mercoledì 20 marzo 2019

L’approccio comparativo alle letterature antiche. Parte 4

Oscar Wilde
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L’approccio comparativo alle letterature antiche. Parte 4

Percorso della conferenza che tenuta il 26 gennaio 2019 per la Valent Academy centro studi internazionali di Milano con la partecipazione di studenti e professori del liceo Manzoni

L’approccio comparativo alle letterature antiche

Introduzione alla metodologia dell’insegnamento delle lingue e letterature greca e latina con taglio europeo e topologico

Essere se stessi dunque è difficile, persino pericoloso, ma non diventare quello che si è significa non vivere la propria vita, bensì quella degli altri: “Nihil ergo magis praestandum est quam ne pecorum ritu sequamur antecedentium gregem, pergentes non quo eundum est sed quo itur[1], niente allora dobbiamo fare con cura maggiore che evitare di seguire il gregge di coloro i quali ci stanno davanti, alla maniera delle bestie, dirigendoci non dove dobbiamo andare ma dove si va.
“Il bruto è più tenace e servo dell’assuefazione”[2].
Riporto una espressione di O. Wilde nella cui filigrana si può leggere Seneca: “La morale moderna consiste nell’accettare i luoghi comuni della nostra epoca, ed io credo che per un uomo colto l’accettare i luoghi comuni della propria epoca sia la più rozza forma di immoralità”[3].
Dei luoghi comuni, e non solo di questi, si impossessa sempre la pubblicità che vuole impadronirsi dei nostri cervelli e dei nostri cuori.
“Il senso della filologia classica è quello di agire nel tempo nostro in modo inattuale, cioè contro il tempo e in favore di un tempo venturo”[4].
La conoscenza della paideia classica è anche una difesa dal veleno della pubblicità che cerca di colonizzare e intossicare i nostri cervelli.
Epicuro: “tra i desideri (tw'n ejpiqumiw'n) alcuni sono solo naturali (fusikaiv), altri anche necessari (ajnagkai'ai). Altri sono vani (kenaiv).
Tutto ciò che è naturale richiede solo quanto è facilmente procurabile (eujpovriston)” Epistola a Meneceo (127 - 130). Ciò che è vano invece è difficile da procacciarsi: to; de; keno;n duspovriston. 
Cicerone nei Paradoxa Stoicorum[5] ha scritto più sinteticamente: "non esse emacem vectigal est" (VI, 51). Non essere smanioso di comprare è una rendita.

Un altro antidoto al veleno pubblicitario, a ogni veleno, può essere lo sguardo aperto alla natura: osservare il cielo splendente.
Nelle Baccanti di Euripide, Cadmo suggerisce alla figlia Agave impazzita di guardare il cielo: “ej~ tovnd j aijqevr j o[mma so;n mevqe~” (v. 1264), lascia il tuo occhio aperto qui al cielo.
Guardare il cielo apre gli occhi dell’anima a Bill Loman, il figlio di Willy Loman, il commesso viaggiatore di Arthur Miller. Il padre, infuriato in seguito a un aspro diverbio, gli dice: “E allora impiccati! Fammi quest’ultimo dispetto! Impiccati!” e il giovane risponde: “No, Willy, nessuno s’impicca! Oggi mi sono precipitato per dodici piani con una penna in mano. E tutt’a un tratto mi sono fermato, capisci? In mezzo alle scale mi sono fermato e ho visto il cielo. Ho visto le cose che mi piace fare a questo mondo. Lavorare e mangiare e sdraiarmi, fumare una sigaretta. E stavo lì con questa penna in mano e mi sono detto: ma che Cristo l’ho rubata a fare?”[6].
Guardare il cielo, osservare le sorgenti dei fiumi, notare l’innumerevole sorriso delle onde marine e amare la terra madre di tutti noi[7].

