venerdì 5 aprile 2019

La "Lisistrata" di Aristofane. Parte 1


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Aristofane nacque ad Atene intorno al 445 a. C. e morì probabilmente nella sua città poco dopo il 385.
Ricaviamo dalle sue commedie le notizie sulla vita. Ne scrisse una quarantina conseguendo cinque vittorie: a noi sono arrivati undici drammi: gli Acarnesi (425) , i Cavalieri (424) le Nuvole (423), le Vespe (422), la Pace (421), gli Uccelli (414), la Lisistrata (411) le Tesmoforiazùse (411), le Rane (405), le Ecclesiazùse (392), il Pluto (388).
La Commedia attica viene tradizionalmente divisa in tre tipi : la Commedia antica che va dalle origini agli inizi del IV secolo,
 la Commedia di mezzo, fino al 325 circa,
 e quella nuova che arriva fino alla metà del III secolo in lingua greca,
poi prosegue in latino nei drammi di Plauto e Terenzio.

La Poetica di Aristotele afferma che la tragedia vuole rappresentare personaggi migliori di quelli reali (beltivou") mentre commedia è imitazione di uomini peggiori di noi
( ceivrou" tw'n nu'n1448a), ossia volgari e tali che non suscitano tanto lo sdegno quanto il riso provocato dalla visione del ridicolo "Il ridicolo" infatti spiega il filosofo "è qualche cosa di sbagliato" (amàrtema ,1449a).
 L'errore a dire il vero viene menzionato anche per i personaggi tragici (amartìa , 1453a); la differenza è che nei loro confronti deve nascere pietà e terrore, mentre la commedia non produce dolore né danno.
La commedia è mivmhsi" faulotevrwn imitazione di personaggi che valgono meno per il ridicolo (to; geloi'on) che è parte del brutto. Il ridicolo è un errore e una bruttezza indolore e non deleterio (aJmavrthmav ti kai; ai\sco" ajnwvdunon kai; ouj fqartikovn), proprio come la maschera comica è qualche cosa di brutto e stravolto ma senza dolore (1449a).

 E' l'assenza di pietà dunque che contraddistingue la commedia dalla tragedia.

Hegel nella sua Estetica sostiene che "sono propri del comico l'infinito buon umore in genere e la sconfinata certezza di essere ben al di sopra della propria contraddizione...ossia la beatitudine e l'essere a proprio agio della soggettività che, certa di se stessa, può sopportare la dissoluzione dei suoi fini e delle sue realizzazioni"(p.1591). Il comico è il soggettivo che non soffre delle sue contraddizioni. Può essere uno scopo meschino perseguito con serietà e non raggiunto senza sofferenza. Oppure individui frivoli che si pavoneggiano mentre tendono a fini seri, come le Ecclesiazuse. Nel crollo di tutti i valori rimane quello della soggettività
Questo però anche nella tragedia (Medea superest).


Ancora una volta il personaggio della commedia non suscita pietà. Viene fatto l'esempio delle Ecclesiazuse di Aristofane, le donne a parlamento che"vogliono deliberare e fondare una nuova costituzione" ma "conservano tutti i loro capricci e passioni di donne"(p. 1592).

 Invece nella commedia nuova di Menandro entrerà la compassione ed essa, esclusa dal comico, verrà inclusa nell'umorismo del noto saggio di Pirandello :"Vedo una vecchia signora, coi capelli ritinti, tutti unti non si sa di quale orribile manteca, e poi tutta goffamente imbellettata e parata d'abiti giovanili. Mi metto a ridere. Avverto che quella vecchia signora è il contrario di ciò che una vecchia rispettabile signora dovrebbe essere...Il comico è appunto un avvertimento del contrario. Ma se ora interviene in me la riflessione, e mi suggerisce che quella vecchia signora non prova forse nessun piacere a pararsi così come un pappagallo, ma che forse ne soffre e lo fa soltanto perché pietosamente s' inganna che, parata così, nascondendo così le rughe e la canizie, riesca a trattenere a sé l'amore del marito molto più giovane di lei, ecco che io non posso più riderne come prima, perché appunto la riflessione, lavorando in me, mi ha fatto andar oltre a quel primo avvertimento, o piuttosto, più addentro: da quel primo avvertimento del contrario, mi ha fatto passare a questo sentimento del contrario. Ed è tutta qui la differenza tra il comico e l'umoristico".

Gli altri 2 esempi: Marmeladov di Delitto e castigo e Sant’Ambrogio di Giusti. Cfr. la terapia del rovesciamento, e mettersi nei piedi dei ragazzi di Leopardi: “gli scolari partiranno dalla scuola dell’uomo il più dotto, senz’aver nulla partecipato alla sua dottrina, eccetto il caso (raro) ch’egli abbia quella forza d’immaginazione, e quel giudizio che lo fa astrarre interamente dal suo proprio stato, per mettersi ne’ piedi de’ suoi discepoli, il che si chiama comunicativa. Ed è generalmente riconosciuto che la principal dote di un buon maestro e la più utile,non è l’eccellenza in quella dottrina, ma l’eccellenza nel saperla comunicare”[1].

