giovedì 11 aprile 2019

Leopardi e gli Antichi. Alcuni topoi. Parte 1. Seconda versione corretta e ampliata

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Dalla conferenza Leopardi e gli Antichi tenuta il 15 aprile 2019 nella bibloteca Scandellara di Bologna

Seconda versione corretta e ampliata


Il topos della fatica
Leopardi nell’Operetta morale Il Parini ovvero della gloria[1] immagina che il poeta di Bosisio parli a un giovane “d’indole e di ardore incredibile ai buoni studi, e di aspettazione meravigliosa”. Una specie di alter ego di Leopardi.
Gli dice che la via (la methodos) per conseguire la gloria letteraria “non si può seguire senza pregiudizio del corpo né senza moltiplicare in diversi modi l’infelicità naturale del proprio animo”
Troverai nella via che vuoi seguire “le emulazioni, le invidie, le censure acerbe, le calunnie, le parzialità, le pratiche e i maneggi occulti e palesi contro la tua riputazione e gli altri infiniti ostacoli che la malignità degli uomini ti opporrà nel cammino che hai cominciato”.
 Spesso in seguito a tanta malevolenza “più di uno scrittore, non solo in vita, ma eziandio dopo la morte, è frodato del tutto dell’onore che gli si dee”.
 Per giunta pochi sono capaci di intendere “che e quale sia propriamente il perfetto scrivere”. Chi non intende questo “non può né anche avere la debita ammirazione agli scrittori sommi”. La conclusione del ragionamento dunque è: “ Or vedi a che si riduca il numero di coloro che dovranno potere ammirarti e saper lodarti degnamente, quando tu con sudori[2] e con disagi incredibili, sarai pure alla fine riuscito a produrre un’opera egregia e perfetta”.
Inoltre la reputazione di uno scrittore proviene “piuttosto da consuetudine ciecamente abbracciata, che da un giudizio proprio”
Il giovane, ossia Leopardi, ricorda che leggendo Virgilio anni prima “con piena libertà di giudizio da una parte, e nessuna cura dell’autorità altrui, il che non è comune a molti” con l’imperizia di quell’età, ma forse minore “di quella che in moltissimi lettori è perpetua, ricusava fra me stesso di concorrere nella sentenza universale; non discoprendo in Virgilio molto maggiori virtù che nei poeti mediocri. Quasi anche mi maraviglio che la fama di Virgilio sia potuta prevalere a quella di Lucano”. Vedi che la moltitudine dei lettori (…) è molto più dilettata dalle bellezze grosse e patenti, che dalle delicate e riposte; più dall’ardire che dalla verecondia; spesso eziandio dall’apparente più che dal sostanziale; e per l’ordinario più dal mediocre che dall’ottimo”.

La necessità della fatica è una dichiarazione topica: Esiodo dice che davanti al valore gli dei hanno posto il sudore: "th'" d j ajreth'" iJdrw'ta qeoi; propavroiqen e[qhkan" (Opere, 289).
 Nell'Elettra di Sofocle la protagonista dice alla mite sorella Crisotemi: "o{ra, povnou toi cwri;" oujde;n eujtucei'''" (v. 945), bada, senza fatica niente ha successo.

 Nei Memorabili[3] di Senofonte la donna virtuosa, la Virtù personificata, avvisa Eracle al bivio che gli dèi niente di buono concedono agli uomini senza fatica e impegno:"tw'n ga;r o[ntwn ajgaqw'n kai; kalw'n oujde;n a[neu povnou kai; ejpimeleiva" qeoiv didovasin ajnqrwvpoi"" (II, 1, 28).

Così Cleante stoico in Diogene Laerzio (VII 172): “quando uno Spartano gli disse o{ti oJ povno~ ajgaqovn, lui raggiante di gioia esclamò: “ai{mato~ ei\ ajgaqoi`o, fivlon tevko~, sei di buon sangue, ragazzo mio!”
Si assiste a un eterno ritorno di questa affermazione e di non poche altre. “Tipico atteggiamento della “cultura” greca. Una volta coniata una forma, essa rimane valida anche in stadi ulteriori e superiori, e ogni elemento nuovo deve cimentarsi con essa”[4].
Sappiamo che la cultura greca non si limita ai Greci.

