Baccanti |
L’esperienza dionisiaca può essere una fonte di felicità secondo E. R. Dodds: “To ask whether Euripides ‘believed in’ this Aphrodite is a meaningless as to ask whether he ‘believed’ in sex. It is not otherwise with Dionysus. As the “moral” of the Hippolytus is that sex is a thing about which you cannot afford to make mistakes, so the ‘moral’ of the Bacchae is that we ignore at our peril the demand of the human spirit for Dionysiac experience. For those who do not close their minds against it such experience can be a deep source of spiritual power and eujdaimoniva. But those who repress the demand in themselves or refuse their satisfaction to others transform it by their act into a power of disintegration and destruction, a blind natural force that sweeps away the innocent with the guilty. When that has happened, it is too late to reason or to plead: in man’ s justice there is room for pity, but there is none in the justice of Nature (…) If this or something like it is the thought underlying the play, it follows that the flat - footed question posed by the nineteenth - century critics - was Euripides ‘for’ Dionysus or ‘against’ him? - admits no answer in those therms. In himself, Dionysus is beyond good and evil; for us, as Teiresias says (314 - 318), he is what we make of him (…) His favourite method is to take a one - sided point of view, a noble half - truth, to exhibit its nobility, and then to exhibit the disaster to which it leads its blind adherents because it is after all only part of the truth[1].. It is thus that he shows us in the Hippolytus the beauty and the narrow insufficiency of the ascetic ideal, in the Heracles the splendour of bodily strength and courage and its toppling over into megalomania an ruin; it is thus that in his revenge plays - Medea, Hecuba, Electra –the spectator’ s sympathy is first enlisted for the avenger and then made to extend to the avenger’s victims. The Bacchae is constructed on the same principle: the poet has neither belittled the joyful release of vitality which Dionysiac experience brings nor softened the animal horror of ‘black’ maenadism; deliberatly he leads his audience through the whole gamut of emotions, from sympathy with the persecuted god, trough the excitement of the palace miracles and the gruesome tragi - comedy of the toilet scene, to share in the end the revulsion of Cadmus against this inhuman jiustice. It is a mistake to ask what he is trying to ‘prove’: his concern in this as in all his major plays is not to prove anything but to enlarge our sensibility - which is, as Dr. Johnson said, the proper concern of a poet”[2].
"Chiedere se Euripide ‘credeva in’ questa Afrodite è una domanda senza senso, come chiedere se egli ‘credeva nel’ sesso. Non è diverso con Dioniso. Come la ‘morale’ dell’Ippolito è che il sesso è una cosa sulla quale non ci si può permettere di fare errori, così la ‘morale’ delle Baccanti è che noi ignoriamo a nostro pericolo l’esigenza dello spirito umano di esperienza dionisiaca[3]. Per quelli che non le oppongono una barriera mentale, tale esperienza può essere una sorgente profonda di potenza spirituale e di felicità. Ma quelli che reprimono l’esigenza in se stessi o ne rifiutano l’appagamento in altri, la trasformano con il loro atto in una potenza che disintegra e distrugge, una forza cieca e naturale che spazza via l’innocente con il colpevole. Quando questo è accaduto, è troppo tardi per ragionare o perorare: nella giustizia dell’uomo c’è spazio per la pietà, ma non ce n’è nella giustizia di Natura [4] (…) Se questo pensiero, o uno del genere, è quello che si trova alla base del dramma, ne consegue che la questione di lana caprina - Euripide stava ‘per’ Dioniso o era ‘contro’ di lui? - non ammette risposta in questi termini. In sé Dioniso è al di là del bene e del male; per noi, come dice Tiresia (314 - 318[5]), egli è quello che noi facciamo di lui (…) Il metodo favorito di Euripide è prendere un punto di vista unilaterale, una nobile mezza - verità, mettere in mostra la sua nobiltà, poi mettere in mostra il disastro al quale essa conduce i suoi ciechi seguaci - poiché è dopo tutto solo una parte della verità. E’ così che egli ci mostra nell’Ippolito la bellezza e la stretta insufficienza dell’ideale ascetico, nell’Eracle lo splendore della forza corporea e del coraggio e il suo inciampare nella megalomania e rovina; ed è così che nei suoi drammi della vendetta - Medea, Ecuba, Elettra - la simpatia dello spettatore è prima associata al vendicatore, poi fatta passare alle vittime del vendicatore. Le Baccanti sono costruite sullo stesso principio: il poeta non ha né sminuito la gioiosa liberazione di vitalità che l’esperienza dionisiaca comporta, né attenuato l’orrore bestiale del menadismo ‘nero’; deliberatamente egli conduce il suo pubblico attraverso tutta la gamma di emozioni, dalla simpatia con il dio perseguitato, attraverso l’agitazione dei miracoli del palazzo e la spaventosa tragicommedia della scena del travestimento, per condividere alla fine la reazione di Cadmo contro la non umana giustizia. E’ un errore chiedersi che cosa egli stia tentando di ‘provare’: il suo interesse in questo come in tutte le sue tragedie maggiori non è provare qualcosa ma allargare la nostra sensibilità - che è, come ha detto il Dottor Johnson, l’interesse proprio del poeta."
