venerdì 20 settembre 2019

Imprevedibilità dei casi della vita umana. Seconda parte

il Gruppo Speleologico del CAI Varese esplora un abisso
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Tutto quello che è degli dei si muove lentamente verso l’incerto e la sorte svia verso l’ignoto –hj ga;r tuvch parhvgag j ej" to; dusmaqev" - dice la figlia di Agamennone nell’Ifigenia fra i Tauri (476 - 478) 

Nelle Troiane di Euripide la regina Ecuba conclude la rievocazione dei fasti cui è succeduta la rovinosa caduta della sua vita con queste parole:"tw'n d j eujdaimovnwn - mhdevna nomivzet j eujtucei'n, pri;n a]n qavnh/ " (vv. 509 - 510), di quelli felici non considerate buona la sorte di nessuno prima che sia morto.
Più avanti Andromaca fa notare alla suocera che cadere da una condizione fortunata a una sciagurata significa precipitare in un dolore che rende la vita peggiore della morte. Dunque Polissena sacrificata sulla tomba di Achille sta meglio di lei, la vedova di Ettore, costretta a diventare schiava e amante del figlio dell’assassino di suo marito:
“Ma è meglio morire che vivere miseramente.
Infatti nulla soffre chi non ha più percezione dei mali;

mentre chi ha avuto fortuna poi è caduto nella sventura -
 - oJ d’ eujtuchvsa" ej" to; dustuce;" peswvn -
sente nell’anima la privazione del precedente benessere. (Troiane, 637 - 640).

Insomma perde l’identità, cosa peggiore che perdere la vita.
 Cfr, Dante: “E quella a me: “Nessun maggior dolore - che ricordarsi del tempo felice - nella miseria: e ciò sa il tuo dottore” parla Francesca nel V canto dell’Inferno (vv. 121 - 123, secondo cerchio, quello dei lussuriosi)

 Queste parole ribadiscono gli insegnamenti delfici del conoscere, anche attraverso se stessi, la natura umana, i suoi limiti e pure le sue connessioni con il cosmo, per rifuggire ogni eccesso, ogni rottura dell'equilibrio e dell'armonia.

Aristofane nella parodo della Lisistrata echeggia, attraverso il semicoro dei vecchi, il locus dell’imprevedibilità in chiave parodica: “h\ povll j a[elpt j e[nestin ejn tw'/ makrw'/ bivw/ " (v. 256) davvero in una lunga vita ci sono molte cose impreviste. Al punto che le donne "odiose a Euripide e a tutti gli dèi", come le definisce il corifèo (v. 283) hanno occupato l'Acropoli e intendono fare lo sciopero del sesso per impedire la continuazione della guerra. La parola d'ordine lanciata dalla loro "capa" Lisistrata è :"ajfekteva toivnun ejstivn hJmi'n tou' pevou""(v. 124), bisogna astenersi dal bischero. 

nelle Rane Aristofane fa recitare al personaggio Euripide i primi due versi della sua Antigone che non ci è arrivata:" Edipo dapprima era un uomo felice" ( h\n Oijdivpou" to; prw'ton eujdaivmwn ajnhvr. 1182)... "poi divenne viceversa il più disgraziato dei mortali" (ei\t j ejgevnet j au\qi" ajqliwvtato" brotw'n (v. 1187).
Ogni giorno infatti è diverso dal precedente.

Nell'Ippolito il coro sentenzia:" oujk oi\d j o[pw" ei[poim j a]n eujtucei'n tina - qnhtw'n: ta; ga;r dh; prw't j ajnevstraptai pavlin"(vv. 981 - 982), non so come potrei dire che alcuno dei mortali sia fortunato: infatti le posizioni più alte vengono rovesciate.

Nell'Ecuba la vecchia regina, dopo il sacrificio - assassinio della figlia Polissena constata la vanità della ricchezza e del potere, quindi conclude:"kei'no" ojlbiwvtato" , - o{tw/ kat j h\mar tugcavnei mhde;n kakovn"(vv. 627 - 628), il più felice è quello cui giorno per giorno non tocca nessun male.

