"Immortale
Afrodite dal trono variopinto,
figlia di Zeus tessitrice di
inganni (dolovploke), ti prego
non domarmi il cuore con
affanni
né angosce, o signora,
ma vieni qua, se mai anche
l'altra volta
udendo la mia voce da
lontano
mi desti ascolto, e,
lasciata la casa d'oro dovmon livpoisa cruvsion
del padre, giungesti
aggiogato il carro; passeri
belli
ti portavano veloci
sopra la nera terra
fitte roteando le ali dal
cielo
nel mezzo dell'aria.
Subito giunsero, e tu, o
beata,
sorridendo nel volto
immortale
chiedesti che cosa soffrissi
di nuovo e perché
di nuovo chiamassi
e che cosa più di tutto
volevo che mi toccasse
nel folle cuore: "chi
debbo ancora persuadere per te,
in modo da condurlo di nuovo
al tuo amore? chi ti fa
torto o Saffo?
E infatti se fugge, presto
inseguirà
(kai; ga;r aij feuvgei, tacevw~ diwvxei),
se non accetta doni, anzi li
farà,
e se non ama, presto amerà
anche se non vuole.
Vieni da me anche ora (e[lqe moi kai;
nu'n), liberami dai
tormentosi
affanni, e quanto il
mio cuore
desidera compiere, compilo,
e tu stessa
sii alleata".
Strofe saffiche
Commentiamo il v. 21: kai; ga;r aij feuvgei, tacevw~ diwvxei
Quod sequitur, fugio; quod fugit, ipse sequor . (Ovidio, Amores, 2, 20, 36)
E'
questo il tovpo" dell'amore
che insegue chi fugge e
scappa da chi lo insegue. Tale locus ha un' ampia presenza nella
poesia amorosa e, probabilmente, pure nell'esperienza personale di ciascuno di
noi: Teocrito nel VI idillio paragona Galatea
che stuzzica Polifemo alla chioma secca che si stacca dal cardo quando la bella
estate arde:"kai; feuvgei filevonta kai; ouj filevonta diwvkei" (v. 17), e fugge chi ama e
chi non ama lo insegue.
Nell'XI idillio lo stesso Ciclope
dà a se stresso il consiglio di non inseguire chi fugge ma di mungere quella
presente (75), femmina ovina o umana che sia.
Abbiamo
anche qui l'ironia teocritea che deriva dalla consapevole dissonanza tra
l'elemento popolare e quello raffinato letterario. Teocrito è, come Callimaco,
un rappresentante di una poesia
cosiddetta postfilosofica:"Post - filosofici sono questi poeti, nel
senso che non credono più nella possibilità di dominare teoreticamente il
mondo, e nell'esercizio della poesia, a cui Aristotele aveva ancora
riconosciuto un carattere filosofico, si allontanano scetticamente
dall'universale e si rivolgono con amore al particolare"[1]. Lo
stesso Snell qualche capitolo prima aveva ricordato che nel V secolo era
comunque già avvenuto "quel distacco fra il mondo della storia e quello
della poesia" codificato da Aristotele
quando afferma "che la poesia è più filosofica della storia poiché la
poesia tende all'universale, la storia al particolare"[2] (p.
141). La poesia postfilosofica
dunque non racconta più l'universale. Post - filosofica o almeno
postilluministica sarebbe anche quella di Goethe: "Callimaco e Goethe si trovano entrambi ad una svolta storica;
al tramonto di una più che secolare cultura illuministica che ha dissolto le
antiche concezioni religiose, quando
è venuto a noia anche il razionalismo e incomincia a sorgere una
nuova poesia significativa. Ma l'evoluzione del mondo antico segue una via così
diversa da quella del mondo moderno, che Callimaco, e con lui tutto il suo
tempo, si dichiara per la poesia minore, delicata, mentre Goethe, interprete
anch'egli dei suoi contemporanei, dà la preferenza alla poesia patetica,
interiormente commossa"[3].
"Un epigramma di Callimaco (Anth. Pal. 12,
102) liberamente tradotto per l'occasione in versi latini,
è in Orazio il
ritornello caro a questi incontentabili stolti:" Come il cacciatore
insegue la lepre nella neve e non la prende quando è a portata di mano, così fa
anche l'amante che oltrepassa a volo ciò che è alla portata di tutti e cerca di
prendere quello che fugge: "Meus est amor huic similis: nam/transvŏlat in medio posita et fugientia captat " (Sermones , 1, 2, 107s.).
Ed è proprio questo epigramma di Callimaco che
fornisce ad Ovidio (in
un componimento degli Amores tutto impegnato a redigere il codice
della perfetta relazione galante) il motto che può rappresentare
emblematicamente la tormentata forma dell'amore elegiaco: quod
sequitur, fugio; quod fugit, ipse sequor (2, 20, 36) "[4], evito ciò che mi segue, seguo ciò che mi evita.
