martedì 23 aprile 2019

Confutazione della feminei corporis feditas esecrata da Agostino nel "Secretum" di Petrarca

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Premessa
Una volta, tanti anni fa, un collega omosessuale mi invitò a cena in casa sua e mi corteggiò. Gli risposi che andavo matto per le donne. Colui cominciò a deprecare la repellenza delle mestruazioni: come potevano piacermi? Avrei dovuto ripensarci.
Perché racconto questo? Perché certo cristianesimo, lontanissimo da Cristo che salvò la vita all'adultera con parole davvero sante, ha predicato e suggerito per secoli l' aborrimento nei confronti del sesso e della donna. 
Faccio un solo esempio tratto dal Secretum di Petrarca dove "Santo" Agostino dice a Francesco: "cogita quid est quod tam ardenter expetis (...) Pauci enim sunt qui, ex quo semel virus illud illecebrose voluptatis imbiberint, feminei corporis feditatem de qua loquor, sat viriliter, ne dicam satis constanter, examinent (III, 70). Qui a Bologna ho avuto fama di donnaiolo e di comunista: per questi motivi sono stato non famoso bensì malfamato. Senza del resto che me ne sia mai sentito offeso, anzi.
Comunista infatti per me significa non egoista, e amare le donne vuole dire amare la vita vivente su questa terra.
Per quanto riguarda i sedicenti cristiani, di fatto Anticristi, Papa Francesco sta rimediando a secoli di orrori persecutori e ritrovando il ruolo di Vicario di Cristo.