 In tutt'altro contesto, il garrulus che attenta alla vita di Orazio gli fa: " nihil sine magno/vita labore dedit mortalibus"[5], niente senza grande fatica la vita ha mai dato ai mortali.

 Alessandro Magno, che si riteneva discendente di Achille e di Eracle, quando si preparava ad assediare Tiro (estate del 332 a. C.), sognò che Eracle stesso lo introduceva in città. L’indovino Aristandro interpretò la visione onirica dicendo che Tiro sarebbe stata presa “xu;n povnw/ (…) o{ti kai; ta; tou` JHraklevou~ e[rga xu;n povnw/ ejgevnetw. Kai; ga;r kai; mevga e[rgon th`~ Tuvrou hJ poliorkiva ejfainevto[6] con fatica… poiché anche le imprese di Eracle erano avvenute con fatica. E in effetti anche l’assedio di Tiro si presentava come una grande impresa.

 Quando, giunti al fiume Ifasi[7], già oltre l’Indo, i soldati di Alessandro Magno, si rifiutarono di attraversarlo e di procedere verso il Gange, il condottiero macedone, per convincere l’esercito esausto a proseguire, parlò ai soldati dicendo: “Pevra~ de; tw`n povnwn gennaivw/ me;n ajndri; oujde;n dokw` e[gwge o{ti mh; aujtou;~ tou;~ povnou~, o{soi aujtw`n ej~ kala; e[rga fevrousin” (Anabasi di Alessandro, 5, 26, 1), il limite delle fatiche per l’uomo valoroso non credo siano altro che le fatiche stesse, quante di esse lo portano a grandi imprese”. Ma non riuscì a convincere quella gente stremata.

Alessandro Magno non solo si sobbarcò personalmente fatiche immani, e, ovviamente, le impose alle sue truppe, ma le procurò anche ai poeti: Arriano racconta che dopo la distruzione di Tebe (335), poco prima di partire per la sua spedizione, il giovane re di Macedonia celebrò giochi e sacrifici. Allora gli fu annunciato che la statua di Orfeo nella Pieride ijdrw`sai xunecw`~ sudava continuamente; quindi l’indovino Aristandro disse che cantare le gesta di Alessandro sarebbe costato polu;~ povno~ ai poeti (Anabasi di Alessandro, I, 11, 2 - 3).

Dante mette in rilievo la grande fatica che gli è costata l’opera grandiosa della sua Commedia: il “poema sacro/al quale ha posto mano e cielo e terra/sì che m’ha fatto per più anni macro” (Paradiso, XXV, 1 - 3).

Machiavelli nota che molti uomini attribuiscono alla Fortuna un potere eccessivo nella vita umana e per questo ritengono “che non fussi da insudare molto nelle cose, ma lasciarsi governare dalla sorte”.
 Il segretario fiorentino non condivide questo parere: “perché el nostro libero arbitrio non sia spento, iudico poter essere vero che la fortuna sia arbitre della metà delle azioni nostre, ma che ancora lei ne lasci governare l’altra metà, o presso, a noi”. La Fortuna come certi “fiumi rovinosi…dimostra la sua potenzia dove non è ordinata virtù a resisterle, e quivi volta li sua impeti, dove la sa che non sono fatti li argini e li ripari a tenerla”. Dunque non bisogna adagiarsi sulla Fortuna: “ quel principe che s’appoggia tutto in sulla fortuna, rovina, come quella varia” (Il principe, 25).

Gli eterni giovani sciocchi
Leopardi trova che nella sua età prevalgano “creature”, giovani e anziane, infantilmente insensate: "Amico mio, questo secolo è un secolo di ragazzi, e i pochissimi uomini che rimangono, si debbono andare a nascondere per vergogna, come quello che camminava diritto in paese di zoppi. E questi buoni ragazzi vogliono fare in ogni cosa quello che negli altri tempi hanno fatto gli uomini, e farlo appunto da ragazzi, senza altre fatiche[8] preparatorie"[9].

