NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

Ciclo di incontri alla biblioteca «Ginzburg». Protagonisti della storia antica

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lunedì 30 settembre 2024

Il film Il tempo che ci vuole di Francesca Comencini.


 

Ieri sera ho visto il film di Francesca Comencini: Il tempo che ci vuole.

Mi ha colpito emotivamente perché è una storia di educazione reciproca tra un padre e sua figlia. Una storia autobiografica, che però tocca la sfera emotiva appunto ogni genitore e di ogni figlio.

Anche un genitore mancato come me si è commosso. Anzi. forse ancora di più.

 Nel film il padre, interpretato dall'ottimo Francesco Gifuni, è il regista Luigi Comencini e la figlia resa dalla bambina Anna Mangiocavallo e dalla ragazza Romana Maggiora Vergano è sua figlia Francesca.

 I due vivono da soli in un appartameno di persone benestanti ma faticano a trovare un equilibrio tra loro. La bambina è contraddittoria: talora docile, talvolta ribelle e il padre si occupa di lei con pazienza curando del resto anche il proprio lavoro di regista. Prepara il suo film su Pinocchio.

La ragazza delle scene successive cerca la propria identità affettiva, il proprio ruolo nella vita con nervosismo, insicurezza, fatica. Arriva a un conflitto duro con il padre quando questo scopre che la propria figliola si droga.

Dopo una scenata di lui e i pianti di lei i due si parlano e la ragazza dice di stare male perché si sente incapace, fallita, desolata.

Il padre, deposta la rabbia dolorosa, le dice parole intelligenti: "anche io mi sono sentito fallito tante volte, ma non ho ceduto e ho provato ancora e sono fallito diverse altre volte, ma ogni volta sempre un poco di meno".

Ottime parole di effetto terapeutico.

Il padre poi si ammala e Francesca gli rimane vicino.

Nelle ultime scene la giovane donna ha trovato la sua strada, il suo metodo per vivere senza troppa pena: è diventata una regista anche lei e ha una figlia ma non se ne vede il marito o compagno che sia.

L' uomo è rimasto sui padre e i due collaborano, si vogliono bene.

Mi è piaciuto questo film perché  ci ho visto la storia vissuta con mia madre: da bambino ribelle, a ragazzo cattivo come mi definiva fraintendendo il mio amore per lei, a ottimo figlio. Abbiamo combattuto a lungo siccome non parlavamo abbastanza, poi l'abbiamo fatto e ci siamo capiti. Anche noi abbiamo avuto bisogno di tempo. Questa storia ha elementi universali.

Non parlare è quasi sempre il motivo dell'incomprensione che può arrivare al conflitto e perfino all'odio.

Sul bisogno di parlare, non cianciare, ma proprio parlare, aggiungo che questa facoltà squisitamente umana sta regredendo verso la chiacchiera o addirittura l'afasia. Non so se sia stata una scelta della regista per evidenziare tale degrado, ma quando parlava la bella attrice Romana nella fase della sua crisi non si capiva una parola.

Ora questa pronuncia criptica è un vezzo di moda ed è un sintomo della decadenza estrema di quanto è umano.

Pesaro 30 settembre 2024 ore 20, 31 giovanni ghiselli

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Ifigenia CXLVIII. Un sogno e un film. Ogni esperienza interferisce con altre.


 

Dicembre passò senza eventi degni di nota, tanto meno di racconto. Studiavo tutto  il giorno per educare i miei allievi di quinta ginnasio e per aiutare la nuova supplente alquanto sprovveduta perché la scuola non insegna a insegnare se non con l’esempio dei docenti che talora però non sono persone di cultura, e raramente ancora sono degli educatori. Lucia era una ragazza carina ma molto insicura: diceva di essere sfiduciata in se stessa siccome aveva perduto fiducia nell’umanità, però avere incontrato me la stava aiutando. Le mie parole suonavano bene alle sue orecchie: non mi sembravano imbellettate bensì naturalmente belle, buone, sincere e generose.

Mi lusingava e non mi spiaceva che lo facesse siccome aveva un bel volto, con grandi occhi ricchi di pathos ed era ben fatta di corpo.

Forse potevo  educarla. E’ sempre il primo pensiero che mi viene in mente quando vedo una giovane attenta e bellina. E’ quasi un istinto.

Leggevo molto dunque e imparavo nuove parole buone e belle anche sperando in un’altra borsa di studio.

Ifigenia mi interessava meno e le dedicavo poca attenzione.

 

Una notte feci un sogno che mi spaventò.