Nel terzo Stasimo (902 - 911) delle Baccanti le Menadi cantano " to; de; kat j h\mar o{tw/ bivoto" - eujdaivmwn, makarivzw" (vv. 910 - 911), considero beato l'uomo la cui vita è felice giorno per giorno.
Ma vediamo l’intero epodo di questo stasimo
Felice (eujdaivmwn) colui che fuori dal mare
sfuggì alla tempesta, e raggiunse il porto;
felice quello che riuscì al di sopra
degli affanni; in vario modo uno supera 905
l’altro per benessere e potenza.
Innumerevoli ancora per gli innumerevoli
sono le speranze: quelle che
si compiono nella prosperità
per i mortali, quelle che svaniscono;
quello la cui esistenza è felice
giorno per giorno, chiamo beato
La felicità dunque è un bene sfuggente da inseguire e riprendere ogni giorno.
La gioia va assimilata evitando l’indigestione.
Pindaro afferma che Tantalo era l'uomo più amato dagli dèi che lo onoravano frequentando la sua mensa; egli però non seppe smaltire la grande fotuna:" se mai i protettori dell'Olimpo onorarono un uomo/mortale, era Tantalo questo; però/ di fatto non seppe/digerire la grande fortuna, e con la sazietà attirò/un accecamento pieno di prepotenza, e su di lui/il padre sospese un macigno pesante,/che egli desidera sempre stornare dal capo/ed erra lontano dalla gioia - eujfrosuvna" ajla'tai - . (Olimpica I, vv. 54 - 57b).
"E' il culmine della felicità quando gli dèi si assidono alla nostra tavola e portano i loro doni - ma da quel momento non è possibile che tramontare. "I venti che soffiano sulle cime incessantemente mutano. La felicità non dura a lungo ai mortali, quand'essa viene nella sua pienezza" (Pindaro, Pitiche, III, 104 - 106)"[6].
La gioia del potere
La gioia del potere viene affermata da Eteocle nelle Fenicie e negata da Giocasta. Sentiamo il re di Tebe che volendo il potere tutto per sé, ha tolto al fratello Polinice la parte del regno che gli spettava.
Venga pure la guerra poiché, dice Eteocle, non cederò mai a lui il mio potere ( “wJ" ouj parhvsw tw'/d j ejmh;n turannivda”. E continua: “ ei[per ga;r ajdikei'n crhv, turannivdo" pevri - kavlliston ajdikei'n, ta[lla d j eujsebei'n crewvn" ( vv. 524 - 525), se infatti è proprio necessario commettere ingiustizia, è bellissimo farlo per il potere assoluto, altrimenti bisogna essere pio.
Il coro di donne fenicie lo disapprova: “quello che dici non è bello ma è amaro per la giustizia - ajlla; th'/ divkh/ pikrovn (v.527).
la madre prova a dissuaderlo argomentando in vari modi il punto di vista che considera gonfia e vuota la prepotenza, ingiusta e innaturale la diseguaglianza,
Ma soddisfare l’ambizione che brama il potere assoluto è per Eteocle la soddisfazione suprema della vita. Sicché il potere va tenuto in pugno a qualunque costo.
