domenica 14 aprile 2019

Leopardi e gli Antichi. Alcuni topoi. Parte 6. Leopardi e il genere drammatico. Leopardi critico letterario

Leopardi

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Dalla conferenza Leopardi e gli Antichi, 15 aprile 2019, biblioteca Scandellara di Bologna


Leopardi sottovaluta il dramma
Leopardi sostiene che il genere drammatico, rispetto alla poesia lirica e a quella epica, “è ultimo dei tre generi, di tempo e di nobiltà. Esso non è un'ispirazione, ma un'invenzione; figlio della civiltà, non della natura; poesia per convenzione e per volontà degli autori suoi, più ch per la essenza sua… Il dramma non è proprio delle nazioni incolte. Esso è uno spettacolo, un figlio della civiltà e dell'ozio, un trovato di persone oziose, che vogliono passare il tempo, in somma un trattenimento dell’ozio, inventato, come tanti e tanti altri, nel seno della civiltà, dall’ingegno dell’uomo, non ispirato dalla natura, ma diretto a procacciare sollazzo a se e agli altri, e onor sociale e utilità a se medesimo. Trattenimento liberale bensì e degno; ma non prodotto della natura vergine e pura, come è la lirica, che è sua legittima figlia, e l'epica, che è sua vera nepote"(Zibaldone, 4235 - 4236).
Ancora: “Essa[1] è cosa prosaica: i versi vi sono di forma, non di essenza, né le danno natura poetica. Il poeta è spinto a poetare dall’intimo sentim. suo proprio, non dagli altrui. Il fingere di avere una passione, un caratt. ch’ei non ha (cosa necess. al drammat.) è cosa alienis. dal poeta…Quanto più un uomo è di genio, quanto più è poeta, tanto più avrà de’ sentimenti suoi propri da esporre, tanto più sdegnerà di vestire un altro personaggio, di parlare in persona d’altrui, d’imitare, tanto più dipingerà se stesso e ne avrà il bisogno, tanto più sarà lirico, tanto meno drammatico” (4357). 
E più avanti: “Il romanzo, la novella ec. sono all’uomo di genio assai meno alieni che il dramma, il quale gli è più alieno di tutti i generi di letteratura, perché è quello che esige la maggior prossimità d’imitazione, la maggior trasformazione dell’autore in altri individui, la più intera rinunzia e il più intero spoglio della propria individualità, alla quale l’uomo di genio tiene più fortemente che alcun altro” (4367).
Mi sembra un grave difetto d’incomprensione del pur grande e caro Recanatese.

Così si limita il valore anche dell’epica e del romanzo e pure dell’elegia, e insomma tutte le opere letterarie che hanno parti mimetiche (dialoghi) oltre le diegetiche (narrative).

Platone nel III libro della Repubblica fa dire a Socrate che c’è una poesia la quale si svolge διὰ μιμήσεως, per via mimetica. Questa è la poesia drammatica, ossia la tragedia e la commedia; poi c’è la semplice narrazione senza mimesi (ἄνευ μιήσεως ἁπλῆ διήγησις) (394a - b) attraverso il racconto del poeta stesso, e si tratta dei ditirambi[2]; quindi l’epica che ha entrambi gli aspetti (δι᾽ ἀμφοτέρων) (394c).

La stessa cultura ateniese viene considerata manchevole poiché non ci furono poeti lirici ateniesi.
Io dico perché la letteratura ateniese fu politica, mentre la lirica è impolitica. 
Ma sentiamo Leopardi: “Si dice con ragione che quasi tutta la letteratura greca fu Ateniese. Ma non so se alcuno abbia osservato che questo non si può già dire della poesia; anzi, che io mi ricordi, nessun poeta greco di nome (eccetto i drammatici, che io non considero come propriam. poeti, ma come, al più, intermedii fra’ poeti e’ prosatori) fu Ateniese. Tanto la civiltà squisita è impoetica (22. sett. 1828). Però, chi dice che la lett. gr. fiorì principalm. in Atene, dee distinguere, se vuol parlar vero, ed aggiungere che la poesia al contrario. ec. (22. Sett. 1828)”[3].