Il sentimento del contrario è dunque una forma di compassione, in senso etimologico.

Il comico nasce dalla superiorità in cui viene a trovarsi il pubblico rispetto all'attore[2]: deriva dunque dalla differenza di significato che le parole hanno nella bocca e nelle intenzione di chi le pronuncia rispetto all'intendimento di chi le ascolta, più avanzato, siccome a maggiore conoscenza dei fatti. Il riso allora scaturisce dalla soddisfazione dello spettatore il quale si sente superiore poiché non partecipa delle sofferenze che colpiscono il personaggio.
Ma, tornando alla Poetica di Aristotele e alle origini della commedia, questa nacque da "coloro che dirigevano i canti fallici"(1449a).

 I Dori rivendicano l'invenzione della commedia etimologizzandola con il vocabolo dorico kwvmh (villaggio): il nome sarebbe derivato dal fatto che gli attori passavano kata; kwvma", di villaggio in villaggio.
 L'altra etimologia possibile, pur se scartata dai Dori, è quella che collega commedia con il verbo kwmavzw (faccio baldoria) e con il sostantivo kw'mo" (processione bacchica).

Ne risulta la possibile origine campagnola di un genere dai contenuti licenziosi e mordaci che sembra condividere qualche aspetto con i Fescennini romani: "versibus alternis opprobria rustica ", insulti rustici in versi alterni, come li definisce Orazio (Epistole II, 1,146).
Certo è il collegamento del dramma, sia comico sia tragico, con i riti della fertilità e con il culto di Dioniso, un dio la cui rinascita costuiva al tempo stesso una speranza di resurrezione per i suoi seguaci e un simbolo della vicenda delle messi o della vegetazione in genere connessa all'eterno alternarsi delle stagioni.
Cfr. Ammiano Marcellino sulle feste ad Antiochia per la morte di Adone quod in adulto flore sectarum est indicium frugum "(XXII, 9, 15).

Tre commedie contro la guerra
Aristofane negli Acarnesi (del 425) dichiara guerra alla guerra.
 Il protagonista Diceopoli, il cittadino giusto, fieramente avverso al conflitto, convince il coro che la guerra è un male e lo induce a dire: "io non accoglierò mai in casa Povlemo" (v. 977), la personificazione degli orrori bellici, visto come " un uomo ubriaco (pavroino" aJnhvr, v. 981) il quale "ha operato tutti i mali e sconvolgeva, e rovinava"(983) e, pur invitato a bere nella coppa dell'amicizia, "bruciava ancora di più con il fuoco i pali delle viti/e rovesciava a forza il nostro vino fuori dalle vigne"(986 - 987).
 Il campagnolo pacifista Diceopoli si fa portavoce dei contadini, esasperati poiché la guerra del Peloponneso nella fase archidamica (431 - 421) aveva distrutto ogni anno i raccolti.
 Respinto Polemos, arriva la Pace connessa alla festa, all'amore e alla bellezza dell'arte: infatti è compagna della bella Cipride e delle Cariti amabili (v. 989). Quindi giunge l'inviato di un marito che porta doni e chiede una coppa di pace:"i[na mh; strateouit j ajlla; kinoivh mevnwn" (kinevw nel senso di “sbatto” - v. 1052), perché non vuole andare in guerra, ma rimanere in casa a fare l'amore. Diceopoli, che ha sofferto l'incomprensione dei concittadini, rilutta ad aiutare il marito ma arriva anche una messaggera con la richiesta della sposa:
" che il pene del marito rimanga a casa" ( o{pwς a}n oijkourh'/ to; pevoς tou' numfivou, 1060). Questa preghiera fa breccia nel cuore del cittadino giusto, il pacifista Diceopoli alter ego di Aristofane:
"perché una donna non merita di soffrire per la guerra"(Acarnesi, 1062).