Nei versi conclusivi tra quelli che ci sono arrivati delle Fenicie di Seneca Giocasta prova a mettere in guardia il figlio dalla precarietà del potere fondato sull’odio: “invisa numquam imperia retinentur diu” (v. 660). Allora Eteocle inizia a risponderle “Pro regno velim…(662). Ma Giocasta lo interrompe e gli pone una domanda che vorrebbe essere retorica: “Patriam penates coniugem flammis dare?”. Il figlio conclude replicando che per il potere si può pagare qualsiasi prezzo e l’acquisto è comunque vantaggioso “: Imperia pretio quolibet constant bene, (662 - 664),
La gioia che proviene dal cibo connsentito dalla pace
Le fonti della gioia sono molto varie in autori diversi e nei differenti personaggi delle loro opere. Negli Acarnesi di Aristofane, per esempio, grande è la gioia del pacifista Diceopoli nel vedere un’anguilla del lago Copaide messa in vendita da un Tebano: “Skevyasqe, pai'de", th;n ajrivsthn e[gcelun, - h{kousan e{ktw/ movli" e[tei poqoumevnhn” 889 - 890), guardate, ragazzi, l'ottima anguilla che è arrivata dopo che ne abbiamo sentito la mancanza per quasi sei anni. Diceopoli è riuscito a concludere una pace separata ed è tanto felice che utilizza, in travestimento derisorio, due mezzi versi pronunciati da Admeto nei riguardi dell'adorata Alcesti :"che nemmeno morto - mhde; ga;r qanwvn pote (Alcesti, 367)
io sia mai separato da te sou' cwri;" ei[hn (Alcesti, 368), cotta in mezzo alle bietole - ejnteteutliwmevnh" ( Acarnesi, 892 - 893).
Nella seconda parabasi della Pace di Aristofane il Coro di contadini proclama la sua gioia (h{domai g j h{domai, 1127) per la libertà dagli impegni bellici e la possibilità che la pace offre di stare vicino al fuoco a bere con i compagni, arrostire ceci, mettere ghiande al fuoco e sbaciucchiare la serva tracia mentre la moglie si lava. Poi quando arriva l'estate con la dolce canzone della cicala[7] Trigeo gode nel vedere maturare viti precoci e mangiare i fichi dicendo "w|rai fivlai" (v. 1168), che bella stagione!
Tutto questo invece di essere arruolati prima dei cittadini e di dover obbedire a un capitano odioso e vigliacco.
Il diletto del cibo nel convito è tale che non ha nemmeno bisogno di essere rallegrato da canti secondo la Nutrice di Medea che con questi versi presenta un aspetto della poetica dell’autore
“E stolti chiamando e per niente saggi
i mortali di un tempo non sbaglieresti,
loro che per le feste e per i banchetti e le cene
trovarono i canti, un ascoltare che rallegra la vita;
mentre nessuno trovò il modo di fare cessare
con la poesia e con i canti dai molti toni
gli odiosi affanni dei mortali, per cui morti
e orribili casi fanno cadere le stirpi.
Eppure questo sì sarebbe un guadagno guarire
con i canti i mortali; ma dove sono i lauti banchetti
imbanditi perché elevano invano la voce?
Infatti l'abbondanza che c'è della mensa
Contiene da sé gioia per i mortali. Medea, vv. 190 - 203
La sede della gioia
“La gioia ha generalmente sede nel qumov" (...) Inoltre è generalmente il qumov" che fa agire l'uomo (...) Se qumov" è in genere la sede della gioia, del piacere, dell'amore, della compassione, dell'ira e così via, dunque di tutti i moti dell'animo, tuttavia può trovar sede talvolta nel qumov" anche la conoscenza (...) Quando si dice che qualcuno sente qualcosa, kata; qumovn, qumov" è in questo caso un organo e noi possiamo tradurre la parola con "anima", ma dobbiamo tenere presente che si tratta dell'anima soggetta alle "emozioni". Però anche qumov" verrà in seguito a determinare una funzione (e allora potremo tradurre la parola con "volontà" o "carattere") e anche la funzione singola: dunque anche quest'espressione ha un significato più esteso di quanto non abbiano le nostre parole "anima" e "spirito". Nel modo più chiaro appare ciò nell'Odissea (IX, 302) dove Ulisse dice: eJvtero" dev me qumo;" e[ruken:" un altro qumov" mi trattenne", e qui dunque qumov" si riferisce a un particolare moto dell'animo"[8].