E' questo un luogo comune dell'amore, o, forse,
della non praticabilità dell'amore.
Sentiamo qualche altra testimonianza.
Catullo cerca di sfuggire obstinata mente (8, 11) a questa
legge che nega la realtà dell'amore facendone un'utopia:"nec quae fugit sectare,
nec miser vive " (8, 10), non dare la caccia a quella che fugge e
non vivere da disgraziato.
Nell' Hercules
Oetaeus attribuito a Seneca la nutrice di Deianira per
consolare la sua alumna le dice che Iole ridotta oramai a schiava è una preda
oramai troppo facile per Ercole e, quindi, non più ambita:"illicita
amantur; excidit quidquid licet" (v. 357), sono amate le cose non
consentite, tutto quello che è concesso decade.
Nella Gerusalemme
liberata leggiamo:"Ma perché istinto è de l'umane
genti/che ciò che più si vieta uom più desìa,/dispongon molti ad onta di
fortuna/seguir la donna come il ciel s'imbruna" (V, 76). Si tratta di
Armida la maga seguita dai cavalieri cristiani
William Shakespeare, The merry wives of Windsor (del
1602)
“Love like a shadow flies when sunstance love pursues;
Pursuing that that flies, and
flying what pursues” (II, 2)
L'amore come un'ombra fugge l'amore reale che insegue,
inseguendo chi lo fugge, fuggendo chi insegue.
Nella commedia La locandiera (del
1753) Goldoni fa dire
alla protagonista, Mirandolina, in un monologo."Quei che mi corrono
dietro, presto mi annoiano" (I, 9).
L'analogia con il cacciatore può essere estesa a
quella con il raccoglitore di fiori. Il fiore raccolto non è più amabile. Molto note sono le ottave
dell'Orlando furioso:"La verginella è simile alla rosa,/ch'in bel
giardin su la nativa spina/mentre sola e sicura si riposa,/né gregge né pastor
se le avicina;/l'aura soave e l'alba rugiadosa,/l'acqua, la terra al suo favor
s'inchina:/gioveni vaghi e donne innamorate/amano averne e seni e tempie
ornate.//Ma non sì tosto dal materno stelo/rimossa viene, e dal suo ceppo
verde,/che quanto avea dagli uomini e dal cielo/favor, grazia e bellezza, tutto
perde./La vergine che 'l fior, di che più zelo/che de' begli occhi e de la vita
aver de',/lascia altrui còrre, il pregio ch'avea inanti/perde nel cor di tutti
gli altri amanti" (I, 42 - 43).
Troviamo un’occorrenza di questo topos in El
burlador de Sevilla (1630) di Tirso de Molina: “regola dell’amore/è amare chi ci odia,
/sprezzare chi ci adora,/perché, se è pago, muore,/e vive se è ferito” (I, 10).
Meno noti sono forse il sentimento e la riflessione di
Vrònskij dopo che ha realizzato il suo sogno d'amore con Anna Karenina:"Lui la guardava come un uomo
guarda un fiore che ha strappato, già tutto appassito, in cui riconosce con
difficoltà la bellezza per la quale l'ha strappato e distrutto"[5].
Una situazione analoga troviamo ne Il giocatore di Dostoevskij dove il protagonista
dichiara il suo amore a Polina in questi termini:"Lei sa bene che cosa mi
ha assorbito tutto intero. Siccome non ho nessuna speranza e ai suoi occhi sono
uno zero, glielo dico francamente: io vedo soltanto lei dappertutto, e tutto il
resto mi è indifferente. Come e perché io l'amo non lo so. Sa che forse lei non
è affatto bella. Può credere o no che io non so neppure se lei sia bella o no,
neanche di viso? Probabilmente il suo cuore non è buono e l'intelletto non è nobile;
questo è molto probabile"[6].
Proust nel V e terzultimo volume della Ricerca, conclusa negli
ultimi mesi di vita (tra il 1921 e il 1922) esprime lo stesso concetto:"Qualsiasi
essere amato - anzi, in una certa misura, qualsiasi essere - è per noi simile a
Giano: se ci abbandona, ci presenta la faccia che ci attira; se lo sappiamo a
nostra perpetua disposizione, la faccia che ci annoia"[7].
Gozzano, su questa linea, sospira con ironia:" Il mio sogno è nutrito
d'abbandono,/di rimpianto. Non amo che le rose/ che non colsi"[8].
Sentiamo infine C. Pavese:"Ma questa è la più atroce: l'arte della vita consiste
nel nascondere alle persone più care la propria gioia di esser con loro, altrimenti
si perdono"[9].