Nella seconda commedia pacifista (Pace del 421) la festa che segue alla pace odora di frutta, conviti, di grembi di donne che corrono verso la campagna ( kovlpou gunaikw'n diatrecousw'n eij" ajgrovn, v. 536) e di tante altre cose buone.
Qui si racconta che gli dèi[3] si sono allontanati dagli uomini per non vederli sempre combattere e li hanno abbandonati a Polemo il quale ha gettato la Pace in un antro profondo (v. 223). Intanto però il pestello (aJletrivbano" , v. 269) degli Ateniesi, il cuoiaio (oJ bursopwvlh" , v. 270) che sconvolgeva l'Ellade, insomma Cleone, è morto. Così pure Brasida, il pestello dei Lacedemoni.
La pace accresce le possibilità di vita secondo Trigeo, anche questo, come Diceopoli, un contadino pacifista: essa consente di navigare, rimanere dove si è, fare l'amore, dormire, andare a vedere le feste, banchettare, giocare al cottabo, e gridare iù iù (vv. 341 - 345). Vogliono le guerre i fabbricanti di lance e i mercanti di scudi per i loro guadagni (vv. 447 - 448). Alla fine costoro riceveranno le pernacchie, mentre i contadini potranno tornare al lavoro dei campi richiamando alla memoria l'antica vita che la Pace largiva: i panieri di frutta secca, i fichi e i mirti, il dolce mosto, le viole accanto al pozzo e le olive di cui si ha desiderio. La pace per i campagnoli significava la zuppa d'orzo verde e la salvezza (ci'dra kai; swthriva, v. 595), sicché le vigne e i teneri fichi, e quante altre piante vi sono, rideranno liete accogliendola. Segue nell'agone un'eziologia della guerra meno ridicola di quella presentata negli Acarnesi[4] : Pericle, spaventato dalle accuse intentate a Fidia, per non seguire la stessa sorte, mise a fuoco la città e provocò tanto fumo che tutti i Greci lacrimavano. La distrazione di massa si dice oggi. Alla pace ritrovata seguono progetti e preparativi di feste a base di scorpacciate culinarie e sessuali: Teoria ha un culo da Festa quinquennale e va molto bene; la focaccia è cotta, la torta col sesamo è impastata e tutto il resto è pronto:"tou' pevou" de; dei' " (v. 870), manca solo il bischero.
Quindi Trigeo cita due esametri omerici[5]:"è privo di legami sociali, di leggi, di focolare quello che/ama la guerra civile agghiacciante ( polevmou e[ratai ejpidhmivou, vv. 1097 - 1098).
Ogni guerra in fondo è una guerra civile secondo i princìpi dell’umanesimo.

Nei conflitti interni molti valori si capovolgono: lo afferma Tucidide a proposito della stavsi" di Corcira, quando ci fu una tranvalutazione generale e le stesse parole cambiarono il loro significato originario:"Kai; th;n eijwqui'an ajxivwsin tw' ojnomavtwn ej" ta; e[rga ajnthvllaxan th'/ dikaiwvsei. Tovlma me;n ga;r ajlovgisto" ajndreiva filevtairo" ejnomivsqh" (III, 82, 4), e cambiarono arbitrariamente l'usuale valore delle parole in rapporto ai fatti. Infatti l'audacia irrazionale fu considerata coraggio devoto ai compagni di partito.
"Un'audacia " ajlovgisto"" prende il nome di coraggio, la prudenza si chiama pigrizia, la moderazione viltà, il legame di setta viene prima di quello di sangue, e il giuramento non viene prestato in nome delle leggi divine, bensì per violare le umane. Sinistro carnevale, mondo a rovescio, in cui è necessario lottare con ogni mezzo per superarsi e in cui nessuna neutralità è ammessa. Così appare, a Corcira, per la prima volta tra gli Elleni, la più feroce di tutte le guerre (Tucidide, III, 82 - 84)"[6].
 Nel Bellum Catilinae di Sallustio, Catone, parlando in senato dopo e contro Cesare, il quale aveva chiesto di punire i congiurati "solo" confiscando i loro beni e tenendoli prigionieri in catene nei municipi, denuncia questo cambiamento del valore delle parole:"iam pridem equidem nos vera vocabula rerum amisimus: quia bona aliena largiri liberalitas, malarum rerum audacia fortitudo vocatur, eo res publica in extremo sita est " (52, 11), già da tempo veramente abbiamo perduto la verità nel nominare le cose: poiché essere prodighi dei beni altrui si chiama liberalità, l'audacia nel male, coraggio, perciò la repubblica è ridotta allo stremo.

Nella II Parabasi della Pace il Coro di contadini proclama la sua gioia per la libertà dagli impegni bellici e la possibilità che la pace offre di stare vicino al fuoco a bere con i compagni, arrostire ceci, mettere ghiande al fuoco e sbaciucchiare la serva tracia mentre la moglie si lava. Poi quando arriva l'estate con la dolce canzone della cicala[7] Trigeo gode nel vedere maturare vigne precoci e mangiare i fichi dicendo "w|rai fivlai" (v. 1168), che bella stagione! Tutto questo succede invece dell’ essere arruolati ancor prima dei cittadini e di dover obbedire a un capitano vigliacco. Alla festa finale arriva un mercante di falci che ha ripreso la sua attività ed è grato a Trigeo, mentre il mercante di armi è addolorato. Il cimiero che lui vende può servire al massimo per pulire la tavola e la corazza per cacarci dentro. Le lance segate in due potranno fare da pali di viti. Infine c'è la festa di nozze fra Trigeo e Opora (il raccolto): lui ce l'ha grande e grosso, lei ha la fica dolce (tou' me;n mevga kai; pacuv - th'" d’ hJdu; to; su'kon - 1350 - 1351).

La terza commedia pacifista è la Lisistrata del 411.


CONTINUA


[1] Zibaldone, 1376.
[2] Un poco come nel meccanismo del resto tragico dell'ironia sofoclea
[3] Disgustati, come ha detto di recente il Pontefice.
[4] Che faceva dipendere lo scoppio del conlitto da ratti di prostitute,
[5] Da Iliade 9, 63 - 64.
[6] M. Cacciari, Geofilosofia dell'Europa, pp. 42 - 43.
[7] Questa non dà segni ambigui come la rondine.

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