Il mito
I miti classici sono parte del fondamento della nostra cultura e della nostra identità.
I miti sono quasi sempre racconti sulle origini e spesso danno forma, per dirla con Nietzsche a “un’immagine concentrata del mondo”[8], un’immagine che può essere spiegata e attualizzata fino a darci chiarimenti su eventi cui assistiamo o partecipiamo ogni giorno.
C. Pavese: “Il mito greco insegna che si combatte sempre contro una parte di sé, quella che si e superata. Zeus contro Tifone, Apollo contro Pitone (…) chi non ha grandi ripugnanze non combatte”[9].
Il mito fa parte della nostra vita, realmente: Pasolini nel film Medea fa dire al Centauro il quale istruisce il piccolo Giasone che dovrà andare in cerca del vello d’oro “in un paese lontano al di là del mare. Qui farai esperienze di un mondo che è ben lontano dall’uso della nostra ragione, la sua vita è molto realistica come vedrai perché solo chi è mitico è realistico e solo chi è realistico è mitico”[10].
A proposito della pubblicità fallace, il più effimero degli eventi, anche questa è collegabile al mito che ne racconta l’origine appunto: la prima réclame scritta è quella inviata da Aconzio a Cidippe.
Bettini afferma che "anche i pubblicitari sono degli Aconzi"[11]. Il giovane Aconzio obbligò Cidippe a sposarlo scrivendo delle parole e facendole leggere alla ragazza che era sul punto di maritarsi con un altro.
"La scrittura di Aconzio è il seme di tutte le scritture astute, e l'unico modo per sottrarsi alla sua trappola sarebbe quello di non leggerla. Ma è possibile? "[12].
Nella festa di Apollo a Delo, Aconzio di Ceo si innamora di Cidippe di Nasso e la vincola a sé gettandole un pomo su cui aveva scritto: “Lo giuro per Artemide: io sposerò Aconzio”.
Questo racconto si trova negli Aitia di Callimaco. Febo rivelò a Ceuce, il padre di Cidippe che la ragazza in procinto di sposare il fidanzato si ammalava a morte poiché un giuramento grave (baru;~ o{rko~, Ai[tia fr. 75 Pf., v. 22) impediva le nozze alla fanciulla la quale fu sentita da Artemide in visita a Delo quando giurò che avrebbe avuto come sposo Aconzio e non altri jAkovntion oJppovte sh; pai`~ - w[mosen, oujk a[llon, numfivon ejxemevnai[13] (vv. 26 - 27).
La storia e narrata anche da Ovidio nelle Heroides. Aconzio scrive a Cidippe e le ricorda “volubile malum - verba ferens doctis insidiosa notis” (XX, 211 - 212), la mela che rotolava portando parole insidiose in formule dotte. Queste furono lette nella sacra presenza di Diana e la fides di Cidippe ne rimase vincta.
Cidippe risponde ad Aconzio che sta morendo, si sente sballottata come una nave, ipsa velut navis iactor (XXI, v. 43), veneficiis tuis (54) per le tue parole avvelenate. La ragazza ricorda che navigava verso Delo impaziente di arrivare. Aconzio ne vide la semplicità e gli sembrò che potesse essere facile preda: “visaque simplicitas est mea posse capi” (v. 106).
Non fu una prudens simplicitas quale quella che Marziale augura a se stesso (10, 47, 7).

Le venne gettata davanti ai piedi una mela con i versi che Cidippe non vuole ripetere “mittitur ante pedes malum cum carmine tali” (v. 109). La nutrice raccolse l’ingannevole frutto e lo fece leggere alla ragazza: “insidias legi, magne poeta, tuas” (112). Aconzio non deve essere fiero di avere preso con ‘inganno una fanciulla poco esperta: “sumque parum prudens capta puella dolis” (v. 124).

