venerdì 27 settembre 2019

La reciprocità




La parola latina munus che significa “compito” e “dono” è appunto significativa della reciprocità.
Benveniste segnala il legame (attraverso la radice indoeuropea *mei-) con mutuus (reciproco): questi termini fanno parte di " una grande famiglia di parole indoeuropee che, con suffissi vari, marcano la nozione di reciprocità (…) La radice è l’indoeuropeo *mei- che denota lo scambio, che ha dato in indoiranico mitra, nome di un dio (…) Ma il senso di munus, particolarmente complesso, si sviluppa in due gruppi di termini che indicano da una parte ‘gratificazione’, dall’altra ‘incarico ufficiale’. Queste nozioni sono di carattere reciproco, perché implicano un favore ricevuto e l’obbligo della reciprocità "[1].

Dove non c’è reciprocità c’è l’uso della persona ridotta a strumento, a oggetto. Il capitalismo esclude la reciprocità nei rapporti di lavoro: “più l’operaio produce, meno ha da consumare; quanto più valore egli crea, tanto più diventa privo di valore e dignità; quanto meglio formato è il suo prodotto, tanto più l’operaio diventa deforme; quanto più raffinato è il suo oggetto, tanto più l’operaio diventa rozzo; quanto più potente è il lavoro, tanto più l’operaio diventa impotente (…) il lavoro produce bellezza, ma deformità per l’operaio (…) mangiare, bere, procreare ecc. sono senza dubbio anche funzioni schiettamente umane. Ma nell’astrazione che le isola dalla restante sfera dell’attività umana e le trasforma in scopi ultimi e unici sono funzioni bestiali”[2].
 Marx ha sbagliato nel denunciare tale condizione come limitata all’operaio che anzi con il tempo avrebbe dovuto liberarsene: oggi, 174 anni dopo, tale situazione di sfruttamento, asservimento, abbrutimento fisico e mentale include anche la piccola borghesia.
     












[1]E. Benveniste, op. cit., p. 141-142
[2] K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Il lavoro estraniato, pp. 57-59.

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