L’amore con le mestruazioni
Mercoledì 6 giugno  la terra era ancora fiorita e odorosa come la mia bella compagna, sebbene la vegetale  materia dei fiori cominciasse a illanguidirsi nell’aria canicolare, bianchiccia, e tutti i profumi, incendiati dal caldo violento del meriggio estivo, tendessero a degenerare in un alito acre, denso, quasi eccitante, e, nello stesso tempo, angoscioso.
Il grano maturo, muovendosi con fatica nell’afa dolciastra, sembrava aspettare la falce che gli avrebbe tagliato le spighe, e l’aratro che  avrebbe maciullato i gambi tra i solchi, come succede sempre con il declinare dei mesi più belli e luminosi, perché la successiva putredine diventi vitale e torni a generare la vita.
Cominciammo a scendere per la solitudine  di un pendio del tutto deserto di essere umani ma brulicante di insetti, sonoro di versi trillanti di uccelli, del gorgogliare di  rane lontane, nascoste nelle poche pozze rimaste a corto di acqua. Dagli alberi veniva il  grande frastuono  di grigie cicale che, pazze di sole [1], strepitavano strane preghiere al dio onnipotente.   
L’erba alta ci rendeva difficile camminare abbracciati giù per la ripida china, sicché ci fermammo a metà del colle dove c’era una casa colonica abbandonata che ci offrì la spianata dell’aia deserta.
Ci fermammo a osservare il luogo dove volevamo restare, forse anche fare l’amore. Nel calore potente di quel meriggio in cui sembrava culminare anzitempo l’estate, il cielo era quasi canuto per l’afa, il verde dell’erba stava trascolorando nel giallo, i papaveri erano stinti e afflosciati, il grano era albino piuttosto che biondo. I profumi, invece, erano tutti esaltati e salivano su dalla terra bruciando, clamorosi e invadenti come le voci degli animali che preannunciavano l’olocausto odoroso del mondo nell’ardore  della canicola.
Ricordi?” domandò Ifigenia, “Ricordi quando in autunno la bruma scoloriva il sole, ammutoliva gli uccelli, uccideva o faceva fuggire gli insetti, e tu esitavi a darmi la mano? Ora che ci fidiamo a vicenda, e siamo quasi svestiti, possiamo congiungerci come vogliamo. Io ne sento la voglia. L’attrazione e la fiducia mi uniscono a te con nodi inestricabili”.
Pensai a quello non risolvibile di Gordio che purtuttavia venne annientato con un colpo di spada, poi guardai il sole che stava riducendo le ombre a scogli bruni nel mare di luce.
Dai facciamo l’amore” dissi “Ne ho tanta voglia anche io. Ti prego, ti prego, ti prego”, aggiunsi, parodiando le sue preghiere mimetiche di una malizia giovanile e, nello stesso tempo, imperiosa.
Sì, ma facciamolo in piedi, come non l’abbiamo fatto mai ancora,  una vergogna per due come noi! ” propose tutta contenta Ifigenia. La stuzzicava la novità della postura e la spaventava il pensiero di stendere la schiena morbida, liscia, quasi a contatto con le scabrosità del terreno riarso, dal quale i nostri indumenti leggeri, minuti, potevano costituire un diaframma assai inefficace.
Oltretutto Ifigenia aveva le mestruazioni. Si levò i calzoncini, poi, come sempre quando aveva il flusso, mi chiese di non guardarla mentre si toglieva ogni altro impedimento a fare l’amore. Girai il viso in alto, verso il primo fra tutti gli dèi[2] che era arrivato a infuocare completamente anche l’aia semi-infossata dove eravamo lontani da umane presenze, da altre case, da strade. Doveva essere il tócco[3]: l’ora dei raggi più dritti e potenti. Mentre li contemplavo, aspettando che Ifigenia mi permettesse di rivolgerle ancora lo sguardo, mi venne in mente il tramonto del 28 ottobre dell’anno prima, quando la splendidissima ventiquattrenne, la ragazza supplente conosciuta da poco, mi aveva chiesto di non guardarla finché si cambiava la maglietta sudata e io avevo visto il suo petto fiorente riflettersi nel pallido sole rosaceo, accrescendone luce e calore. Il 6 giugno invece, pensando a quel giorno lontano e alle sue mestruazioni presenti, vidi la fiamma che nutre la vita striarsi di gocce scarlatte che, percorsa la sfera infuocata, si adunavano intorno al bordo inferiore e lo orlavano con uno strano ricamo di luce liquida, ardente, pronta a stillare sul suolo terrestre per rigenerarne la vita.
Ifigenia mi distolse dalla visione estatica. “Vieni Gianni, facciamo l’amore”. Fu assai faticoso. Così, senza sdraiarci, non l’avevamo proprio mai fatto. Dopo, eravamo più esausti che soddisfatti. Mi scostai un poco e sedetti sulla terra bruciata. Ifigenia rimase in piedi con le belle gambe divaricate davanti ai miei occhi: era seria, muta, e mi guardava con l’espressione del desiderio non appagato. Quindi disse: “alzati. Facciamolo ancora”.
Aspetta un momento” risposi, “rimani così come stai ora. Voglio guardarti”. Mi interessava osservare quello stranissimo aspetto della vita trionfante, una sembianza che forse non avrei visto mai più: l’immagine di una donna giovane assai, nuda, bella come un’opera d’arte, una statua viva, illuminata dal sole di giugno mentre il sangue mensile le scorreva giù per le cosce.
Guardavo ora i suoi occhi fissi nei miei, ora le gambe un poco aperte davanti al mio volto. Il sangue colava verso le ginocchia in rivoli ostacolati dal sole rovente che, disseccando parte del liquido, ne frenava la corsa in discesa lungo il pur ripido e liscio pendio. La coscia sinistra era percorsa da due rigagnoli rossi, la destra da uno. Quel sangue, fluente non senza fatica, mi fece pensare: “Ifigenia nelle belle membra non si discosta troppo dalla madre mia, da mia sorella e da me: se fosse mia figlia, e tra noi ci fosse un legame di sangue, saremmo incestuosi ma sicuri per il vincolo eterno”. Le volli comunicare il pensiero che, ne ero sicuro, le sarebbe piaciuto.
Tesoro, ti piacerebbe se fossi davvero il padre tuo?” Di fatto era appena possibile, poiché Ifigenia aveva una decina di anni meno di me, però a volte ci presentavamo, per gioco, come parenti di vario grado. Io potevo esserle quasi padre, o più plausibilmente zio, o cugino, o fratello maggiore e così via.
Sì, Gianni”. Rispose. “Sì, mi piacerebbe tanto. Adesso però facciamo l’amore”.
Continuava a fissarmi  senza dire altro, come se fosse davvero una statua immobile e senza pensiero. Le abbracciai la coscia sinistra. I due rivoli bagnarono la guancia mia destra senza contaminarla, anzi purificandola: sentivo di amare quella creatura mirabile come amo la giovinezza, la natura, la vita; come amo i ricordi della mia adolescenza; come amo mia madre, come amo il mare di Pesaro dove entro di giorno e di notte perché mi fido di lui; come amo Moena con i monti antropomorfi cui parlavo quando ero bambino senza altri amici, ed essi, per loro umanità mi rispondevano, un’umanità che più avanti non ho trovato in tanti altri dall’aspetto umano; come amo il Ghisallo e lo Stelvio, o il Taigeto, o il Parnaso e l’Olimpo quando li scalo con la bicicletta; come amo il grande bosco di Debrecen, quando nelle notti serene di luglio e di agosto, when the living is easy, così cantava la dolce, forte, matura Elena, lo attraversavo guardando il cielo stellato e la luna che appariva e spariva tra gli alberi antichi, e io  sorridevo di gioia per la stupefacente bellezza di questo creato mirabile dove avevo la buona ventura di vivere amando, riamato dalla donna bella che era con me. Elena, Kaisa, Päivi.
Mi scostai per guardare di nuovo Ifigenia, il dono più recente, il regalo nuovissimo che la sorte benigna, generosa, mi aveva elargito.
I rivoletti sanguigni, ostruiti e schiacciati dalla mia faccia,  avevano formato una macchia: un piccolo lago vermiglio, appiccicoso, incollato a una parete di carne. Una composizione nuova della daedala tellus[4], artistica madre natura.
Si sentivano sempre stridere le cicale pazze, gorgogliare le rane da stagni remoti, trillare gli uccelli con voci e voli che sembravano di ottimo auspicio.
Non è che i volatili conoscano il futuro, ma i loro canti e  voli sono guidati da dio e c’è un disegno della provvidenza persino nel cinguettare di un passero[5].
Mentre la contemplavo,  la ragazza, la figlia adottata, diventava la grande madre natura. I suoi capelli violacei erano foreste fitte, dense di ombre; gli occhi neri, due laghi montani cupi di  misteri  indecifrabili nel centro profondo, circondati da rive bianche, orlati da alberi scuri; i seni erano colline  dalle cime appuntite; il crine pubico stillante quel liquido rosso era un cespuglio di lamponi maturi spremuti lì sulla pianta da mani pie di sacerdoti santi, intenti a libarli agli dèi. Lo stomaco teso della divina creatura era una distesa marina quando il calore meridiano senza vento spiana e addormenta la superficie lucente; la schiena abbronzata dove cadevano i folti capelli era una valle ombreggiata da grandi foreste; le braccia, promontori di terra protesa verso di me per salvarmi dai ricorrenti naufragi.
Sentivo che se fossi riuscito ad amarla , con gioia, senza riserve, avrei amato nello stesso modo la vita del mondo e la stessa mia vita.
Ti amo” dissi dopo averla ammirata a lungo. “Vorrei esserti padre e che questo sangue di cui mi hai asperso benedicendomi, scorresse dentro di me”.
Non rispose. Facemmo ancora l’amore, scomodamente, poi ci rivestimmo con gli indumenti leggeri della stagione nuda e felice.
Mentre risalivamo la china per tornare alla nera Volkswagen, disse che voleva fuggire dalla casa del marito, un tanghero non più sopportabile, e che se non l’avessi aiutata io, avrebbe accettato l’offerta di un suo amico strambo, un ferroviere cuccettista che l’aveva invitata in Provenza.
La stolta minaccia mi diede l’angoscia. Io non sono incline a prendermi alcuno in casa, poiché temo di perdere l’autonomia conquistata a fatica, e quanto al matrimonio sono contrario perfino a quello degli eterosessuali. Anzi, credo addirittura che, essendo le nozze un atto contro natura, si confacciano più agli omosessuali che a quelli come me.
Ma non dissi questo, forse all’epoca nemmeno lo credevo. Ora è politicamente scorretto, ma lo scrivo lo stesso.
Le risposi, con giusta durezza: “Io mi sono impegnato ad aiutare i miei allievi di terza liceo che Mortimer non è in grado di preparare per l’esame di maturità. Tu fai come vuoi”.
E pensai: “Elena tradiva il marito dal quale aspettava un bambino, ma con me non è mai stata tanto importuna e sciocca”. Allora non avevo la capacità di comprendere acquisita attraverso le sofferenze e le gioie dei successivi decenni di vita
Intanto era già pomeriggio e, sia pure di poco, cominciavano ad allungarsi tutte le ombre.