E’ stata ingannata come Atalanta da Ippomene. Aconzio avrebbe dovuto convincerla more bonis solito (v. 129), come fanno i galantuomini, non ingannarla costringendola a proferire sine pectore vocem (143), una voce senza anima. Ora, invece della fiaccola di nozze, c’è quella di morte: “et face pro thalami fax mihi mortis adest” (v. 174). “mirabar quare tibi nomen Acontius esset” (v. 211), mi domandavo con stupore perché ti chiamassi Aconzio, ora lo so[14]: “quod faciat longe vulnus, acumen habes” (v. 212), hai una punta che provoca ferite anche da lontano.
La ragazza ferita sta morendo: “concidimus macie, color est sine sanguine, qualem/in pomo refero mente fuisse tuo” (vv. 217 - 218), sono estenuata dalla magrezza, il colore è senza sangue, quale, come ricordo, era il tuo pomo.
Ecco dunque il paradigma mitico del tossico pubblicitario delle parole ingannevoli e velenose continuamente scagliate dalla pubblicità
Le voci di questi auctores, veri e propri accrescitori della nostra anima, della nostra capacità di intendere il mondo, conservano la loro eco attraverso i secoli e tutta la letteratura europea forma un corpo, del quale, come scrisse T. S, Eliot, il latino e il greco sono il sangue.
"Il latino e il greco[15] costituiscono la corrente sanguigna della letteratura europea: e come un solo, non gia due distinti sistemi di circolazione; giacché è attraverso Roma che possiamo ritrovare la nostra parentela con la Grecia"[16].

Il fatto è che se non saliamo sulle spalle dei classici e ci lasciamo confondere dal frastuono ignorandoli, rimane assai limitata la nostra visione, non solo quella esterna del mondo, ma anche quella interiore, di noi stessi.
A questo proposito ricordo un aforisma che Giovanni di Salysbury (XII secolo[17]) attribuisce a Bernardo di Chartres[18]: "Dicebat Bernardus Carnotensis nos esse quasi nanos gigantum humeris insidentes, ut possimus plura eis et remotiora videre, non utique proprii visus acumine, aut eminentia corporis, sed quia in altum subvehimur et extollimur magnitudine gigantea".
(Metalogicon III, 4), diceva Bernardo di Chartres che noi siamo come dei nani che stanno sulle spalle di giganti, in modo tale che possiamo vedere più cose di loro e più lontane, senza dubbio non per l'acume della nostra vista o la statura del corpo ma poiché siamo portati in alto ed elevati da quella grandezza gigantesca.

Del resto la coscienza di non dire nulla di completamente nuovo si trova già negli autori antichi: Eschilo[19] diceva che le sue tragedie erano fette del grande banchetto omerico (Aijscuvlo" (…) o}" ta;" auJtou' tragw/diva" temavch[20] ei\nai e[legen tw'n JOmhvrou megavlwn deivpnwn"[21]).
Callimaco afferma: ajmavrturon oujde;n ajeivdw"[22], non canto nulla che non sia testimoniato. Altri esempi (in Terenzio, Leopardi, Musil) si trovano nello svolgimento del capitolo VIII di questa metodologia.

