci vorrebbe la data e la regione dove si diceva così"[9].
Ricordo che nella primavera del 1959, quando facevo la quarta ginnasio al Terenzio Mamiani di Pesaro, venne in classe il preside, tal Michelangelo Marchi, e mi domandò, con aria severa, come si dicesse fato in latino. Voleva sapere, aggiunse, se meritavo il nove che aveva appena letto nella mia pagella.
Risposi "fatus". "Bugiardo! gridò quel brav'uomo, rosso in volto, quasi in preda all'ira. Poi, calmatosi, disse che l'avevo deluso, che con la mia colossale ignoranza l'avevo ferito, e profondamente, dato che con la valutazione chissà come ricevuta avrei dovuto sapere che si dice fatum, fatum, assolutamente fatum. Ci restai molto male, pensando di avere fatto un errore gravissimo, del tutto indegno di me, del mio curriculum e dell’onore che me ne derivava.

In effetti se fossi stato più bravo, avrei replicato che nel Satyricon si trova fatus[10].
Anche questo episodio si può togliere se dà fastidio.
Il fatto che il greco e il latino siano stati insegnati male per decenni, da troppi docenti, e digeriti male da molti studenti, non deve portarci alla conclusione che il loro studio vada abolito. Va piuttosto riformato e approfondito. Magari anche esteso.
Il latino e, attraverso la mediazione del latino, il greco, sono largamente presenti nel linguaggio e nel pensiero, del diritto, della medicina, delle letterature nell’Europa moderna sia neolatina dal Portogallo alla Romania, sia germanica, dalla Gran Bretagna alla Svezia, sia slava dalla Slovenia alla Russia, e pure nella zona ugrofinnica, dall’Ungheria - Pannonia alla Finlandia.
Le lingue classiche hanno contribuito a formare gli idiomi colti dell’Europa di oggi. In Grecia il moderno demotico non sarebbe nato senza la continuità con il greco colto antico e medievale.
Una lingua germanica come l’inglese è profondamente latinizzata: il 75% del suo vocabolario è latino e neolatino. In Italia il prevalere del fiorentino antico sugli altri dialetti è stato in gran parte determinato dalla sua prossimità al latino.
“L’orientamento verso il toscano in via d’essere assunto dalle élite colte a lingua nazionale fu certamente facilitato da un altro fattore, che del resto incise anche altrove: la prossimità originaria del toscano al latino, che era la lingua ufficiale della Chiesa controriformata ed era più pervasivamente presente nella città, dove monache, preti e frati spesseggiavano”[11]. Come l’inglese, “lingua d’origine germanica profondamente latinizzata”[12], l’italiano è poco chiaro per chi lo usa senza la capacità di orientarsi nel retroterra classico. Si pensi alla presenza di Seneca e di Plutarco in Shakespeare (tradotto in inglese da T. North).
T. S. Eliot trova delle analogie tra i personaggi di Seneca e quelli di Shakespeare precisamente nel loro arroccarsi dentro la propria individualità: "Nell'Inghilterra elisabettiana si hanno condizioni in apparenza affatto diverse da quelle di Roma imperiale. Ma era un'epoca di dissoluzione e di caos; e in tale epoca, qualsiasi attitudine emotiva che sembri dare all'uomo alcunché di stabile, anche se e soltanto l'attitudine di "io sono solo me stesso", è avidamente assunta. Ho appena bisogno di segnalare quanto prontamente, in un'epoca come l'elisabettiana, l'attitudine senecana dell'orgoglio, l'attitudine montaigniana dello scetticismo, e l'attitudine machiavellica del cinismo giunsero a una specie di fusione nell'individualismo elisabettiano. Questo individualismo, questo vizio d'orgoglio, fu, necessariamente, sfruttato molto a causa delle sue possibilità drammatiche... Antonio dice "Sono ancora Antonio"[13] e la Duchessa "Sono ancora Duchessa di Amalfi"[14]; avrebbe sia l'uno che l'altro detto questo se Medea non avesse detto Medea superest?"[15].