 In un'altra cara tragedia di Euripide, l'Andromaca , la protagonista eponima sentenzia :"Crh; d j ou[pot j eijpei'n oujdevn j o[lbion brotw'n - pri;n a]n qanovnto" th;n teleutaivan i[dh/" - o{pw" peravsa" hJmevran h{xei kavtw"(vv.100 - 102), non si deve mai dire felice nessuno dei mortali/prima di avere visto l'ultimo giorno/ del defunto, come avendolo passato, andrà laggiù.

 Nell'Eracle il Coro constata che in un attimo il dio ha rovesciato la situazione dell’eroe vincitore di tanti mostri trasformando in un mostro lui stesso:"tacu; to;n eujtuch' metevbalen daivmwn - tacu; de; pro;" patro;" tevkn j ejkpneuvsetai " (vv. 884 - 885), in fretta il demone ha rivoltato un uomo fortunato; in fretta i figli spireranno per mano del padre.
  
"Chi lotta coi mostri deve guardarsi dal diventare un mostro anche lui. E se tu guarderai a lungo in un abisso, anche l'abisso vorrà guardare dentro di te"[1].
  
Nell’Alcesti [2] di Euripide Eracle espone una sua morale che prefigura il carpe diem oraziano[3] come conseguenza di questa imprevedibilità della vita umana. Dalla constatazione della volubilità della sorte scaturisce una saggezza che sa godere dell’esistenza durante i giorni risparmiati dalla sventura.
"tutti gli uomini devono morire/, e non c'è tra i mortali chi sa/ se vivrà il domani che deve venire/. Il cammino della sorte infatti non si vede dove procederà/, e non si può insegnare né si può prendere con una tecnica/. Allora avendo udito e imparato questo da me/, rallegrati, bevi (eu[fraine sauto;n, pi'ne), calcola/ come tua la vita del giorno, il resto della sorte./ Onora anzi in particolare quella che è la divinità del piacere massimo per i mortali, Cipride che è infatti una dea benevola " (vv. 782 - 791).

Una sentenza del genere viene pronunciata da Anfitrione che si rivolge ai vecchi tebani del coro nell’Eracle: “ajll ,j w\ gevronte", smikra; me;n ta; tou' bivou - tou'ton d j o{pw" h{dista diaperavsate, - ex hJmevra" ej" nuvkta mh; lupouvmenoi (503 - 505), via, o vecchi, piccine sono le cose della vita, attraversatela nel modo più piacevole, senza affliggervi dal giorno alla notte.

L’Elettra di Euripide si chiude con queste parole del Coro
Caivrete: cavirein d j o{sti" duvnatai
kai; xuntuciva/ mh; tini kavmnei
qnhtw'n , eujdaivmona pravssei” (1357 - 1359), state bene: chi può stare bene e non è afflitto per qualche sventura tra i mortali, è felice.

Nel Thyestes il terzo coro di vecchi micenei approva la conciliazione offerta da Atreo, non conoscendo le vere intenzioni del tiranno, e ammonisce i regnanti sulla mutevolezza della sorte: "Nulla sors longa est: dolor ac voluptas/invicem cedunt; brevior voluptas./Ima permutat levis hora summis" (vv. 596 - 598), nessuna sorte dura a lungo: il dolore e il piacere si alternano; più breve è il piacere. Un'ora veloce cambia gli abissi con le cime.

Questo coro del Thyestes si chiude ribadendo il topos con altre parole e applicandolo ai regnanti:"Omne sub regno graviore regnum est;/quem dies vidit veniens superbum,/hunc dies vidit fugiens iacentem./Nemo confidat nimium secundis,/nemo desperet meliora lapsis:/miscet haec illis, prohibetque Clotho/stare fortunam; rotat omne fatum./Nemo tam Divos habuit faventes,/crastinum ut posset sibi polliceri:/res Deus nostras celeri citatas/turbine versat" (vv. 612 - 621), ogni regno si trova sotto un regno più potente; quello che il giorno spuntando ha visto arrogante, questo il giorno al tramonto lo ha visto steso a terra. Nessuno si fidi troppo dei successi, nessuno disperi nel meglio di quanto è caduto: mescola il bene e il male Cloto e non permette alla sorte di stare ferma: fa girare ogni fato. Nessuno ha avuto gli dèi così favorevoli, da potersi promettere il domani: Dio fa girare le nostre vicende accelerate da un rapido turbine.

