domenica 14 aprile 2019

Leopardi e gli Antichi. Alcuni topoi. Parte 5. Leopardi e la sapienza silenica

Sileno
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Dalla conferenza Leopardi e gli Antichi, 15 aprile 2019, biblioteca Scandellara di Bologna

La sapienza Silenica e il suo rovesciamento. Omero, Euripide, Leopardi, Nietzsche e altri

Il "sacrilego" Euripide nell'Alcesti fa scattare incongruamente la sapienza silenica dentro l'anima di Admeto quando questo sente la mancanza della moglie cui aveva chiesto egli stesso di morire per lui: "zhlw' fqimevnou", keivnwn e[ramai, - kei'n j ejpiqumw' dwvmata naivein"(vv.865 - 867), invidio i morti, quelli amo, quelle dimore desidero abitare. Ma Kott che attribuisce ogni malignità a Euripide, sostiene, malignamente, che la resipiscenza di Admeto è fasulla: "Che cosa ha capito? che la casa è sporca, che i bambini piangono, che lui non può risposarsi, che tutti lo considerano un codardo"[1].

L'invidia dei morti (genitivo oggettivo) espressa da Admeto è silenicamente manifestata anche da Leopardi:" In altri tempi ho invidiato gli sciocchi e gli stolti, e quelli che hanno un gran concetto di se medesimi; e volentieri mi sarei cambiato con qualcuno di loro. Oggi non invidio più né stolti né savi, né grandi né piccoli, né deboli né potenti. Invidio i morti, e solamente con loro mi cambierei...Se mi fosse proposta da un lato la fortuna e la fama di Cesare o di Alessandro netta da ogni macchia, dall'altro di morir oggi, e che dovessi scegliere, io direi, morir oggi, e non vorrei tempo a risolvermi"[2].
Leopardi, nella Storia del genere umano , non manca di ricordare con simpatia gli autori, Erodoto in primis, che narrano storie sileniche:, "Ma in progresso di tempo tornata a mancare affatto la novità, e risorto e riconfermato il tedio e la disistima della vita, si ridussero gli uomini in tale abbattimento, che nacque allora, come si crede, il costume riferito nelle storie come praticato da alcuni popoli antichi che lo serbarono, che nascendo alcuno, si congregavano i parenti e loro amici a piangerlo; e morendo, era celebrato quel giorno con feste e ragionamenti che si facevano congratulandosi coll'estinto".

 Detti memorabili di Filippo Ottonieri: “Dimandato a che nascano gli uomini, rispose per ischerzo: a conoscere quanto sia più spediente il non esser nato”

Leopardi usa la massima monostica, e quasi silenica "o{n oiJ qeoi; filou'sin, ajpoqnhvskei nevo"" (fr. 583 Jäkel) di Menandro, definito "principe" della commedia nuova nello Zibaldone (3487). La gnwvmh fa da epigrafe al Canto Amore e Morte in questa traduzione: "Muor giovane colui ch'al cielo è caro".

Nel Dialogo di Malambruno e di Farfarello del 1824, il mago Malambruno - la cui arte “può sgangherare la luna, e inchiodare il sole a mezzo il cielo” - dice al diavolo Farfarello[3] E’ tra “li diece demoni” che scortano Dante e Virgilio nella bolgia dei barattieri (Inferno, XXI, 123), in coppia con Rubicante pazzo, poi (Inferno, XXII, 95 “che stralunava li occhi per fedire) : “Di modo che, assolutamente parlando, il non vivere è sempre meglio del vivere”
E Farfarello conclude: “dunque se ti pare di darmi l’anima prima del tempo, io sono qui pronto per portarmela”

 Lucrezio compiange la creatura umana che, appena arriva alla luce, riempie il luogo con un lugubre vagito: "puer (...) nudus humi iacet, infans, indigus omni - vitali ausilio, cum primum in luminis oras - nixibus ex alvo matris natura profudit,/ vagituque locum lugubri complet, ut aequumst/cui tantum in vita restet transire malorum "[4].
Cfr. Leopardi: “Nasce l’uomo a fatica,/ed è rischio di morte il nascimento./Prova pena e tormento /per prima cosa; e in sul principio stesso/la madre e il genitore/il prende a consolar dell’esser nato” (Canto notturno di un pastore errante dell’Asia del 1829, vv. 39 - 44)