La nostra cultura politica e anche la nostra Costituzione vengono chiarite e rese più comprensibili dalla lettura di quelle raccontate dal secondo discorso di Pericle, il lovgo~ ejpitavfio~, nelle Storie di Tucidide (II, 35 - 46). Cfr. in particolare l’articolo 3, comma B.
L’articolo 3 è forse il più noto: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di religione, di condizioni personali e sociali.
Comma B. E’ compito della repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori alla organizzazione politica, economica e sociale del paese”.

Sentiamo ora il Pericle di Tucidide.
In effetti ci avvaliamo di una costituzione che non cerca di emulare le leggi dei vicini, ma siamo noi di esempio (paravdeigma) a qualcuno piuttosto che imitare gli altri. Di nome, per il fatto di essere amministrata non per pochi ma per la maggioranza, essa è chiamata democrazia; e di fatto secondo le leggi, riguardo alle controversie private, c’è una condizione di uguaglianza (to; i[son) per tutti, però secondo la reputazione, per come ciascuno viene stimato in qualche campo, non per il partito di provenienza (oujk ajpo; mevrouς) più che per il suo valore, viene preferito alle cariche pubbliche, e d’altra parte secondo il criterio della povertà (au\ kata; penivan), se uno può fare qualche cosa di buono per la città, non ne è mai stato impedito per l’oscurità della sua posizione sociale (ajxiwvmatoς ajfaneiva/ kekwvlutai II, 37, 1).

Sul tradurre
Cicerone afferma che nel tradurre non è opportuno attenersi alla lettera, ma si deve piuttosto interpretare l’originale: “Nec tamen exprimi verbum e verbo necesse erit, ut interpretes indiserti solent” (De finibus bonorum et malorum III, 15), non sarà del resto necessario che si traduca parola per parola, come sono soliti i traduttori stentati.
In un passo degli Academica, l’Arpinate afferma che i poeti arcaici, Ennio, Pacuvio, Accio, e molti altri, piacciono “qui non verba, sed vim Graecorum expresserunt poetarum” (III, 10), in quanto essi resero non le parole ma la forza dei poeti greci.
A parer mio, invece, se non traduci le parole non puoi esprimerne la forza o magari la debolezza, se la forza non c’è.

Comunque le scelte dell’autore vanno rispettate tutte, anche quelle che non ci piacciono. La traduzione tende spesso ad avvicinare al significato più banale l’innovazione linguistica dell’autore che rompe il luogo comune, e manifesta la propria originalità: per esempio la traduzione di fwnh'/ ga;r oJrw' di Edipo a Colono (v. 168) sentita al teatro greco di Siracusa nel maggio 2018 era “io vedo ciò che sento”, una banalizzazione, una riduzione alla banalità linguistica delle parole di Sofocle che tradotte una per una suonano: “alla voce infatti vedo”. A me sembranp molto migliori queste e ho sentito quella traduzione come una stonatura, il plhmmelev" denunciato da Socrate in Fedone 115e.
In altri casi l’espressione chiara e perspicua viene resa oscura. Come fece Sanguineti con un Ippolito di Euripide reso in un italiano incomprensibile al pubblico. Potei constatare anche questo difetto a Siracusa qualche anno fa. So bene che certe strutture sintattiche del greco e del latino non sono riproducibili specularmente nell’italiano[16], ma ritengo che le parole dell’autore debbano esserci tutte finché l’italiano è comprensibile.
Io mi trovo d’accordo piuttosto con Leopardi.
Almeno quando si insegnano le lingue si deve tradurre in modo da rendere evidente la corrispondenza tra le parole dell’idioma di partenza e quelle della lingua d’arrivo. In ogni caso lo esige il rispetto dell’autore.
So bene che certe strutture sintattiche del greco o del latino non sono riproducibili specularmente nell’italiano, come aveva fatto Sanguineti mantenendo in certi casi perfino l’ordine delle parole.
Queste del resto nella traduzione devono esserci tutte.
Leggiamo qualche riga dello Zibaldone sulla traduzione perfetta: “La perfezione della traduzione consiste in questo, che l’autore tradotto, non sia p.e. greco in italiano, greco o francese in tedesco, ma tale in italiano o in tedesco, quale egli è in greco o in francese. Questo è il difficile, questo è ciò che non in tutte le lingue e possibile” (2134).
La lingua italiana, la quale è “piuttosto un aggregato di lingue che una lingua, laddove la francese è unica”, ha maggiore facoltà rispetto alle altre “di adattarsi alle forme straniere (…) Queste considerazioni rispetto alla detta facoltà della nostra lingua, si accrescono quando si tratta della lingua latina, o della greca. Perché alle forme di queste lingue, la nostra si adatta anche identicamente, più che qualunque altra lingua del mondo: e non è maraviglia, avendo lo stesso genio, ed essendosi sempre conservata figlia vera di dette lingue, non solo per ragioni di genealogia e di fatto, ma per vera e reale somiglianza e affinità di natura e di carattere” (Zibaldone, 964 e 965).
“Amava moltissimo l’italiano perché era una lingua molteplice: come il greco, era un aggregato di molte lingue piuttosto che una lingua sola, e gli concedeva la libertà di tentare ogni stile. Se ebbe sempre molte riserve sulla metafisica, la morale e la cosmogonia di Platone, la sua ammirazione per il Fedro non aveva limiti. Trovava nello stesso testo “non dico tre stili, ma tre vere lingue”; la prima nel dialogo tra Socrate e Fedro, la seconda nelle due orazioni di Lisia e Socrate, la terza nell’orazione di Socrate “in lode dell’amore”[17].
Ma sentiamo direttamente Leopardi su questo: “Chi vuole vedere un piccolo esempio della infinita varietà della lingua greca, e come ella sia innanzi un aggregato di più lingue che una lingua sola, secondo che ho detto altrove, e vuol vederlo in uno stesso scrittore e in uno stesso libro, legga il Fedro di Platone. Nel quale troverà, non dico tre stili, ma tre vere lingue, l’una nelle parole che compongono il dialogo tra Socrate e Fedro, la quale è la solita e propria di Platone, l’altra nelle due orazioni contro l’amore, in persona di Lisia e di Socrate; la terza nell’orazione di questo in lode dell’amore.” (Zibaldone, 2717)


