giovedì 19 settembre 2019

Imprevedibilità degli eventi della vita umana. Prima parte

Zeus saettatore
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Il tema dell'insicurezza si intreccia spesso con quello della felicità inficiandola.
La felicità, se pure è possibile, non è mai sicura. Tanto meno assicurabile.
Siccome la vita umana è imprevedibile, non si può chiamare felice né fortunato, e nemmeno disgraziato, chi non l'ha ancora compiuta tutta.

 Gli ultimi versi della Medea di Euripide affermano l'imprevedibilità di quanto avviene nella vita umana: "Di molti casi Zeus è dispensatore sull' Olimpo (Pollw'n tamiva" Zeu;" ejn jOluvmpw/),/e molti eventi fuori dalle nostre speranze (ajevlptw") portano a compimento gli dèi;/e i fatti attesi non si avverarono,/mentre per quelli inaspettati un dio trovò la via./Così è andata a finire questa azione" (vv. 1415 - 1419).
La conclusione dell'Alcesti, dell'Andromaca, dell'Elena e delle Baccanti è uguale, tranne che per il primo verso di questo finale: " pollai; morfai; tw'n daimonivwn" (Alcesti , v. 1159; Andromaca, v. 1284; Elena, v. 1688; Baccanti, v. 1388), molte sono le forme della divinità".

Questo costituisce un tovpo" della letteratura. Si tratta di un motivo sapienziale arcaico già presente in Archiloco (fr. 58D.): "toi'" qeoi'" tiqei'n a{panta: pollavki" me;n ejk kakw'n - a[ndra" ojrqou'sin melaivnh/ keimevnou" ejpi; cqoniv, - pollavki" d j ajnatrevpousi kai; mavl j eu\ bebhkovta"/uJptivou" klivnous j: e[peita polla; givgnetai kakav, - kai; bivou crhvmh/ plana'tai kai; novou parhvoro"" (fr. 58 D.), attribuisci ogni cosa agli dei: spesso sollevano dai mali uomini stesi sulla nera terra, spesso rovesciano e piegano supini anche quelli ben saldi sui piedi; poi invece nascono molte sventure e uno va errando per mancanza di sostentamento e fuori di sé.

Archiloco ricorda l’alternanza delle umane sorti anche in un altro frammento :" cuore, cuore sconvolto da affanni senza rimedio/sorgi e difenditi dai malevoli, contrapponendo/il petto di fronte, piantandoti vicino agli agguati dei nemici/con sicurezza: e quando vinci non gloriartene davanti a tutti,/e, vinto, non gemere buttandoti a terra in casa./ Ma nelle gioie gioisci e nei dolori affliggiti/non troppo: riconosci quale ritmo governa gli uomini" (mh; livhn: givgnwske d j oi|o" rjusmo;" ajnqrwvpou" e[cei” fr. 67a D.).

La memoria che conserva il ricordo di cose buone e fatti egregi può essere fonte di beatitudine:
“Ma più beata ché in un tempio accolte
Serbi l’itale glorie, uniche forse
Da che le mal vietate Alpi e l’alterna
Onnipotenza delle umane sorti
Armi e sostanze t’invadeano ed are
E patria e, tranne la memoria, tutto” U. Foscolo, Dei Sepolcri, 180 - 185)

Nulla dunque deve essere considerato definitivo.

Anche Sofocle denuncia più di una volta questa insicurezza e nei suoi drammi si trova l'immagine dell' altalena fatale: nell’Aiace, Odisseo davanti alla rovina del Telamonio schiacciato dall’ate ne prova pietà, anche se era suo nemico, e constata che noi mortali siamo solo fantasmi e ombra vana (vv. 125 - 126). Atena ammonisce chi ha visto la caduta di Aiace a non pronunciare mai parola superba contro gli dèi e a non gofiarsi di orgoglio per la potenza o la ricchezza conseguite: “wJ" hjmevra klivnei te kajnavgei pavlin - a{panta tajnqrwvpeia” (131 - 132) siccome un giorno abbatte e risolleva tutte le cose umane.

Nell'esodo dell'Antigone il messo annuncia il racconto della morte di Antigone e di Emone con questa sentenza: "tuvch ga;r ojrqoi' kai; tuvch katarrevpei - to;n eujtucou'nta to;n te dustucou'nt j ajeiv - kai; mavnti" oujdei;" tw'n kaqestwvtwn brotoi'" (Antigone, 1158 - 1160), la sorte di fatto raddrizza e butta giù il fortunato e il disgraziato via via, e non c’è indovino della stabilità delle cose per i mortali.

 Nella parodo dell’Edipo re il coro chiede ad Apollo:"intorno a te ho sacro timore: che cosa, o di nuovo (nevon)/o con il volgere delle stagioni ("peritellomevnai" w{rai"") un'altra volta (pavlin)/effettuerai per me?"(vv. 155 - 157).
 In questo scorrere rapido dei giorni, nel girare vorticoso delle stagioni, avvengono mutamenti continui e alcune cose si ripetono, ma altre accadono inopinatamente, e il nevon è inquietante.
Il coro di vecchi Tebani conclude l'Edipo re con questi versi :" sicché, uno che sia nato mortale, non ritenga felice nessuno,/considerando quell'ultimo giorno a vedersi, prima che/abbia passato il termine della vita senza avere sofferto nulla di doloroso ("pri;n a]n /tevrma tou' bivou peravsh/ mhde;n ajlgeino;n paqwvn", vv.1528 - 1530).
Edipo da salvatore di Tebe dal flagello della Sfinge, sposo della regina e re amato dal popolo, si è scoperto mivasma della città, incestuoso, parricida ed è diventato il farmakov" che deve essere espulso per allontanare la contaminazione proveniente da lui.

Sofocle propone questo lovgo" ajrcai'o" all'inizio delle Trachinie :"Lovgo" me;n e[st j ajrcai'o" ajnqrwvpwn faneiv" - wJ" oujk a]n aijw'n j ejkmavqoi" brotw'n, pri;n a]n - qavnh/ ti", ou[t j eij crhsto;" out j ei[ tw'/ kakov"", c'è un detto apparso in tempo antico tra gli uomini: che non si può conoscere la vita dei mortali prima che uno sia defunto, se la sua sia stata buona o cattiva (vv.1 - 3). E’ l’infelice protagonista che parla.
Più avanti, alla fine del quarto episodio, la Nutrice di Deianira afferma addirittura che è sconsiderato (mavtaiovv" ejstin v. 945) chi conta su due giorni o anche più: infatti non c'è il domani se prima uno non ha passato bene l'oggi.
In ogni caso il coro delle donne di Trachis conclude il dramma dicendo: "koujde;n touvtwn o{ ti mh; Zeu" "(1278), nulla di questo che non sia Zeus.

Marcel Proust considera emblematico della vita umana il cadere: "E meglio di un coro di Sofocle sull'umiliato orgoglio di Edipo, meglio della morte stessa e di qualsiasi orazione funebre, il saluto premuroso e umile del barone alla signora di Saint-Euverte proclamava quanto di fragile e perituro c'è nell'amore d'ogni terrena grandezza e d'ogni umana superbia. Il signor Charlus, che prima di allora mai avrebbe accettato di pranzare con la signora di Saint-Euverte, s’innchinava fino a terra davanti a lei"[1].


Continua




[1] Il tempo ritrovato, “Matinèe” dai principi di Guermantes, p. 190

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