CONTINUA


[1] Seneca, De vita beata, 1, 3.
[2] Leopardi, Zibaldone, 1762.
[3] Il ritratto di Dorian Gray, p. 88.
[4] Nietzsche, Prefazione a Utilità e danno della storia.
[5] Del 46 a. C.
[6] Morte di un commesso viaggiatore, in A. Miller, Teatro, trad. it. Einaudi, Torino, 1959, p. 294
[7] Cfr. Eschilo, Prometeo incatenato, vv - 88 - 90 pontivwn te kumavtwn - ajnhvriqmon gevlasma. Cfr. anche D’Annunzio, Elettra: “Il riso innumerevole delle onde marine”.
[8] La nascita della tragedia, cap. 22.
[9] Il mestiere di vivere, 28 dicembre 1947.
[10] P. P. Pasolini, Medea in Il vangelo secondo Matteo, Edipo re, Medea, p. 545
[11] Con i libri, p. 9.
[12] M. Bettini, Op. cit. , p. 10.
[13] Infinito futuro epico di e[cw.
[14] ajkovntion significa dardo
[15] Io metterei prima il greco.
[16] Che cos’e un classico? (conferenza del 1944) In T. S. Eliot, Opere, p. 975.
[17] Giovanni di Salisbury (lat. Iohannes Saresberiensis). - Scrittore e prelato (Salisbury tra il 1110 e il 1120 - Chartres 1180), una delle maggiori figure nella cultura del XII sec. Formatosi alla scuoladei piu famosi maestri di Parigi e Chartres negli anni 1136 - 48 (Abelardo, Guglielmo di Conches, Gilberto Porretano, ecc.), divenne in Inghilterra segretario dell'arcivescovo di Canterbury (prima di Teobaldo poi di s. Tommaso Becket); spesso incaricato di tenere i rapporti col re d'Inghilterra e con la Santa Sede, si dovette trasferire, dopo l’assassinio (nella cattedrale) di Tommaso Becket (1170), in Francia e fu creato vescovo di Chartres (1176). Le opere maggiori di G., tra le piu significative per la cultura del XII sec. , sono il Metalogicon e il Polycraticus. La prima, scritta in difesa della logica (donde il titolo), combatte le correnti utilitaristiche e sofistiche (soprattutto i cosiddetti "cornificiani", dal nome, forse allusivo, di Cornificio con cui e indicato il loro caposcuola) e prospetta un ideale di cultura (o philosophia) che riunisca armonicamente trivio e quadrivio, il sapere letterario e quello scientifico; ma soprattutto al primo è legato Giovanni educato alla lettura dei classici latini e in particolare a Cicerone, del quale egli vuole seguire anche l'equilibrato accademismo: infatti, nel passare in rassegna sistemi e maestri dell'età sua, cerca di mettere sempre in evidenza la difficoltà di risolvere definitivamente i massimi problemi (di particolare interesse quello che dice sul problema degli universali, a suo avviso irrisolvibile. Giovanni fu tra i primi a conoscere tutte le opere logiche di Aristotele). Non meno importante e il Polycraticus sive de nugis curialium et vestigiis philosophorum, soprattutto per la storia delle dottrine politiche: egli sostiene l'origine divina del potere regale e quindi la sua dipendenza dal potere sacerdotale; se il re poi si tramuta in tiranno, ne è lecita l'uccisione. G. scrisse anche in versi (Entheticus seu de dogmate philosophorum) le sue idee filosofiche, sviluppando motivi del Metalogicon. Le sue lettere sono documenti interessantissimi per lo studio del tempo. Incompleta ci è giunta l'Historia pontificalis (1148 - 52), che tratta del pontificato di Eugenio III.
[18] Bernardo di Chartres. - Filosofo francese (m. tra il 1126 e il 1130), e tra i maggiori maestri di Chartres, dove insegnò dal 1114 al 1119; fu poi a Parigi; gli furono discepoli Giovanni di Salisbury, che lo giudicò "il piu perfetto fra i platonici", Guglielmo di Conches e Riccardo di Coutances. Nulla resta delle sue opere, ma del suo insegnamento abbiamo interessanti notizie da Giovanni di Salisbury: sulla tecnica dell'insegnamento, sull'amore per gli auctores antichi con una precisa e positiva valutazione dei "moderni", sulle dottrine logiche (realismo platonico: sulle idee sono esemplate le formae nativae che informano la materia). Nani sulle spalle di giganti è una metafora con cui si esprime un rapporto di dipendenza della cultura moderna rispetto all’antica. Essa s’incontra per la prima volta (1159 ca. ) nel Metalogicon (III, 4) di Giovanni di Salisbury, che ne attribuisce la paternità al suo maestro Bernardo di Chartres
La frase fu ripetuta spesso fino alla Querelle des Anciens et des modernes (fine XVII sec. ) sempre per rilevare il debito dei moderni verso gli antichi.
[19] 525 - 455 a. C.
[20] Cfr. tevmnw. “taglio”.
[21] Ateneo (II - III sec. d. C.) I Deipnosofisti, VIII, 39.
[22] Fr. 612 Pfeiffer.

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