Mevga nhvpio~ è l'attardato bambino pargoleggiante (ajtavllwn) dell’età d’argento: tali tipi umani rimanevano cento anni in casa con la madre solerte, poi, quando ne uscivano, vivevano per un tempo meschino, soffrendo dolori per la loro stupidità: poiché non potevano astenersi da un’insolente prepotenza reciproca[10] (Esiodo, Opere e giorni, vv 130 - 135).

 Nel Satyricon il retore Agamennone biasima i genitori - parentes obiurgatione digni sunt - i quali, resi troppo frettolosi dall'ambitio, non concedono agli studi dei figli i lunghi tempi necessari alla formazione di una buona cultura e di buoni oratori:"primum enim sic ut omnia, spes quoque suas ambitioni donant. deinde cum ad vota properantcruda adhuc studia in forum impellunt et eloquentiam, qua nihil esse maius confitentur, pueris induunt adhuc nascentibus. quod si paterentur laborum gradus fieri, ut studiosi iuvenes lectione severa irrigarentur, ut sapientiae praeceptis animos componerent, ut verba atroci stilo effoderent, ut quod vellent imitari diu audirent, <ut persuaderent> sibi nihil esse magnificum, quod pueris placeret: iam illa grandis oratio haberet maiestatis suae pondus" (4, 2 - 3), per prima cosa infatti sacrificano all'ambizione, come ogni altra cosa, anche le proprie speranze. Poi, siccome si affrettano verso i desideri, spingono nel foro talenti ancora acerbi e fanno indossare a ragazzini nemmeno nati del tutto l'eloquenza, di cui pure riconoscono che non c'è nulla di più grande. Se lasciassero, dico, che venissero scalati i gradini della fatica, in modo che i giovani desiderosi di cultura si annaffiassero di letture serie, e ordinassero le menti con le regole della sapienza, e cavassero le parole con penna inesorabile, e ascoltassero a lungo quello che vogliono imitare, e si convincessero che niente di ciò che piace ai ragazzi è magnifico: allora quella grande oratoria avrebbe il peso della sua maestà.
I giovani non sono più sottoposti a prove severe e non c'è abbastanza disciplina:"nunc pueri in scholis ludunt, iuvenes ridentur in foro, et quod utroque turpius est, quod quisque<puer> perpĕram didicit, in senectute confiteri non vult " (4, 4), ora i ragazzi nelle scuole giocano, da giovani fanno ridere nel foro, e cosa che è più vergognosa di entrambe queste, quello che ciascuno da ragazzo ha imparato male, in vecchiaia non vuole ammetterlo.
Orazio nell’Ars poetica prescrive: “vos exemplaria Graeca/nocturna versate manu, versate diurna” (vv. 268 - 269).
Più avanti Orazio suggerisce: “ carmen reprehendite quod non/ multa dies et multa litura coercuit atque/ praesectum decies non castigavit ad unguem” (Ars poetica, vv. 292 - 294), biasimate la poesia che né un lungo tempo né molte cancellature hanno rifinito né dopo averlo sfrondato una decina di volte non ha corretto fino alla perfezione.


I classici non passano mai di moda. Il problema della traduzione.
Leopardi ebbe a scrivere "Tutto si è perfezionato da Omero in poi, ma non la poesia"[11].

 “Qualunque stile moderno ha proprietà, forza, semplicità, ha sempre sapore di antico, e non par moderno, e forse anche perciò si riprende, e volgarmente non piace” (Zibaldone, 1988).
Tradurre i classici come si deve significa imparare a scrivere: “La piena e perfetta imitazione è ciò che costituisce l’essenza della perfetta traduzione, come altrove ho detto. Or questo è ciò che sa fare la nostra lingua, e che non può la tedesca, essendo altro il contraffarre, altro l’imitare” (1988).