Senza gioia la vita non è viva. La perdita dell’amore annienta la gioia
Il tiranno che semina morte e produce rovina toglie la gioia anche a se stesso. E' il commento del messo che sta per raccontare la catastrofe finale dell'Antigone provocata da Creonte il quale ha proibito, tra l'altro, al figlio Emone di amare la sua donna:":"ed ora tutto è buttato via. Infatti quando/l'uomo abbandona la gioia, io non ritengo/che sia vivo costui ma lo considero un cadavere che respira" (vv. 1165 - 1167).
In questa tragedia l’annientamento finale d Creonte[9] deriva dal suicidio del figlio seguito al suicidio di Antigone che il giovane voleva sposare attendendosi gioia.
Il coro dell'Alcesti di Euripide nel primo stasimo canta:" :"ou[pote fhvsw gavmon eujfraivnein - plevon hj; lupei'n, toi'" te pavroiqen - tevkmairovmeno" kai; tavsde tuvca" - leuvsswn basilevw", oJvsti" ajrivsth" - ajplakw;n ajlovcou th'sd&, ajbivwton - to;n e[peita crovnon bioteuvsei", (vv. 238 - 242), non dirò mai che le nozze portino gioia più che dolore, deducendolo dai fatti passati e vedendo questa sorte del re, il quale, persa l'ottima sposa, vivrà in futuro una vita non vita.
Medea rivolgendosi alle donne corinzie dice di avere perduto la gioia di vivere da quando è stata lasciata dallo sposo:
“Questa faccenda inaspettata piombatami addosso
mi ha distrutto la vita; sono a pezzi, e abbandonata
la gioia di vivere - cavrin meqei'sa - , desidero morire, amiche.
Quello in cui c'era per me tutta la vita, lo so bene,
si è rivelato il peggiore degli uomini, il mio sposo ( Euripide, Medea, 225 - 229)
La tragedia Andromaca sottolinea questa caratteristica della mentalità femminile: la convinzione che l'amore sia tutto nella vita[10]: quando la vedova di Ettore domanda a Ermione:"dunque tu non vuoi soffrire in silenzio per Cipride?", la ragazza risponde:"e perché? Questa per le donne non è assolutamente la prima cosa?" (vv. 240 - 241).
Menelao cerca di aiutare la figlia a non perdere il marito per la stessa ragione:" Io sto dalla parte di mia figlia, sono suo alleato, e faccio la guerra con lei: infatti giudico grave questo: che sia privata del letto (levcou" [11] stevresqai). Gli altri dolori che una donna può soffrire sono secondari, ma quella che fallisce con il marito, fallisce nella vita"( ajndro;" d j aJmartavnous j aJmartavnei bivou, vv.370 - 373).
Nietzsche, La nascita della tragedia
La sapienza silenica è stata dei Greci superata grazie all’impulso apollineo verso la bellezza e alla gioia dionisiaca del sentimento dell’unità.
