domenica 21 aprile 2019

"Ecuba" di Euripide. 2. Il fantasma di Polidoro conclude il suo racconto

Ecuba - Napoli, "Teatro Festival Italia"

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Ecuba di Euripide vv. 13 - 58

Polidoro ricorda che era newvtato" (13) il più giovane dei figli di Priamo, troppo giovane per combattere. Finché mio fatello Ettore eujtuvcei dori; aveva successo in battaglia, l’ospite tracio ebbe cura di me, crescevo come un virgulto - w{" ti" ptovrqo" hujxovmhn (20).
In questa fase l’assassino era una specie di Augusto accrescitore nei confronti dell’ospite.
Però poi, morto Ettore, scannato Priamo sull’altare, empiamente dal figlio di Achille, e caduta Troia, l’ospite scelto dal padre kteivnei me to;n talaivpwron ammazza me il disgraziato crusou' cavrin 25 per l’oro, “in grazia dell’oro”.

Stesso atteggiamento viene attribuito da Ecuba a Elena nelle Troiane: l’amante di Paride e moglie di Menelao parteggiava sempre per il vincitore.

Quindi l’ospite criminale ktanwvn, dopo avermi assassinato, mi abbandonò al flutto del mare eij" oi\dm j ajlov" (26) i{n j aujto;" cruso;n ejn dovmoi" e[ch/ (27), per tenersi l’oro in casa sua.

L’innumerevole sorriso delle onde marine del Prometeo incatenato[1], in questa tragedia diverrà il flutto delle lacrime di Ecuba. Polidoro lamenta ancora di giacere sui lidi marini qua e là, secondo l’ondeggiamento del mare ejn povntou savlw/ (28), senza compianto né sepolcro - a[klauto" a[tafo" (30) .
E quale spettro, lasciato solo il mio cadavere - sw'm j ejrhmwvsa" ejmovn 31 - , mi muovo agitato sopra il capo della madre mia da quando tre giorni fa Ecuba è giunta da Troia in questa terra del Chersoneso (34)
Intanto navi dei Greci “sono sedute”, qavssousi sulle rive di questa terra di Tracia. E’ il figlio di Achille che tiene ferma la flotta da quando il Pelide ujpe;r tuvmbou faneiv", apparso sulla tombareclama la sorella mia Polissena per il suo sepolcro quale sua vittima sacrificale e segno di onore –provsfagma kai; gevra" - 41

Excursus contro la guerra
All’andata dunque viene sacrificata la vergine Ifigenia, al ritorno Polissena per togliere impedimenti alla partenza.
Le guerre sono connotate da massacri e da atti di supertizione criminale fatta passare per religione. Tutti e tre i grandi tragediografi e pure il grande commediografo Aristofane sono contrari alle guerre.

Euripide nell’Elena e nell’Elettra sostiene che Elena non andò mai a Troia e che questa guerra venne combattuta per un fantasma, per niente
Gli dèi l’hanno voluta per alleggerire la terra dalla massa degli uomini.
Alla fine dell’Elettra euripidea, Castore annuncia a Oreste che Elena sta arrivando, insieme con Menelao, dall'Egitto, dalla casa di Proteo, poiché a Troia non è mai andata, “Zeu;~ d j, wJ" e[ri" gevnoito kai; fovno" brotw'n, - ei[dwlon JElevnh~ ejxevpemy j ej~ [Ilion ” ( Elettra, vv. 1282 - 1283), ma Zeus mandò a Ilio un'immagine (ei[dwlon) di lei, affinché ci fosse guerra e strage dei mortali.
Euripide, che pure aizza spesso l'odio ateniese contro Spartani e Spartane, attribuisce a Poseidone una condanna delle devastazioni belliche nel prologo delle Troiane[2] :"mw'ro" de; qnhtw'n oJvsti" ejkporqei' povlei", - naou;" te tuvmbou" q ,JJjj iJera; tw'n kekmhkovtwn, - ejrhmivvva/ dou;" aujto;" w[leq ' u{steron"(v. 95 - 97), è stolto tra i mortali chi distrugge le città, gettando nella desolazione templi e tombe, sacri asili dei morti; tanto poi egli stesso deve morire.
Più avanti la lucida follia di Cassandra dichiara che chi ha senno deve evitare la guerra: “feuvgein me;n oun crh; povlemon o{sti~ eu\ fronei`” (v. 400) 


Mi sembra particolarmente opportuno ricordare tali giudizi sull'assurdità della guerra che viene imposta agli uomini comuni, se non dagli dèi, dall'alto dei palazzi del potere, affinché i mortali poveri, servano a interessi che sicuramente non sono i loro. "Sì sì, lei non era qui". Dice di Elena la Cassandra di Christa Wolf. E aggiunge:"Il re d'Egitto l'aveva tolta a Paride, quello stupido ragazzo. Lo sapevano tutti nel palazzo, perché io no? E ora? Come ne usciamo, senza perdere la faccia. Padre, dissi, con un fervore col quale non gli parlai mai più. Una guerra condotta per un fantasma, può solo essere perduta"[3].

Già nell'Iliade Zeus dice ad Ares:"e[cqisto" dev moiv ejssi qew'n oi} [Olumpon e[cousin (V, 890), tu per me sei il più odioso tra gli dei che abitano l'Olimpo.

Nel primo Stasimo dei Sette a Tebe[4] di Eschilo il Coro dissacra il dio della guerra: Ares è un domatore di popoli che infuriando soffia con violenza e contamina la pietà "mainovmeno" d j ejpipnei' laodavma" - miaivnwn eujsevbeian"(vv. 343 - 344).