Leggiamo altre considerazioni del Recanatese sulla traduzione perfetta: “La perfezion della traduzione consiste in questo, che l’autore tradotto, non sia p. e. greco in italiano, greco o francese in tedesco, ma tale in italiano o in tedesco, quale egli è in greco o in francese. Questo è il difficile, questo è ciò che non in tutte le lingue è possibile” (Zibaldone, 2134). La lingua italiana la quale è “piuttosto un aggregato di lingue che una lingua, laddove la francese è unica”, ha maggiore facoltà rispetto alle altre “di adattarsi alle forme straniere…Queste considerazioni rispetto alla detta facoltà della nostra lingua, si accrescono quando si tratta della lingua latina, o della greca. Perché alle forme di queste lingue, la nostra si adatta anche identicamente, più che qualunque altra lingua del mondo: e non è maraviglia, avendo lo stesso genio, ed essendosi sempre conservata figlia vera di dette lingue, non solo per ragioni di genealogia e di fatto, ma per vera e reale somiglianza e affinità di natura e di carattere” (Zibaldone, 964 e 965).
“Amava moltissimo l’italiano perché era una lingua molteplice: come il greco, era un aggregato di molte lingue piuttosto che una lingua sola, e gli concedeva la libertà di tentare ogni stile. Se ebbe sempre molte riserve sulla metafisica, la morale e la cosmogonia di Platone, la sua ammirazione per il Fedro non aveva limiti. Trovava nello stesso testo “non dico tre stili, ma tre vere lingue”; la prima nel dialogo tra Socrate e Fedro, la seconda nelle due orazioni di Lisia e Socrate, la terza nell’orazione di Socrate “in lode dell’amore”[12].
Ma sentiamo Leopardi: “Chi vuole vedere un piccolo esempio della infinita varietà della lingua greca, e come ella sia innanzi un aggregato di più lingue che una lingua sola, secondo che ho detto altrove, e vuol vederlo in uno stesso scrittore e in uno stesso libro; legga il Fedro di Platone. Nel quale troverà, non dico tre stili, ma tre vere lingue, l’una nelle parole che compongono il dialogo tra Socrate e Fedro, la quale è la solita e propria di Platone, l’altra nelle due orazioni contro l’amore, in persona di Lisia e di Socrate; la terza nell’orazione di questo in lode dell’amore.” (Zibaldone, 2717).
Leopardi ha tradotto, di Isocrate, il NicocleA DemonicoA Nicocle e l’Areopagitico.
Vediamo come ha reso il pensiero sul culto della parola (“eij de; dei' sullhvbdhn peri; th'~ dunavmew~ tauvth~ eijpei'n, oujde;n tw'n fronivmw~ prattomevnwn eurhvsomen ajlovgw~ gignovmenon, alla; kai; tw'n e[rgwn kai; tw'n dianohmavtwn aJpavntwn hJgemovna lovgon o[nta, kai; mavlista crwmevnou~ aujtw'/ tou;~ plei'ston nou'n e[conta~[13], “E a dire di questa facoltà in ristretto, nessuna opera che si faccia con ragione e senno, si fa senza intervento della favella, governatrice e regina di tutti gli atti e pensieri dell’uomo; e trovasi che chi più intendimento ha, più la suole usare”.
Questa di seguito invece è la traduzione mia
“Se si deve tirare le somme su questa potenza, troveremo che nulla di quanto è fatto con intelligenza viene fatto senza la parola, ma che anzi la parola è guida delle azioni e dei pensieri tutti, e che si avvalgono soprattutto di essa quelli che hanno la più grande capacità di pensiero”.