"Il Greco conobbe e sentì i terrori e le atrocità dell'esistenza: per poter comunque vivere, egli dové porre davanti a tutto ciò la splendida nascita sognata degli dèi olimpici. L'enorme diffidenza verso le forze titaniche della natura, la Moira spietatamente troneggiante su tutte le conoscenze, l'avvoltoio del grande amico degli uomini Prometeo, il destino orrendo del saggio Edipo, la maledizione della stirpe degli Atridi, che costringe Oreste al matricidio, insomma tutta la filosofia del dio silvestre con i suoi esempi mitici, per la quale perirono i melanconici Etruschi, fu dai Greci ogni volta superata, o comunque nascosta e sottratta alla vista, mediante quel mondo artistico intermedio degli dei olimpici. Fu per poter vivere che i Greci dovettero, per profondissima necessità, creare questi dèi: questo evento noi dobbiamo senz'altro immaginarlo così, che dall'originario ordinamento divino titanico del terrore fu sviluppato attraverso quell'impulso apollineo di bellezza, in lenti passaggi, l'ordinamento divino olimpico della gioia, allo stesso modo che le rose spuntano da spinosi cespugli (…) Così gli dèi giustificano la vita umana vivendola essi stessi - la sola teodicea soddisfacente! L'esistenza sotto il chiaro sole di dèi simili viene sentita come ciò che è in sé desiderabile, e il vero dolore degli uomini omerici si riferisce al dipartirsi da essa, soprattutto al dipartirsene presto: sicché di loro si potrebbe dire, invertendo la saggezza silenica, " la cosa peggiore di tutte è per essi morire presto, la cosa in secondo luogo peggiore è di morire comunque un giorno". Se una volta risuona il lamento, ciò avviene per Achille dalla breve vita, per l'avvicendarsi e il mutare della stirpe umana come le foglie [12], per il tramonto dell'età degli eroi. Non è indegno neanche del più grande eroe bramare di vivere ancora, fosse pure come un lavoratore a giornata[13]. Nello stadio apollineo la "volontà" desidera quest'esistenza così impetuosamente, l'uomo omerico si sente con essa così unificato, che perfino il lamento si trasforma in un inno in sua lode"[14]
CONTINUA
[3] La componente istintiva, prima repressa, poi scatenata verso la distruzione, mai applicata all'incremento della vita, porta Gustav Aschenbach alla morte, preannunciata da una fantasia onirica memore dei riti orgiastici delle Baccanti:" Al ritmo dei timpani si squassava il suo cuore, il cervello vorticava; ira accecamento, stordimento voluttuoso invadevano la sua anima, smaniosa di accordarsi al tripudio del dio. Ed ecco, enorme, ligneo, scoprirsi e innalzarsi l'osceno simbolo; a quella vista tra sfrenati clamori, tutti gridarono la formula rituale e con la schiuma alle labbra si precipitarono in un'orgia pazzesca. Ridenti, singhiozzanti, si eccitavano a vicenda con gesti sconci e carezze lubriche, e si cacciavano l'un l'altro i pungoli nelle carni, leccando il sangue che colava sulle membra". T. Mann, La morte a Venezia (del 1913) p. 139. Ndr.
[4]" La natura è aristocratica, più aristocratica di qualsiasi società feudale basata sulle caste" Schopenhauer, Parerga e paralipomena (del 1851), Tomo I, p. 275.
[5] Non sarà Dioniso a costringere le donne a essere/caste nei confronti di Cipride, ma nel temperamento/(sta sempre l'essere casto in tutte le occasioni sempre)/a questo bisogna pensare: e infatti anche nei baccanali/quella che è casta non si guasterà (Baccanti, 314 318) ndr.
[9] vv. 1317 - 1325:"Ahimé, questi orrori non si adatteranno mai/a un altro dei mortali fuori dalla mia colpa./Io infatti, io ti uccisi, oh disgraziato,/ io dico il vero. Oh servi,/allontanatemi al più presto, portatemi via,/io che non sono più che nessuno".
[10] "La donna ama credere che l'amore possa tutto , - ed è questa la sua caratteristica superstizione " F. Nietzsche, Di là dal bene e dal male , Che cosa è aristocratico? (269).
[12] Cfr. Iliade, VI, 146: "oi[h per fuvllwn genehv, toivh de; kai; ajndrw'n", proprio quale la stirpe delle foglie, tale è anche quella degli uomini. (n. d. r.)
[13] Achille nella Nevkuia dice al figlio di Laerte " non consolarmi della morte, splendido Odisseo./Io preferirei essendo un uomo che vive sulla terra servire un altro,/presso un uomo povero, che non avesse molti mezzi per vivere,/piuttosto che regnare su tutti i morti consunti"(Odissea , XI, 488 - 491).
Già nel IX canto dell’Iliade , quello dell’ambasceria, Achille aveva detto che niente ha lo stesso valore della vita: “ouj ga;r ejmoi; yuch`~ ajntavxion (v. 401): non le ricchezze di Ilio prima della guerra, non quanto racchiude la soglia di pietra del tempio di Apollo.
Buoi e grassi montoni si possono rapire, i tripodi si possono comprare e pure bionde criniere di cavalli, ma la vita di un uomo (ajndro;~ de; yuchv) non la puoi rapire né afferrare perché torni indietro, quando ha superato la chiostra dei denti (405 - 408) ndr.