Cicerone ci racconta la storiella sul Sileno (de Sileno fabella ) il quale catturato da Mida, e poi liberato dal re, non un poveraccio dunque ma un uomo ricco e potente come Creso, gli diede questo insegnamento:" non nasci homini longe optimum esse, proximum autem, quam primum mori "[5], non nascere per l'uomo è di gran lunga la cosa migliore, la seconda, poi, morire al più presto .
Seneca, per consolare Marzia che ha perso un figlio ventenne enumera le difficoltà della vita umana, insidiosa e fallace al punto che nessuno l'accetterebbe se non fosse data all'insaputa, e conclude :"Itaque, si felicissimum est non nasci, proximum est, puto, brevi aetate defunctos cito in integrum restitui "[6], pertanto, se la condizione più fortunata è non nascere, la seconda è, credo, compiuta una breve età, tornare al più presto all'integrità originaria.
Petronio nel Satyricon: dove, se si fanno bene i conti, il naufragio è dappertutto "Si bene calculum ponas, ubique naufragium est ",
(115, 17, detto dall’io narrante Encolpio), attribuisce il desiderio di morire alla Sibilla:"Nam Sybillam quidem Cumis, ego ipse, oculis meis, vidi in ampulla pendere et cum illi pueri dicerent - Sivbulla tiv qevlei"; - respondebat illa - ajpoqanei'n qevlw - "(48, 8), infatti la Sibilla di certo a Cuma vidi io stesso con i miei occhi sospesa in un'ampolla, e dicendole i fanciulli - Sibilla, cosa vuoi? - , rispondeva lei - morire voglio - ". E’ Trimalchione che parla - miti vultu.
La profetessa vuole morire poiché la terra è sconciata dall'empietà, dall'impotenza e dalla sterilità:" Itaque dii pedes lanatos habentquia nos religiosi non sumus. Agri iacent "(44, 18, parole di Ganimede), così gli dèi hanno i piedi inceppati, poiché non siamo religiosi. I campi giacciono nell'abbandono.
E più avanti (129, 6):"adulescens, paralysin cave ", giovane, guardati dalla paralisi. Parole scritte da Circe a Encolpio chiamato Polieno[7] e colpito dall’ira di Priapo.

La misura apollinea e omerica costituisce un antidoto a tale pessimismo: Omero giustifica le difficoltà e gli inganni della vita con l'eroismo e la bellezza; allora vivere, vivere comunque, diventa il bene supremo, e Achille nell'Ade chiede a Odisseo di non volere consolarlo della morte ("mh; dh; moi qavnaton ge parauvdaOdissea , XI, 488) poiché sarebbe disposto a servire un padrone povero sulla terra, piuttosto che dominare su tutte le ombre svigorite del regno dei morti.

Vediamo quindi il rovesciamento della sapienza silenica

Odissea. Achille nella Nevkuia dice al figlio di Laerte " non consolarmi della morte, splendido Odisseo./Io preferirei essendo un uomo che vive sulla terra servire un altro,/presso un uomo povero, che non avesse molti mezzi per vivere,/piuttosto che regnare su tutti i morti consunti"(Odissea , XI, 488 - 491).
Essere vivi diventa il valore supremo. "Per esprimere con impressionante efficacia il suo rimpianto per la vita, il morto Achille dice a Odisseo che lo incontra nell'oltretomba: vorrei lavorare come un thes ( qhteuevmen[8], Od. XI, 489)"[9].
Già nel IX canto dell’Iliade , quello dell’ambasceria, Achille aveva detto che niente ha lo stesso valore della vita: “ouj ga;r ejmoi; yuch`~ ajntavxion (v. 401): non le ricchezze di Ilio prima della guerra, non quanto racchiude la soglia di pietra del tempio di Apollo.
Buoi e grassi montoni si possono rapire, i tripodi si possono comprare e pure bionde criniere di cavalli, ma la vita di un uomo (ajndro;~ de; yuchv) non la puoi rapire né afferrare perché torni indietro, quando ha superato la chiostra dei denti (405 - 408).
“Un atteggiamento passeggero e dettato dall’odio verso Agamennone e gli Achei…Poi Achille torna in battaglia per riconquistare il suo statuto e il suo destino, torna alla sua scelta per una vita breve e gloriosa: il dubbio, dettato dall’odio temporaneo verso i compagni, è il pensoso chiaroscuro introdotto da un grande poeta”[10].

Su questo ribaltamento sentiamo Leopardi: “La morte consideravasi dagli antichi come il maggiore de’ mali; le consolazioni degli antichi non erano che nella vita; i loro morti non avevano altro conforto che d’imitar la vita perduta; il soggiorno dell’anime, buone o triste, era un soggiorno di lutto, di malinconia, un esilio; esse richiamavano di continuo la vita con desiderio, ec. ec… (14 Ottobre 1828)”[11]. Le anime dei morti evocate da Odisseo nella Nevkuia sono “teste svigorite”, ajmenhna; kavrhna (Odissea, XI, 29)
Con Platone però tutto cambia e torna la sapienza silenica.