 Il classico non segue le mode, anzi, si presta a essere usato contro le mode.
La moda è sorella della morte. Infatti sono entrambe figlie della Caducità
Nel Dialogo della Moda e della Morte, la Moda si presenta alla Morte “io sono la moda, tua sorella”. E la Morte: “Mia sorella?” “Sì - risponde la Moda - : non ti ricordi che siamo nate dalla Caducità? (...) e so che l’una e l’altra tiriamo parimenti a disfare e a rimutare di continuo le cose di quaggiù (…) la nostra natura e usanza comune è di rinnovare continuamente il mondo, ma tu fino da principio ti gittasti alle persone e al sangue; io mi contento per lo più delle barbe, dei capelli, degli abiti, delle masserizie, dei palazzi e di cose tali. Ben è vero che io non sono però mancata e non manco di fare parecchi giuochi da paragonare ai tuoi, come verbigrazia sforacchiare quando orecchi, quando labbra e nasi, e stracciarli colle bazzecole che io v’appicco per li fori; abbruciacchiare le carni degli uomini con istampe roventi…”[14]. Si pensi ai tatuaggi, alla chirurgia estetica e ad altre schifezze del genere
E poi:”storpiare la gente colle calzature snelle; chiuderle il fiato e fare che gli occhi le scoppino dalla strettura dei bustini; e cento altre cose di questo andare”.
La Moda in conclusione vanta i suoi buoni meriti nei confronti della sorella: “io per favorirti ho mandato in disuso e in dimenticanza le fatiche e gli esercizi che giovano al ben essere corporale, e introdottone o recate in pregio innumerabili che abbattono il corpo in mille modi e scorciano la vita” Inoltre “ho messo nel mondo tali ordini e tali costumi, che la vita stessa, così per rispetto del corpo come dell’animo, è più morta che viva; tanto che questo secolo si può dire con verità che sia proprio il secolo della morte”
Nel Dialogo di Tristano e di un amico, il primo dice: “E gli uomini sono codardi, deboli, d’animo ignobile e angusto; docili sempre a sperar bene, perché sempre dediti a variare le opinioni del bene secondo che la necessità governa la loro vita; prontissimi a render l’arme, come dice il Petrarca, alla loro fortuna[15]” 

 La poetica sull’indefinito.
Nello Zibaldone leggiamo: «le parole lontano, antico, e simili sono poeticissime e piacevoli, perché destano idee vaste, e indefinite, e non determinabili e confuse» (1789). E, più avanti (4426): «il poetico, in un modo o in altro modo, si trova sempre consistere nel lontano, nell'indefinito, nel vago».
Il canto corale delle tragedie, a più voci, entra in questa poetica del vago e dell’indefinito.
Il coro infatti è "parte di quel vago, di quell'indefinito ch'è la principal cagione dello charme dell'antica poesia e della letteratura. L'individuo è sempre cosa piccola, spesso brutta, spesso disprezzabile. Il bello e grande ha bisogno dell'indefinito, e questo indefinito non si poteva introdurre sulla scena, se non introducendovi la moltitudine" (2804).
“Il pubblico, il popolo, l’antichità, gli antenati, la posterità: nomi grandi e belli, perché rappresentano un’idea indefinita” 2805
“Per grande e perfetto che il poeta avesse finto questo individuo, la idea medesima di individuo è troppo determinata e ristretta, per produrre una sensazione o concezione indeterminata ed immensa” 2806


La brevità necessaria.
Leopardi apprezza molto anche la brevità degli autori.“Quanto una lingua è più ricca e più vasta, tanto ha bisogno di meno parole per esprimersi, e viceversa quanto è più ristretta, tanto più le conviene largheggiare in parole per comporre un’espressione perfetta. Non si dà proprietà di parole e modi senza ricchezza e vastità di lingua, e non si dà brevità di espressione senza proprietà” (Zibaldone, 1822).
“Non era molto ciò che egli sapeva, ma un uomo intelligente sa con dieci parole dire meglio che uno sciocco con cento”[16]. Si tratta del giovane Giuseppe

L’Anonimo Sul sublime sconsiglia il polisindeto , la ripetizione delle congiunzioni , poiché le congiunzioni smussano e fanno cadere l'aspro incalzare delle passioni ( Sul Sublime, 21). Impacciare la passione con le congiunzioni è come legare le membra di chi corre.