gianni



[1] Cfr. Aristofane, Uccelli, 1096.
[2] Nell'Edipo re  di Sofocle il sole è" pavntwn qew'n provmo" "(660),  il primo fra tutti gli dei, e "th;n..pavnta bovskousan flovga "(v. 1425), la fiamma che nutre la vita. Solo uno empio e pazzo può pensare che il Sole non sia un dio, o, per lo meno, l’immagine visibile dell’Idea del Bene, ovvero di Dio, come insegna Platone. Forse nei Greci c’è il ricordo e la ripresa dell’idea religiosa del faraone “eretico” Amenophi IV.
[3] E’ un toscanismo per “l’una”. Lo uso per affetto verso mia madre Luisa, le mie zie, Rina, Giulia, Giorga e mio nonno Carlo Martelli di Borgo San Sapolcro. Il loro borgo natìo. E anche per nostalgia della mia infanzia e adolescenza quando vivevo con loro, ancora tutti vivi. C’era anche la cara nonna Margherita ma lei era nata a Pesaro dove si viveva negli anni Cinquanta. Se amo tanto le donne, lo devo alle donne di casa mia, e al caro nonno Carlo che mi ha lasciato anche l’amore per il sole e per la bicicletta.
[4] Lucrezio, De rerum natura, I, 7
[5] Cfr.  Shakespeare, Hamlet V, 2 there’s a special providence in the fall of a sparrow.

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