Era la fine dell’ estate. Con Ifigenia e mia sorella ero  sulla spiaggia di Pesaro battuta dal vento e dai cavalloni di una burrasca marina. Parlavo di storia greca. A un tratto Alfredo, il bagnino storico di quella zona, viene ad avvisarci che il tratto di mare antistante il suo bagno è il più pericoloso di tutta la costa. Gli rispondo che mi interessa e vado da lui proprio per questo.

Subito dopo Ifigenia sparisce. Continuo a parlare con Margherita. La istruisco sulla tirannide mite di Pisistrato.

 

La sorellina era stata la mia prima allieva quando si era bambini. Aveva quattro anni meno di me, molti quando si era citti, e mi ascoltava devotamente. Poi però non aveva fatto il classico, non aveva studiato greco, e si era distratta da me. Quindi pure io da lei. Ci siamo ritrovati decenni dopo.

 

A un certo punto le domando dov’è Ifigenia. Risponde che non può saperlo. Mi sembra che voglia nascondermi qualcosa di brutto. La incalzo: “dov’è, dov’è Ifigenia? Ti prego, dimmi dov’è”.

Margherita tace ma si avvicina Dante, il vice bagnino che mi fa: “Hanno detto che è andata a nuotare molto lontano, e nuotando, nuotando a un tratto perse la lena, quindi si meravigliò”.  

Allora grido: “Di che cosa? Non sarà mica morta!” E mentre dormo ho paura davvero.

Interviene Margherita che dice: “Quando hanno sollevato lo straccio che le copriva il viso, era pallida come un’alga spiaggiata e aveva gli occhi girati all’insù.

Ricompare Alfredo e mi dice: “se è morta, dovrai pagare una multa salata!”

“No, no! –torno a gridare-vorrei essere morto io piuttosto che rimanere qui a smaltire un’orrenda vecchiaia nel vento e nell’ombra che cala dagli alberghi e si allunga ogni minuto di più!”.

 

Mi sveglio pieno di spavento e prendo nota.

Scrissi che il significato latente delle immagini oniriche doveva essere questo: Margherita cui facevo lezione di storia era Lucia mascherata. Il significato generale era che mi mancava Ifigenia come era stata l’inverno precedente e temevo che non l’avrei ritrovata mai più com’era quando mi rendeva felice.

L’incontro con Lucia, pensai, sarebbe stato breve e inconcludente come quello visto in un film quando ero bambino, un bel film perché la madre mia aveva gusto per il cinema e mi portava a vedere quelli che piacevano a lei. Dico di un film del 1945 intitolato Breve incontro con una storia d’amore non consumato se non con due baci dopo un corteggiamento reciproco fatto di parole intelligenti.

L’attrice Celia Johnson in particolare mi aveva colpito perché aveva gli occhi simili a quelli delle donne di casa mia da mia nonna a mia sorella, poi ritrovati in Lucia.

 

Cinema, vita, studi, lavoro, affetti, amore ogni momento della mia vita scorreva dentro di me e interferivano tutti tra loro.

 

Pesaro 30 settembre 2024 ore 19, 26 giovanni ghiselli 

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Platone: il mito della caverna.


Schopenhauer lo riassume in questi termini in Il mondo come volontà e rappresentazione III, 31.

Kant sostiene che tempo, spazio e causalità sono forme della  nostra conoscenza attribuibili solo al fenomeno, non alla cosa in sé. Il fenomeno faivnomenon è quello che appare, apparenza. Platone sostiene che quanto percepiamo con i nostri sensi non costituisce ejpisthvmh una conoscenza autentica ma solo dovxa, opinione occasionata dalla sensazione priva di logos. – met’ aijsqhvsew~ ajlovgou.

Imprigionati nella percezione siamo come gli uomini incatenati in una caverna. Essi non possono nemmeno volgere il capo. Vedono solo delle ombre proiettati sulla parete di fondo che fa da schermo. Ombre di oggetti fatti passare dietro di loro e posti sulle spalle di uomini che camminano davanti a un fuoco e dietro un muro che arriva appunto alle loro spalle.

Ombre dunque e non un vero essente qualcosa che ontologicamente è- o[nto~ o[n-  Solo le idee sono vere essenze, sono o.ntologicamente. Le cose sono le loro brutte copie transitorie e sottoposte al divenire.

 

 

 

 

Vediamo dunque questo mito (VII libro della Repubblica di Platone 514a-517e)

 

Socrate parla a Glaucone e gli dice: considera gli uomini rinchiusi in una specie di abitazione sotterranea, cavernosa, a grotta (ejn katageivw/ oijkhvsei sphlaiwvdei, 514). L’ingresso è aperto alla luce ma poi scendendo si trovano  uomini che sono prigionieri  fin da fanciulli, incatenati nelle gambe e nel collo-ejn desmoi`~ kai; ta; skevlh kai; tou;~ aujcevna~-  in modo che possano guardare solo verso il fondo della caverna. Non possono girare la testa incatenati come sono-ujpo, tou` desmou`-

Dietro di loro c’è un muro, e  dietro il muro  una strada. Su questa strada passano uomini che hanno sulle spalle arnesi di ogni genere che sporgono oltre il muretto uJperevconta tou` teicivou-: statue, animali di pietra e di legno  (zw`/a livqinav te kai; xuvlina).