La semplicità, l'essenzialità elegante è distintiva dello stile stesso di Orazio poeta. Lo si può ricavare da queste parole di Nietzsche :"Non ho mai provato, fino ad oggi, in nessun poeta, lo stesso rapimento artistico che mi dette, fin dal principio, un'ode di Orazio. In certe lingue quel che lì è raggiunto non lo si può neppure volere. Questo mosaico di parole in cui ogni parola come risonanza, come posizione, come concetto fa erompere la sua forza a destra, a sinistra e sulla totalità, questo minimum nell'estensione e nel numero dei segni, questo maximum , in tal modo realizzato, nell'energia dei segni - tutto ciò è romano e, se mi si vuol credere, nobile par excellence . Tutto il resto della poesia diventa in paragone qualcosa di troppo popolare - nent'altro che loquacità sentimentale"[17].

Il bello e l’utile.
Il kalovn e il sumfevron: cfr. la Medea di Euripide dove Giasone "dra'/ ta; sumforwvtata " (v. 876) fa quello che è più utile, come riconosce la moglie abbandonata, quando finge di sottomettersi beffeggiandolo.
Leopardi in Il pensiero dominante del 1831 condanna l’ossessione dell’utile da parte della sua età "Di questa età superba,/ che di vote speranze si nutrica,/vaga di ciance, e di virtù nemica;/stolta, che l'util chiede,/e inutile la vita/quindi più sempre divenir non vede/ maggior mi sento"(vv. 59 - 65).
Giasone ricaverà dolore dal suo privilegiare l’utile.

Ancora più duramente si esprime nei confronti del lucro il poeta di Recanati nella Palinodia al Marchese Gino Capponi del 1835:" E già dal caro/sangue de’ suoi non asterrà la mano/la generosa stirpe; anzi coverte/fien di stragi l'Europa e l'altra riva/dell'atlantico mar, fresca nutrice/di pura civiltà, sempre che spinga/contrarie in campo le fraterne schiere/di pepe o di cannella o d'altro aroma/fatale cagione, o di melate canne,/o cagion qual si sia ch'ad auro torni"(vv. 59 - 67).

La terapia del rovesciamento: mettersi nei panni (o nei piedi degli altri).

Nella commedia L’arbitrato (Epivtreponte") di Menandro (342 - 291), Carisio, il marito che si crede tradito, comprende che l'errore sessuale della moglie Panfile, presunto, ma da lui ritenuto reale, è stato un "involontario infortunio della donna"( ajkouvsion gunaiko;" ajtuvchm j, v. 594).
 Il protagonista di questa commedia ripropone la formula antica della dovxa , la reputazione, ma poi la supera.
Carisio definisce se stesso, ironicamente, l'uomo senza peccato attento alla reputazione ( ejgwv ti" ajnamavrthto", eij" dovxan blevpwn, v. 588) e comprende che l'errore sessuale della moglie è stato un ajkouvsion gunaiko;" ajtuvchm j.