Scrivere per il popolo
Eppure Leopardi sa che la grande arte ha la prospettiva di rivolgersi a un popolo intero, di educarlo: “Gli antichi greci e anche romani avevano le loro gare pubbliche letterarie, ed Erodoto scrisse la sua storia per leggerla al popolo. Questo era ben altro stimolo che quello di una piccola società tutta di persone coltissime e istruitissime dove l’effetto non può mai esser quello che fa il popolo, e per piacere ai critici si scrive: 1. con timore, cosa mortifera; 2. si cercano cose straordinarie, finezze, spirito, mille bagattelle. Il solo popolo ascoltatore può far nascere l’originalità la grandezza e la naturalezza della composizione”[4]. Si noti la contraddizione rispetto a quando ha scritto sul genere drammatico

Ehrenberg
“Il Tragediografo attico scriveva per il popolo degli Ateniesi, al cui giudizio si sottometteva, in quanto partecipava all’agone, scriveva per una festa religiosa dello Stato e del popolo. Con ciò egli si rivolgeva allo stesso pubblico cui Pericle parlava nelle assemblee popolari… Non scriveva per un manipolo di raffinati conoscitori e neppure per una classe elevata colta. Era un uomo che parlava al proprio popolo, ai suoi concittadini; le sue opinioni, le sue credenze e i suoi sentimenti erano, a un dipresso, identici a quelli loro, anche se, per così dire, si trovavano in lui sopra un piano più alto… questo suo messaggio si rivolgeva ai viventi e non ai posteri… Se mai arte severa e grande appartenne al popolo e fu intesa, ammirata e amata dal popolo, questa fu la tragedia attica”[5].