Questa ode
chiamata Preghiera ad Afrodite , ha la struttura di un inno cletico (di invocazione). Essa
consta di tre movimenti: il primo è la vera e propria chiamata della divinità
con i suoi epiteti; il secondo contiene il ricordo dei meriti di chi prega o
manifesta la memoria grata di un precedente aiuto ricevuto; il terzo esprime la
richiesta di un nuovo intervento.
Il rapporto
con la dea non è di sottomissione o umiliazione, bensì di amicizia e
gratitudine. Viene in mente questa considerazione di Nietzsche:"Ciò che fa stupire
nella religiosità degli antichi Greci è la copiosa abbondanza del senso di riconoscenza che emana da
essa: - un tipo di uomo veramente
nobile è colui che sta innanzi alla natura ed alla vita in questo
atteggiamento! - In seguito, quando in Grecia la plebe ebbe il
sopravvento, anche nella religione incominciò a farsi strada il timore; stava
preparandosi il cristianesimo"[10].
In effetti
nell'Edipo re di Sofocle troviamo un'analoga espressione di gratitudine
quando il coro in preghiera invoca gli dèi affinché allontanino da Tebe il male
della peste e ricorda:"se mai anche per una precedente
sciagura/che si levava sulla città/metteste fuori luogo la fiamma della
pena/venite anche ora “ e[lqete kai; nu'n"(vv.164 -
167) (cfr. e[lqe moi kai; nu'n, v. 25 dell’ode di Saffo.),
A conferma
di questo possiamo citare un pensiero di Marco Aurelio:"getta via la tua sete di libri, perché tu
possa morire non balbettando ma davvero lieto e grato agli dèi dal profondo del
cuore"(
i{lew" ajlhqw'" kai; ajpo; kardiva" eujcavristo"
toi'" qeoi'" Ricordi, II, 3).
L'ode di Saffo contiene un'altra idea tipica della
cultura classica, quella del ciclico avvicendarsi degli eventi
Si trova già nel fr.67 a D di Archiloco:
"Animo, animo sconvolto da affanni senza
rimedio
sorgi e difenditi dai malevoli, contrapponendo
il petto di fronte, piantandoti vicino agli agguati dei nemici
con sicurezza: e quando vinci, non gloriartene davanti a tutti,
e, vinto, non gemere buttandoti a terra in casa.
Ma nelle gioie gioisci e nei dolori affliggiti
non troppo: riconosci quale ritmo governa gli uomini.”
mh; livhn: givgnwske d j oi|o~ rJusmo;~ ajnqrwvpou~ e[cei”
tetrametri
trocaici catalettici
Questi
versi contengono alcune norme basilari della civiltà classica e della cultura
europea. Hanno qualche precedente in Omero e un seguito infinito, tanto che sembrano
riecheggiare dal fondo dei secoli all'anima del lettore anche non esperto di
greco. L'idea del tollerare con forza le avversità, si trova nell'Odissea ,
quando Ulisse, davanti allo
scempio che vede in casa sua, invita il proprio cuore a sopportare i mali con
il ricordo di mali ancora peggiori già superati:
"sopporta,
o cuore un altro dolore più cane sopportasti una volta/ (tevtlaqi dhv
kradivh: kai; kuvnteron a[llo pot j e[tlh")
quel giorno
quando, irrefrenabile possa, mi mangiava il Ciclope/
i gagliardi
compagni: e tu resistevi, finché l'ingegno (mh`ti~)
ti tirò
fuori dall'antro dove credevi che saresti morto"(XX, 18 - 21).
Enea dice ai
suoi uomini scampati alla tempesta scatenata dai venti sul mare dove
navigavano:
“O socii
(neque enim ignari sumus ante malorum
O passi
graviora, dabit deus his quoque finem.
Vos et scylleam rabiem penitusque sonantis
Accestis scopulos, vos et cyclopea saxa
Experti: revocate animos maestumque timorem
Mittite: forsan et haec olim meminisse iuvabit
(…)
Durate et vosmet rebus servate secundis
(Eneide, I, 198 - 203 e 207)
O sventurati
compagni (né infatti siamo inesperti di mali)
O voi che ne
avete provati più gravi, un dio darà una fine anche a questi
Voi avete
affrontato la rabbia di Scilla e gli scogli
Profondamente
urlanti, voi avete provato anche le rupi
Del Ciclope:
richiamate il coraggio e mandate via l’angoscioso
Timore:
forse un giorno vi piacerà ricordare anche questo
(…)
Tenete duro
e salvatevi per la buona fortuna.
Cfr.
anche Ovidio dove troviamo
il tw'/ pavqei mavqo": “Perfer et obdura: dolor hic tibi proderit olim/saepe tulit lassis
sucus amarus opem” (Amores, III, 11, 7 - 8), sopporta e tieni duro,
questo dolore un giorno ti gioverà, spesso un succo amaro ha portato aiuto agli
spossati.