Quell’ ejgwv ti" ajnamavrthto" anticipa il Vangelo di Giovanni:"chi di voi è senza peccato scagli la pietra per primo contro di lei, oJ ajnamavrthto" uJmw'n prw'to" ejp j aujth;n balevtw livqon (8, 7). Qui non si tratta di un adulterio presunto. Infatti gli scribi e i farisei portano al tempio una donna còlta in adulterio (mulierem in adulterio deprehensam , 8, 3) e chiedono al Cristo, che insegnava in quel luogo, se dovesse essere lapidata secondo la legge mosaica. Lo dicevano per metterlo alla prova e magari poterlo accusare. Gesù allora si diede a scrivere con il dito sulla terra. E siccome lo incalzavano, il Redentore, rizzatosi, disse loro:" qui sine peccato est vestrum, primus in illam lapidem mittat ". E riprese a scrivere per terra. Tutti gli altri uscirono, e il Cristo, rimasto solo con la donna, la assolse, come tutti gli altri, aggiungendo:"vade et amplius iam noli peccare " (8, 11), vai e non peccare più.
Se è credibile quanto ha scritto Celso nel Discorso vero ( anni di Marco Aurelio) Gesù si è messo nei panni dell’adultera pensando alla propria madre. E non lo scrivo per disonorare Gesù né Maria.
Ma sentiamo Celso
Di lui ci è arrivata, e soltanto in parte, un'unica opera, l'Alethès lógos (tradotto in genere come La vera dottrinaLa vera parolaDiscorso veroDiscorso di verità) contro la religione cristiana, ricostruita grazie alla confutazione che ne propose Origene nel secolo successivo in un'opera, Contro Celso, che ne contiene ampi stralci per confutarli (e dall'opera origeniana deriva il numero del libro e del capitolo con cui i brani sono citati).
Di esser nato da una vergine, te lo sei inventato tu [Gesù]. Tu sei nato in un villaggio della Giudea da una donna del posto, una povera filatrice a giornata. Questa fu scacciata dal marito, di professione carpentiere, per comprovato adulterio. Ripudiata dal marito e ridotta a un ignominioso vagabondaggio, clandestinamente ti partorì. A causa della tua povertà, hai lavorato come salariato in Egitto, dove sei diventato esperto in taluni poteri, di cui vanno fieri gli Egiziani. Poi sei tornato, e insuperbito per questi poteri, proprio grazie ad essi ti sei proclamato figlio di Dio. Tua madre, dunque, fu scacciata dal falegname, che l'aveva chiesta in moglie, perché convinta di adulterio e fu resa incinta da un soldato di nome Pantera[13]. Ma l'invenzione della nascita da una vergine è simile alle favole di Danae, di Melanippe, di Auge e di Antiope.» (I, 28)



 Leopardi: “gli scolari partiranno dalla scuola dell’uomo il più dotto, senz’aver nulla partecipato alla sua dottrina, eccetto il caso (raro) ch’egli abbia quella forza d’immaginazione, e quel giudizio che lo fa astrarre interamente dal suo proprio stato, per mettersi ne’ piedi de’ suoi discepoli, il che si chiama comunicativa. Ed è generalmente riconosciuto che la principal dote di un buon maestro e la più utile, non è l’eccellenza in quella dottrina, ma l’eccellenza nel saperla comunicare (…) E l’immaginazione necessaria alla comunicativa è sempre propria dei geni, anche filosofici, anche metafisici, anche matematici”[18].

E più avanti: “Ma il gran torto degli educatori è di volere che ai giovani piaccia quello che piace alla vecchiezza o alla maturità; che la vita giovanile non differisca dalla matura; di voler sopprimere la differenza di gusti di desiderii ec., che la natura invincibile e immutabile ha posta fra l’età de’ loro allievi e la loro, o non volerla riconoscere, o volerne affatto prescindere…di volere che gli ammaestramenti, i comandi, e la forza della necessità suppliscano all’esperienza ec.”[19].

Le quattro parti della vita in Orazio
Orazio nell' Ars poetica[20] distingue le quattro diverse parti che ciascuno di noi recita nella vita. Dobbiamo ricordarcene noi insegnanti per avvicinarci alla comprensione dei nostri ragazzi.
Dunque:"aetatis cuiusque notandi sunt tibi mores" (156), devi badare bene ai costumi specifici di ciascuna età. Segue una descrizione dei mores delle varie età: il puer gestit paribus colludere (159), smania di giocare con i suoi compagni, e cambia umore spesso: et mutatur in horas (160).
Poi c’è l' imberbus iuvenis il giovinetto imberbe il quale gaudet equis canibusque, è cereus in vitium flecti, facile come la cera a prendere l'impronta del vizio, prodigus aeris, prodigo di denaro.
Più avanti negli anni, conversis studiis aetas animusque virilis/quaerit opes et amicitias, inservit honori (vv. 166 - 167), cambiate le inclinazioni, l'età e la mente adulta cerca ricchezze e aderenze, si dedica alla conquista del potere.
Infine c'è il vecchio:"difficilis, querulus, laudator temporis acti/se puero, castigator censorque minorum" (vv. 173 - 174), difficile, lamentoso, elogiatore del tempo trascorso da ragazzo, critico e censore dei giovani. Sono dunque quattro atti che recitiamo in quattro parti diverse, con quattro aspetti diversi. 

