martedì 30 aprile 2019

Contro la violenza sulle donne



L’amore d’inverno
Mercoledì ventinove novembre, fin dalle prime ore del pomeriggio, su Bologna, dove lunghi sono gli inverni, cadde a bioccoli grandi la neve, che in poco tempo rese canuta la terra.
Ifigenia fece suonare il campanello verso le cinque, quando era già buio; corsi ad aprire il portone,  poiché ero impaziente di fare l’amore; ma, come la vidi, mi fermai stupito, senza toccarla, senza invitarla a entrare, senza dire parola: non avevo mai visto una tale unione di inverno e calore di vita variopinta: i capelli bruni bruni, bagnati, a tratti innevati, le scorrevano giù per le spalle come un ruscello montano cupo di gelide ombre, e aspro di pietre biancastre, facendola rabbrividire, ma gli occhi violacei, lucenti mi versavano addosso una morbida luce che fluiva calda dal cuore. La osservavo in silenzio, mentre i fiocchi larghi continuavano a caderle addosso, evidenziandosi sulle ciocche scure, come sulle chiome perenni degli abeti montani, e trasformando la luminosa ragazza  in una creatura dei boschi: un dolce cerbiatto dalla pelle screziata, oppure una bella baccante che dopo la dolce fatica della corsa sui monti si riassetta la nebride multicolore onorando il dio suo, Bacco, signore della gioia di vivere, della festa lieta, delle grazie tutte, del desiderio. Mentre nella fredda oscurità della notte precoce contemplavo la vivida fiamma della mia giovane amante, mi riempivo e scaldavo di gioia. Dopo qualche momento di stupito silenzio, la ragazza mi sorrise e disse: “posso entrare? Sento un poco di freddo”.
Mi scostai dall’ingresso: Ifigenia entrò senza indugiare e, poiché l’ascensore non funzionava, cominciò a salire i cinque piani di scale spedita, facendo ondeggiare le anche sulle gambe robuste molleggiate dalle caviglie sottili, mentre i piccoli piedi, nella fretta di ascendere i molti gradini di corsa, si appoggiavano e sollevavano con leggerezza, potenza e agilità. Le correvo dietro ammirato e felice. Quando fummo arrivati davanti alla porta dell’appartamento, la aprii con la destra un poco tremante, poi con la sinistra le feci segno di entrare. Ero pieno di desiderio amoroso. Lo sentiva concordemente anche lei, poiché procedette fino alla sponda del mio grande letto dove si svestì con rapide mosse. Mentre, con i vestiti sul pavimento, cadeva la neve, la splendidissima amante mi chiese di spogliarmi subito e di abbracciarla senza i preamboli solitamente graditi: il marito, un tipo per niente amoroso però assai sospettoso e piuttosto manesco, non poteva crederla a spasso nel caos bianconero della notte nevosa, né doveva perciò immaginarsi che passasse il tempo nell’alcova di un uomo: sicché gli era proprio dovuto che la moglie rientrasse non oltre mezz’ora dopo la lezione di yoga, che terminava alle sei e distava un chilometro circa da casa sua. Ci eravamo spogliati.
Il suo corpo statuario incarnava  la dignità forte di Fidia e la morbida grazia  di Prassitele.
 L’abbracciai senza dire parola: il seno  si era già intiepidito, anzi conservava gli odori della terra benedetta dal cielo estivo: pensai che non era il tepore della mia povera casa a renderla così calda e vivace appena si era sottratta all’iniqua, mortificante stagione, ma il suo giovane sangue fervido sotto la pelle ancora abbronzata e profumata dal sole che durante la nuda estate doveva averla baciata con lucida forza amorosa, lasciandole addosso indelebili segni di bellezza, di salute e di gioia. La baciai anche io per succhiare una parte di quel calore; quindi la distesi sul letto inclinando il mio corpo avido, scuro e magro su quello armonioso di lei: ne trassi piacere e voglia di vivere, eppure pensai a quando le sue magnifiche membra, coperte dall’ultima veste, la nera terra, l’avrebbero fatta fiorire di sanguigni papaveri, o di rose rosse, profumate di carne. Previdi i fiori dal colore acceso che promettevano l’eterno ritorno di quel momento felice e di tutta la vita.
Da quell’incontro breve di un pomeriggio nevoso sono sgorgate sorgenti di lucida gioia che mi hanno illuminato per anni e mi hanno insegnato la via del procedere, appunto metodicamente, verso la bellezza naturale e morale delle persone, dell’arte e del cosmo  

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