Un motivo
che può sollevarci l'animo nelle disgrazie è il ricordo di un precedente
successo.
Giuliano Cesare quando si prepara ad attaccare dice ai
soldati: quid agi oporteat bonis successibus instruendi (Ammiano
Marcellino, Storie, 21, 5, 6).
Negli Annali di Tacito si trova la pur dubbiosa constatazione
del girare delle fortune, corrispondente a quello delle stagioni :"Nisi
forte rebus cunctis inest quidam velut orbis, ut quem ad modum temporum vices
ita morum vertantur" ( III,55), a meno che, come è probabile, in tutte
le cose non ci sia una specie di ciclo, in maniera che come le stagioni
così cambiano periodicamente i costumi.
Questa coscienza
dell'avvicendamento crea un distacco tra la persona e il dolore
considerato, al pari della gioia e dell'amore, una parte necessaria della ruota
sulla quale gira la vita.
Per quanto riguarda il rapporto con la divinità,
questa non solo è invocata da Saffo con una confidenza che permette di parlare
liberamente, ma è descritta con una ricchezza di particolari che deriva da
Omero e che non è dato trovare nella Bibbia..
A questo proposito è interessante La cicatrice di
Ulisse, il primo capitolo di Mimesis,
il realismo nella letteratura occidentale di Erich Auerbach. L'autore nota che Omero descrive tutto
con esattezza per la "necessità ..di non lasciare nell'ombra o non finito
nulla di quello che è stato accennato"(p.6), e questo avviene tanto quando
racconta come Ulisse si fece la cicatrice che svela la sua identità a Euriclea
(Odissea , XIX, 390 sgg.), tanto quando descrive la visita di Ermes
a Calipso (Odissea , V) dove del dio in partenza dice persino
che"sotto i piedi legò i sandali belli/immortali d'oro - pevdila, - ajmbrovsia cruvseia - , che lo
portavano sia sul mare/sia sulla terra infinita insieme con i soffi del
vento"(vv.44 - 46). Una descrizione evidentemente ricordata da Saffo.
Auerbach procede con un confronto cui accenniamo perché ci sembra interessante:
l'Antico Testamento, particolarmente nell'episodio del sacrificio di Isacco (Genesi ,
22), invece fa sentire la voce di un dio che "inopinato ed enigmatico (…)
arriva sulla scena da altezze o profondità sconosciute e grida: - Abramo!"(p.9).
Sia in Omero (Odissea, V, 45) sia in Saffo (v.
8), abbiamo trovato la presenza dell'oro. Questo naturalmente non ha alcun
valore economico, ma costituisce un aspetto della bellezza e della grazia, o
quasi un riflesso del fulgore divino, come leggiamo nella Parodo dell’ Edipo re (vv.151 - 153a):
"O voce dolciloquente di Zeus
quale mai da Pito ricca d'oro - ta'"
polucruvsou - Puqw'no" -
sei venuta alla splendida Tebe?".
Anche Pindaro, nella Prima
Olimpica ,(vv.2 - 4) mette in luce il valore estetico e
spirituale, più che economico, anzi quasi antieconomico dell'oro - crusov" - che" ardendo come
fuoco brilla nella notte al
di sopra di ogni superba ricchezza - diapevpei
nukti; megavnoro" e[xoca plouvtou.
Anche il Cristo di Matteo splendidamente reso in
immagini filmiche da Pasolini[11] mette in rilievo la sacralità che l'oro riceve dall'altare quando
censura gli Scribi e i Farisei ipocriti:" Stulti et caeci! Quid enim maius est: aurum an templum, quod
santificat aurum?" (23, 17), stolti e ciechi, che cosa è più grande:
l'oro o il tempio che santifica l'oro? E ancora:" Caeci! Quid enim
maius est: donum an altare, quod santificat donum? (23, 19), ciechi!
Che cosa infatti è più grande: l'offerta o l'altare che santifica l'offerta?
Bologna 28 dicembre 2019 giovanni ghiselli
[1] Bruno Snell, La
cultura greca e le origini del pensiero europeo , p. 372.
[2] Aristotele, Poetica ,
1451b.
[3]Snell, La cultura greca e le
origini del pensiero europeo , p. 371.
[4]G. B. Conte, introduzione a Ovidio
rimedi contro l'amore , p. 43.
[5] L. Tolstoj, Anna
Karenina, p. 366.
[6] F. Dostoevskij, Il
giocatore, p. 42.
[7] M. Proust, La prigioniera, p. 183.
[8] Cocotte, vv. 67 - 69.
[9] Il mestiere di vivere,
30 settembre 1937.
[10]Di là dal bene e dal male , l’essenza religiosa, 49
[11] Il vangelo secondo Matteo,
1964.