Vediamo ancora la formulazione del tovpo" dell'imprevedibilità negli esametri di Ovidio:"Iam stabant Thebae, poteras iam, Cadme, videri/exilio felix: soceri tibi Marsque Venusque[4]/contigerant; huc adde genus de coniuge tanta,/tot natas natosque et, pignora cara, nepotes,/hos quoque iam iuvenes, sed scilicet ultima semper /expectanda dies hominis, dicique beatus/ante obitum nemo supremaque funera debet" (Metamorfosi , III, 131 - 137), già era costruita Tebe, e tu Cadmo potevi sembrare felice nell'esilio: ti erano toccati come suoceri Venere e Marte; a questo aggiungi tanti figli e figlie dalla moglie di stirpe divina , e cari pegni, i nipoti, oramai giovani anche loro, ma certo bisogna sempre aspettare l'ultimo giorno dell'uomo e nessuno può dirsi beato prima dell'ultima funebre pompa!

La non prevedibilità della vita fa parte non solo della sapienza tragica, ma anche di quella erodotea: il Solone dello storiografo di Alicarnasso dichiara a Creso che, essendo la vita umana fatta mediamente di 26250 giorni, nessuno di questi porta una situazione uguale all'altro, pertanto l'uomo è del tutto in balìa degli eventi ("pa'n ejsti a[nqrwpo" sumforhv" (I, 32, 4). Quindi il saggio ateniese, sebbene abbia visto il re di Lidia al culmine della sua ricchezza e potenza, non può dire se sia felicissimo prima di avere avuto la notizia che ha finito bene la vita.
Nelle Leggi di Platone l'Ateniese afferma che "non è cosa sicura onorare i viventi con encomi e inni prima che uno abbia percorso fino in fondo tutta la vita e vi abbia posto una bella fine" (802a).

La vita è un'avventura
In conclusione: la pretesa odierna di assicurarsi dalle sventure è fasulla e non rende la vita più sicura, né felice.
"Ognuno deve essere pienamente consapevole che la propria vita è un'avventura anche quando la crede chiusa in una sicurezza da burocrate: ogni destino umano comporta un'irriducibile incertezza anche nella certezza assoluta, che è quella della sua morte, poiché se ne ignora la data. Ognuno deve essere pienamente consapevole di partecipare all'avventura dell'umanità, che è, ormai con una velocità accelerata, proiettata verso l'ignoto"[5].

 Ho insistito su questo tovpo" dandone parecchie testimonianze poiché adesso i più cercano disperatamente, e risibilmente, di assicurarsi su tutto, da tutto.



[1] Nietzsche, Di là dal bene e dal male (del 1875), Aforismi e interludi, 146.
[2] Del 438 a. C.
[3] Ode I, 11, 8. Do la traduzione di tutta l’Ode: “Tu non chiedere (è un orrore saperlo) quale termine a me, quale/a te abbiano assegnato gli dèi, Leuconoe, e non provare/i calcoli astrologici. Com'è meglio prendere qualsiasi cosa verrà./Sia che Giove ti abbia assegnato parecchi inverni, sia questo l'ultimo/che ora sulle opposte scogliere corrose stanca il mare/Tirreno, sii saggia, filtra il vino, e, siccome lo spazio è breve,/
 dai un taglio alla speranza lunga. Mentre parliamo, sarà fuggito/invidioso il tempo della vita: cogli il dì presente e al futuro dai credito meno che puoi.
[4] In quanto aveva sposato la loro figliola Armonia.
[5] E. Morin, La testa ben fatta,, p. 64.

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