Un poco di critica letteraria. Leopardi e altri
“L’Iliade oltre a essere il più perfetto poema epico quanto al disegno, in contrario di quello che generalmente si stima, lo è ancora quanto ai caratteri principali, perché questi sono più interessanti che negli altri poemi. E perché sono più amabili. E sono più amabili perché più conformi a natura, più umani, e meno perfetti che negli altri poemi” (Zibaldone, 3613)
“Gli eroi dell’Iliade sono grandi uomini secondo natura, gli eroi degli altri poemi epici sono grandi secondo ragione; le qualità di quelli sono più materiali, esteriori, appartenenti al corpo, sensibili; le qualità di questi sono tutte spirituali, interiori, morali, proprie dell’animo”(3614) 
“Queste considerazioni hanno tanto maggiore forza in favore di Omero, e in favore della nostra opinione che vuol che si segua il suo esempio, quanto che è natura della poesia il seguir la natura, e vizio grandiss. e dannosiss. anzi distruttivo d’ogni buono effetto e contraddittorio in lei, si è il preferire alla nat. la ragione. La mutata qualità dell’idea dell’Eroe perfetto ne’ poemi posteriori all’Iliade proviene da quello stesso principio che poi crescendo, ha reso la poesia allegorica, metafisica ec. e corrottala del tutto, e resala non poesia, perché divenuta seguace onninam. della ragione, il che non può stare con la sua vera essenza” (3614)
Insomma: "il realismo, in arte, è greco; l'allegorismo è ebraico", ebbe a scrivere Pavese[6]. Questo vale per l’arte e la lettratura fino al V secolo a. C.
Sentiamo che cosa è il realismo dei Greci secondo Gilbert Murray:“Io intendo per realismo un interesse permanente per la vita in se stessa, e un’avversione per l’irrealtà e le false apparenze”[7].
Campione del realismo può essere considerato Tucidide che, proprio per questo motivo, Nietzsche contrappone a Platone
Nel Crepuscolo degli idoli [8] lo storiografo greco è indicato addirittura come terapia contro “ogni platonismo”: "Il mio ristoro, la mia predilezione, la mia terapia contro ogni platonismo è sempre stato Tucidide. Tucidide e, forse,Il Principe di Machiavelli mi sono particolarmente affini per l'assoluta volontà di non crearsi delle mistificazioni e di vedere la ragione nella realtà - non nella "ragione", e tanto meno nella "morale"... In lui la cultura dei sofisti , voglio dire la cultura dei realisti giunge alla sua compiuta espressione : questo movimento inestimabile, in mezzo alla truffa morale e ideale delle scuole socratiche prorompenti allora da ogni parte. La filosofia greca come décadence dell'istinto greco: Tucidide come il grande compendio, l'ultima rivelazione di quella forte, severa, dura oggettività che era nell'istinto dei Greci più antichi. Il coraggio di fronte alla realtà distingue infine nature come Tucidide e Platone: Platone è un codardo di fronte alla realtà - conseguentemente si rifugia nell'ideale; Tucidide ha il dominio di  - tiene quindi sotto il suo dominio anche cose".
Per giunta in Aurora [9] leggiamo: "Un modelloChe cosa amo in Tucidide, che cosa fa sì che io lo onori più di Platone? Egli gioisce nella maniera più onnicomprensiva e spregiudicata di tutto quanto è tipico negli uomini e negli eventi, e trova che ad ogni tipo compete un quantum di buona ragione: è questa che egli cerca di scoprire. Egli possiede più di Platone una giustizia pratica: non è un denigratore e un detrattore degli uomini che non gli piacciono, o che nella vita gli hanno fatto del male...rivolge lo sguardo soltanto ai tipi; che cosa se ne farebbe, poi, l'intera posterità cui egli consacra la sua opera di ciò che non è tipico? Così in lui, pensatore di uomini, giunge alla sua estrema, splendida fioritura quella cultura della più spregiudicata conoscenza del mondo che aveva avuto in Sofocle il suo poeta, in Pericle il suo uomo di stato, in Ippocrate il suo medico, in Democrito il suo scienziato della natura: quella cultura che merita di essere battezzata col nome dei suoi maestri, i Sofisti ".
Pasolini individua nella luce di Caravaggio, “quotidiana e drammatica”, una contrapposizione al lume universale del Rinascimento platonico” E prosegue: “Sia i nuovi tipi di persone e di cose che il nuovo tipo di luce, il Caravaggio li ha inventati perché li ha visti nella realtà. Si è accorto che intorno a lui - esclusi dall’ideologia culturale vigente da circa due secoli - c’erano uomini che non erano mai apparsi nelle grandi pale o negli affreschi, e c’erano ore del giorno, forme di illuminazione labili ma assolute che non erano mai state riprodotte e respinte sempre più lontano dall’uso e dalla norma, avevano finito col diventare scandalose, e quindi rimosse. Tanto che probabilmente i pittori, e in genere gli uomini fino al Caravaggio probabilmente non le vedevano nemmeno”[10]. Pasolini riconosce il suo debito al maestro Roberto Longhi. Aveva fatto la supposizione che

Vediamo ora l’antipatia di Leopardi per Enea.
Leopardi nello Zibaldone manifesta antipatia per Enea, sia pure a causa di una sua presunta perfezione:"Omero ha fatto Achille infinitamente men bello di quello che poteva farlo (...) e noi proviamo che ci piace più Achille che Enea ec. onde è falso anche che quello di Virgilio sia maggior poema ec." (2)
Troppa virtù morale, poca forza di passionetroppa ragionevolezza, troppa rettitudine, troppo equilibrio e tranquillità d'animo, troppa placidezza, troppa benignità, troppa bontà. Virgilio descrive divinamente l'amor di Didone per lui: da questo, e quasi da questo solo, ci accorgiamo ch'egli è ancor giovane e bello; e sebben questo in lui non ripugna alla (3609) natura e al verisimile naturale, come in Ulisse, pur tanta è la serietà dell'idea che Virgilio ci fa concepir del suo eroe, che la gioventù e la bellezza ci paiono in lui fuor di luogo (…) E così mentre Virgilio si ferma e si compiace in descrivere la passion di Didone e i suoi vari accidenti, progressi, andamenti, ed effetti… a riguardo d'Enea e della sua passione (3610) parla così coperto, anzi dissimulato… anzi serba quasi un così alto silenzio, che e' non mostra essa passione se non indirettamente e p. accidente, e in quanto ella si congettura e si lascia supporre p. necessità da quel ch'ei narra di Didone, e sempre volgendosi alla sola Didone. E par che volentieri, se si fosse potuto, egli avrebbe fatto che il lettore non istimasse Enea per niun modo tocco dalla passion dell'amore (di donna pur sì alta e sì degna e sì magnanima e sì bella e sì amante e tenera), e giudicasse che Didone avesse ottenuto il piacer suo, senza che quegli avesse conceduto. E chi potesse così stimare seconderebbe il desiderio di Virgilio. Tanto egli ebbe a schivo di far comparire nel suo eroe un errore, una debolezza, laddove non v'è cosa più amabile che la debolezza nella forza, né cosa meno amabile che un carattere e una persona senza debolezza veruna. E tanto egli giudicò che dovesse nuocere (3611) appo i lettori alla stima non solo, ma all'interesse pel suo Eroe (che mal ei confuse colla stima), il concepirlo e il vederlo capace di passione, capace di amore, tenero, sensibile, di cuore".