Sentiamo Nietzsche
Secondo Nietzsche i Greci hanno vinto l'orrore del caos e rovesciato la triste sapienza silenica, la quale rifiuta la vita, attraverso la giustificazione estetica ed eroica dell'esistenza umana: "Il Greco conobbe e sentì i terrori e le atrocità dell'esistenza: per poter comunque vivere, egli dové porre davanti a tutto ciò la splendida nascita sognata degli dèi olimpici. L'enorme diffidenza verso le forze titaniche della natura, la Moira spietatamente troneggiante su tutte le conoscenze, l'avvoltoio del grande amico degli uomini Prometeo, il destino orrendo del saggio Edipo, la maledizione della stirpe degli Atridi, che costringe Oreste al matricidio, insomma tutta la filosofia del dio silvestre con i suoi esempi mitici, per la quale perirono i melanconici Etruschifu dai Greci ogni volta superata, o comunque nascosta e sottratta alla vista, mediante quel mondo artistico intermedio degli dei olimpici. Fu per poter vivere che i Greci dovettero, per profondissima necessità, creare questi dèi: questo evento noi dobbiamo senz'altro immaginarlo così, che dall'originario ordinamento divino titanico del terrore fu sviluppato attraverso quell'impulso apollineo di bellezza, in lenti passaggi, l'ordinamento divino olimpico della gioia, allo stesso modo che le rose spuntano da spinosi cespugli… Così gli dèi giustificano la vita umana vivendola essi stessi - la sola teodicea soddisfacente! L'esistenza sotto il chiaro sole di dèi simili viene sentita come ciò che è in sé desiderabile, e il vero dolore degli uomini omerici si riferisce al dipartirsi da essa, soprattutto al dipartirsene presto: sicché di loro si potrebbe dire, invertendo la saggezza silenica, “la cosa peggiore di tutte è per essi morire presto, la cosa in secondo luogo peggiore è di morire comunque un giorno". Se una volta risuona il lamento, ciò avviene per Achille dalla breve vita, per l'avvicendarsi e il mutare della stirpe umana come le foglie[12], per il tramonto dell'età degli eroi. Non è indegno neanche del più grande eroe bramare di vivere ancora, fosse pure come un lavoratore a giornata[13]Nello stadio apollineo la "volontà" desidera quest'esistenza così impetuosamente, l'uomo omerico si sente con essa così unificato, che perfino il lamento si trasforma in un inno in sua lode"[14].

Concludo con una formulazione dostoevskijana di questa sapienza antisilenica: “Dove ho mai letto”, pensò Raskolnikov proseguendo il cammino, “ dove posso mai aver letto che quel condannato a morte, un’ora prima dell’esecuzione, dice o pensa che se potesse vivere in cima a uno scoglio, su una piattaforma così stretta da poterci tenere soltanto i due piedi, con intorno l’abisso, l’oceano, la tenebra eterna e l’eterna procella, e rimanersene immobile su quello spazio di un metro quadrato per tutta la vita, per mille anni, per l’eternità, ebbene preferirebbe vivere così piuttosto che morire all’istante? Pur di vivere, vivere, vivere! Vivere in qualche modo, ma vivere!... Che verità, Signore Iddio, che verità! L’uomo è un vigliacco! Ed è un vigliacco chi, per questo, lo chiama vigliacco, “aggiunse subito dopo”[15].


CONTINUA


[1]Mangiare Dio , p. 127.
[2]Dialogo di Tristano e di un amico .
[3] E’ tra “li diece demoni” che scortano Dante e Virgilio nella bolgia dei barattieri (Inferno, XXI, 123), in coppia con Rubicante pazzo, poi (Inferno, XXII, 95) si vede “che stralunava li occhi per fedire
[4]De rerum natura , V, 222 - 225.
[5]Tusculanae I, 48.
[6]Consolatio ad Marciam , 22.
[7] Poluvain j (Odissea, XII, 184). Nel Satyricon Circe offre amore a Encolpio dicendo:"nec sine causa Polyaenon Circe amat: semper inter haec nomina magna fax surgit. sume ergo amplexum, si placet " (127, 7), non senza motivo Circe ama Polieno: sempre tra questi nomi guizza una grande fiamma. Prendimi dunque tra le braccia, se ti va. - Odisseo viene chiamato poluvain j dalle Sirene, molto lodato ai\no", lodo , racconto; aijnevw, lodo
La donna vuole facilitare l'unione con l'espediente scaramantico del nomen omen. "Quando, infatti, Encolpio a Crotone prenderà il nome di Polieno e s'imbatterà in una matrona di nome Circe, diverrà inevitabile l'incontro fra lui e Circe sul terreno amoroso proprio perché così è accaduto al polyvainos Odisseo"(P. Fedeli, , Lo spazio letterario di Roma antica, vol I, p. 356.).
[8] infinito atematico con desinenza - men (considerato un eolismo come vedremo) del verbo qhteuvw che significa "lavoro come salariato, qhv""; ebbene, commenta M. Finley, "Un thes , non uno schiavo, era l'ultima creatura sulla terra che Achille potesse pensare. Il terribile per un thes era il fatto di non avere legami, di non appartenere a nulla" (Il mondo di Odisseo , p. 39).
[9]F. Codino, Introduzione a Omero , p. 128.
[10] Franco Montanari, Prima lezione di letteratura greca, Laterza, 2003, p.p. 17 - 18,
[11] Zibaldone, 4399.
[12] Cfr. Iliade, VI, 146:"oi[h per fuvllwn genehv, toivh de; kai; ajndrw'n", proprio quale la stirpe delle foglie, tale è anche quella degli uomini. (n. d. r.)
[13] Cfr. Odissea , XI, vv. 488 - 491. (n. d. r.)
[14] F. Nietzsche, La nascita della tragedia, capitolo III.
[15] F. Dostoevskij, Delitto e castigo, p. 178.

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