Sentiamo anche Shakespeare che distingue sette parti nella recita della vita.
:" All the world's a stage - And all the men and women merely players" (As you like it [21], II, 7), tutto il mondo è un palcoscenico e tutti gli uomini e le donne non sono che attori. Essi, continua il malinconico Jaques, hanno le loro uscite e le loro entrate. Una stessa persona, nella sua vita, rappresenta parecchie parti, poiché sette età costituiscono gli atti della vita umana". Segue la descrizione dei sette atti. Ci interessa il secondo: quello dello "scolaro piagnucoloso che, con la sua cartella e col suo mattutino viso infreddolito, striscia come una lumaca malvolentieri alla scuola - creeping like snail unwillingly to school - "; poi il terzo quello dell' innamorato "che sospira come una fornace, con una triste ballata composta per le sopracciglia dell'amata". Infine "l'ultima scena, che chiude questa storia strana e piena di eventi, è seconda fanciullezza e completo oblio, senza denti, senza vista, senza gusto, senza nulla".

La fine della recita di Augusto
Nella Vita di Svetonio troviamo l'ultima scena di Augusto il quale supremo die , fattisi mettere in ordine i capelli e le guance cascanti, domandò agli amici "ecquid iis videretur mimum vitae commode transegisse" (99), se a loro sembrasse che avesse recitato bene la farsa della vita, quindi chiese loro, in greco, degli applausi con la solita clausula delle commedie:" eij de; ti - e[coi kalw'" to; paivgnion, krovton dovte", se è andato un po’ bene questo scherzo, applaudite.
La “corta buffa (…) per che l’umana gente si rabbuffa”[22] era giunta al termine.

Epitteto afferma che noi siamo solo attori nel dramma della vita, poiché il regista che assegna le parti è un altro: allora “il tuo compito è “uJpokrivnasqai provswpon kalovn” recitare bene la parte, ma sceglierla è affare di un altro: “ejklevxasqai d 0 aujto; allou” (Manuale, 17)


CONTINUA



[1] Scritta nel 1824, pubblicata nel 1827.
[2] Cfr. A Silvia le “sudate carte” (16)
[3] Scritto socratico in quattro libri che presenta il maestro come un uomo probo e onesto, rispettoso della religione e delle leggi, valida guida morale nella vita pratica
[4] W. Jaeger, Paideia 1, p. 191.
[5] Sermones, I, 9, 59 - 60 -
[6] Arriano (età di Traiano e di Adriano), Anabasi di Alessandro, 2, 18, 1.
[7] Nell’estate del 326 a. C.
[8] Di nuovo il topos della fatica necessaria (cfr. cap. 3).
[9] Dialogo di Tristano e di un amico (1832). E’ una delle Operette morali delle quali l’autore scrive:"Così a scuotere la mia povera patria, e secolo, io mi troverò avere impiegato le armi del ridicolo ne' dialoghi e novelle Lucianee ch'io vo preparando"(Zibaldone , 1394). 
[10] Nhvpio" è l’idiota che non sa parlare (nh - e[po"): cfr. quanto scrive Pasolini sull’atroce afasia che prelude alla violenza.
[11]Zibaldone , 58.
[12] P. Citati, Leopardi, p.58.
[13] Nicocle 9 e Antidosi 257.
[14]Operette morali, Dialogo della Moda e della Morte.
[15] Or, lasso, alzo la mano, e l’arme rendo/a l’empia e violenta mia fortuna” (Canzoniere, CCCXXXI, Canzone XXVI vv. 7 - 8)
[16] T. Mann, Il giovane Giuseppe, p. 176.
[17] Crepuscolo degli idoli, Quel che debbo agli antichi, 1.
[18] Zibaldone, 1376 e 1377
[19] Zibaldone, 1473.
[20] Composta tra il 18 e il 13 a. C.
[21] 1599 - 1600.
[22] Dante, Inferno, VII, 61 e 63.

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