Il comico antico e quello moderno
Leopardi nello Zibaldone (pp. 41 - 42) indica, insieme con altri testi, un frammento di Filemone come esempio del fatto che "il ridicolo degli antichi comici... consistea principalmente nelle cose, e il moderno nelle parole... quello degli antichi era veramente sostanzioso, esprimeva sempre e mettea sotto gli occhi per dir così un corpo di ridicolo, e i moderni mettono un'ombra uno spirito un vento un soffio un fumo. Quello empieva di riso, questo appena lo fa gustare e sorridere, quello era solido, questo fugace... quel de' greci e latini è solido, stabile, sodo, consiste in cose meno sfuggevoli, vane, aeriformi, come quando Luciano nel Zeu;" ejlegcovmeno" paragona gli Dei sospesi al fuso della Parca ai pesciolini sospesi alla canna del pescatore. Ed erano i gr. e lat. inventori acerrimi e solertissimi di queste immagini, di queste fonti di ridicolo e ne trovavano delle così recondite, e nel tempo stesso così feconde di riso ch'è incredibile come in quel frammento di Filemone comico".
Leopardi si riferisce al fr. 79 Kock, vv. 10 - 16 dello Stratiwvth", dove Filemone[11] stabilisce un paragone tra un convitato che scappa inseguito dagli altri dopo avere arraffato un boccone ghiotto, e una gallina che fugge tenendo nel becco qualche cosa di troppo grande per essere inghiottita, e viene incalzata da un'altra che vuole strapparle il cibo. Insomma "quel motteggiare era più consistente più corputo, e con più cose che non il moderno 8…) ai francesi par grossolano quel che una volta si chiamava sale attico, e piacque ai greci, popolo il più civile dell’antichità, e a’ latini" (41).
“Un’altra differenza tra il ridicolo antico e il moderno è che quello era preso da cose popolari o domestiche o almeno non della più fine conversazione, la quale poi non esisteva nemmeno così raffinata; ma il moderno, massime il francese versa principalmente intorno al più squisito mondo alle cose dei nobili più raffinati alle vicende domestiche delle famiglie più mondane e. ec. (come anche proporzionalmente era il ridicolo d’Orazio) sicché quello era un ridicolo che avea corpo, e come il filo d’un arma che non sia troppo aguzzo, dura lungo tempo, dove quello[12] come ha una punta sottilissima (più o meno secondo i tempi e le nazioni) così anche in un batter d’occhio si logora e si consuma, e dal volgo poi non si sente”. (42)

CONTINUA 



[1] La poesia drammatica.
[2] Che possono corrispondere alla lirica di Leopardi
[3] Zibaldone, p. 4389.
[4] Leopardi, Zibaldone, 145 - 146.
[5] V. Ehrenberg, Sofocle e Pericle, p. 19.
[6] Il mestiere di vivere, 29 settembre 1946.
[7] Le origini dell’epica greca, p. 38.
[8] Quel che debbo agli antichi, 2, pp. 125 - 126.
[9] p.124
[10] Pasolini, La luce di Caravaggio in Pasolini Tutte le opere, p. 2673.
[11] Nacque a Siracusa intorno al 360 ma visse quasi tutta la vita ad Atene dove morì centenario
[12] Avrei scritto “questo”, il moderno e massime il francese

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