CONTINUA


[1] Così parlò Zarathustra, Dell’uomo superiore, 9
[2] Di là dal bene e dal male, Noi dotti.
[3] Frammenti postumi ottobre 1876 (4).
[4] Op. cit (6)
[5] F. Fellini, Fare un film, p. 101
[6] Si tratta di una parte del pentametro del fr. 2D. di Archiloco costituito da un distico elegiaco. Non è "l'unico verso rimasto" del poeta vissuto nel VII secolo a. C.
[7] F. Fellini, intervista sul cinema, p. 136.
[8] H. Hesse, Il giuoco delle perle di vetro, p. 155.
[9] Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, p. 116.
[10] Dopo avere mostrato qualche trovata stupefacente, Trimalchione affranca i servi e nomina erede Fortunata. Gli schiavi sono uomini, proclama l'anfitrione rimasticando dottrine stoiche: "et servi homines sunt et aeque unum lactem biberunt, etiam si illos malus fatus oppresserit. tamen me salvo cito aquam liberam gustabunt. Ad summam, omnes illos in testamento meo manu mitto " (71), pure gli schiavi sono esseri umani e hanno bevuto lo stesso latte, anche se un destino cattivo li ha schiacciati. Comunque, mi venisse un colpo, presto assaggeranno l'acqua libera. Insomma tutti quelli li affranco nel mio testamento. Si noti dunque fatus invece di fatum. Non e l'unico caso del genere: troviamo balneus (41) per il neutro balneum, bagno; vinus (12) per vinum; caelus (45, 3) per caelum; lasanus (47, 5) per lasanum, vaso da notte.
[11] Tullio De Mauro, Storia linguistica dell’Italia repubblicans dal 1946 ai nostri giorni (Editori laterza, Roma Bari 2014), p. 29
[12] Tullio De Mauro, Opera citata, p. 39
[13] "I am Antony yet ", Antonio e Cleopatra (del 1606 - 1607), III, 13.
[14] Da La duchessa di Amalfi (del 1614), di J. Webster (1580 - 1625).
[15] Shakespeare e lo stoicismo di Seneca, in T. S. Eliot Opere, p. 800. Medea superest e in Seneca, Medea, v. 166
[16] Per esempio ejxoidj ajnh; r w[n dell’Edipo a Colono non si può tradurre “so essente uomo, o so essendo uomo”.

[17] P. Citati, Leopardi, p. 58.

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