Nell'Agamennone (del 458) Ares viene definito "oJ crusamoibo;" d' j [Arh" swmavtwn"(v.437), il cambiavalute dei corpi, nel senso che la guerra distrugge le vite e arricchisce gli speculatori.
Secondo Gaetano De Sanctis, Eschilo con questa tragedia ha voluto mettere in guardia gli Ateniesi"contro le guerre ingiuste, pericolose e lontane, onde tornano, anziché i cittadini partiti per combattere, le urne recanti le loro ceneri. La lista dei caduti della tribù Eretteide mostra quale eco dovesse avere nei cuori tale monito durante quella campagna d'Egitto (anni 459 - 454) in cui fu impegnato il fiore delle forze ateniesi"[5].
"invece di uomini - ajnti; de; fwtw'n
urne e cenere giungono teuvch kai; spodo;" eij" eJkavstou
alla casa di ciascuno"dovmou" ajfiknei' ( Primo stasimo, vv 434 - 436)

Nell'Edipo re[6] Ares viene deprecato dal religiosissimo autore come "il dio disonorato tra gli dei" ( ajpovtimon ejn qeoi'" qeovn, v.215). Il dio è disonorato a maggior ragione poiché la guerra del Peloponneso dopo la morte di Pericle veniva condotta dal becero e sanguinario Cleone e dai demagoghi successivi senza rispetto dell'etica eroica e senza riguardo per l'umanità: Tucidide[7] nel dialogo senza didascalie del V libro fa dire dagli Ateniesi ai Meli di non volgersi a quel senso dell' onore (aijscuvnhn, 111, 3) che procura grandi rovine agli uomini

Empedocle[8] nel Poema lustrale narra che gli uomini della primitiva età felice non avevano Ares come dio né il Tumulto della battaglia:"oujdev ti" hj'n keivnoisin [Are" qeo;" oujde; Kudoimov""(fr. 119, 1).

Aristofane negli Acarnesi[9] dichiara guerra alla guerra.
 Il protagonista Diceopoli, il cittadino giusto, convince il coro che la guerra è un male e lo induce a dire: "io non accoglierò mai in casa Polemo" (v. 977), la personificazione del conflitto, visto come " un uomo ubriaco (pavroino" aJnhvr, v. 981) il quale "ha operato tutti i mali e sconvolgeva, e rovinava"(983) e, pur invitato a bere nella coppa dell'amicizia, "bruciava ancora di più con il fuoco i pali delle viti/e rovesciava a forza il nostro vino fuori dalle vigne"(986 - 987).
 Il campagnolo pacifista Diceopoli si fa portavoce dei contadini, esasperati poiché la guerra del Peloponneso nella fase archidamica distruggeva tutti gli anni i raccolti.
Fine excursus

Contro la vita di Polissena c’è la richiesta di Neottolemo che non resterà ajdwvrhto" privo di questo dono da parte degli amici, poi c’è il destino hJ peprwmevnh, il destino che spinge mia sorella, dice ancora Polidoro, a morire in questo giorno a[gei - qanei'n ajdelfh;n tw/d ' j ejmhvn ejn h[mati (44).
Il fantasma ricorda di pregato quelli che hanno potere sottoterra tou;" kavtw sqevnonta" di ottenere una tomba e di cadere tra le braccia della madre (50)
Anche sotto terra dunque ci sono gli sqevnonte", quelli che contano. Il diritto del più forte è vigente dappertutto come dicono gli ateniesi ai Meli nel v libro delle Storie di Tucidide.

Perfino il buon dio sosterrebbe il diritto del più forte secondo la predominante potenza degli Ateniesi i quali, ampliando lo sguardo a una prospettiva cosmica e universale, affermano :
" riteniamo infatti che la divinità, secondo la nostra opinione, e l'umanità in modo evidente, in ogni occasione, per necessità di natura, dove è più forte, comanda".
 Questa sarebbe un'eterna legge di natura:
"noi non abbiamo imposto questa legge né l'abbiamo utilizzata per primi quando vigeva, ma avendola ricevuta che c'era, e pronti a lasciarla rimanere per sempre, ce ne avvaliamo, sapendo che anche voi e altri, se vi trovaste nella stessa condizione di potenza in cui siamo noi, fareste lo stesso". (Tucidide, V, 105, 2).

La preghiera di Polidoro dunque è stata accolta e il suo cadavere affiorerà nella battigia ai piedi di una schiava di Ecuba.
Le ultime parole sono di compianto per la madre - wJ" pravssei" kakw'" , come stai male (pravssw, il verbo tragico per eccellenza ha come primo significato quelli di “faccio”, siccome fare male e stare male si equivalgono). Infatti Polidoro aggiunge: un dio ti distrugge se fqeivrei qew'n ti", controbilanciando il benessere di un tempo - ajntishkwvsa" th'" pavroiq ‘ eujpraxiva" (57 - 58).




[1] Quando i suoi aguzzini si allontanano, l'incatenato invoca le forze della natura a comprenderlo e compiangerlo: “o etere divino e venti dalle ali veloci,/e sorgenti dei fiumi, e innumerevole sorriso/delle onde marine (pontivwn te kumavtwn - ajnhvriqmon gevlasma), e terra madre di tutte le cose (pammh'tovr te gh'),/e il disco del sole che vede tutto, invoco:/vedete quali pene soffro, io che sono un dio, da parte degli dèi”(88 - 92
[2] Del 415 a. C.
[3]C. Wolf, Cassandra , p. 85.
[4] Del 467 a. C.
[5] Storia dei Greci , II vol., p.91
[6] Propendo per una datazione bassa, posteriore al 415 a. C.
[7] 460 ca - 400 ca a. C.
[8] Fiorito intorno alla metà del V secolo.
[9] 425 a. C.

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