Dietro la strada c’è la luce di  un fuoco che proietta ombre da lontano e dall’alto- fw`````" puro;"   a[nwqen kai; povrrwqen-514b.

Glaucone obietta a Socrate che ha descritto un’immagine strana-a[topon eijkovna e strani prigionieri- kai; desmwvta~ ajtovpou~-

 

Del resto Socrate è strutturamente strano e lui stesso si definisce a[topo~ (Fedro, 229 c)

 

Questi prigionieri, risponde Socrate Glaucone, sono simili a noi. Infatti possono vedere solo le ombre proiettate dal fuoco- ta;~ skia;~ uJpo; tou` purou`-  sulla parete che hanno davanti

I prigionieri vedono solo le ombre proiettate dal fuoco sulla parete di fondo.

Costoro credono che quelle ombre (skiav") siano la realtà (to; ajlhqev").

 

Se uno di loro venisse slegato e costretto ad alzarsi e a guardare la luce del fuoco e gli oggetti, rimarrebbe abbagliato e riterrebbe le ombre più vere degli oggetti reali.

Se poi venisse portato fuori pieno di riluttanza, non riuscirebbe a vedere niente. Ma poi un poco alla volta si abituerebbe a vedere prima le ombre, poi i riflessi degli oggetti nell’acqua, infine gli oggetti stessi, poi il cielo notturno, la luna e le stelle. Infine il sole. E capirebbe che il sole produce le stagioni e gli anni, e sovrintende a tutto quanto c’è nel mondo visibile  (pavnta ejpitropeuvwn ta; ejn tw'/  oJrwmevnw/ ) ed  è la causa di tutto quanto vedono.

A questo punto lo schiavo liberato si ricorderà dei compagni di schiavitù e li commisererà.

E  ricordando i gli encomi e i premi miserabili dati a chi vedesse e ricordasse  meno peggio degli altri penserebbe quello che dice Achille a Odisseo nell’Ade, che preferirebbe essere un bracciante al servizio di un uomo povero piuttosto che tornare in quell’inferno (Odissea XI, 489-491).

 

Se tornasse nella caverna gli ottenebrati direbbero che è lui l’ottenebrato e se qualcuno cercasse di liberarli per farli uscire, lo ammazzerebbero.

Questo mito, spiega Socrate, significa che il mondo dove viviamo è una prigione e il sole è quel fuoco e noi vediamo solo ombre

 

La vita umana e l’uomo stesso è ombra e sogno

Pindaro chiama l'uomo "sogno di ombra" (skia'" o[nar/a[nqrwpo"", Pitica VIII, vv. 95-96 ).

Nell'Aiace di Sofocle, Odisseo esprime la convinzione che l'ombra sia la quintessenza dell'uomo e manifesta la compassione del poeta per tutte le creature umane cadute sulle spine della vita:"oJrw' ga;r hJma'" oujde;n o[nta" a[llo plh;n--ei[dwl j o{soiper zw'men h] kouvfhn skiavn", io infatti vedo che non siamo se non spettri quanti viviamo, o vana ombra (Aiace, vv.125-126).

 

Pulvis et umbra sumus”, polvere e ombra siamo, secondo Orazio (Odi, IV, 7, v. 16).

Nel Seicento questa idea va di moda, tanto che  Calderòn de la Barca intitola il suo capolavoro (del 1635) La vita è sogno, e, nel corso del dramma (I, 2), scrive:" il delitto maggiore dell'uomo è essere nato", mentre Prospero nel dramma La tempesta [1] afferma:"Noi siamo fatti con la materia dei sogni, e la nostra breve vita è circondata dal sonno"(IV, 1). Quindi il duca si avvia con la mente alla sua Milano "dove un pensiero su tre, sarà la tomba" (V, 1).

Nel Macbeth il protagonista afferma:"Life's but a walking shadow " (V, 5), la vita non è che un'ombra che cammina.

Sentiamo Pirandello: Mattia Pascal/Adriano Meis passeggiando per Roma riflette sulla propria ombra: “Uscii di casa, come un matto. Mi ritrovai dopo un pezzo per via Flaminia, vicino a Ponte Molle. Che ero andato a far lì? Mi guardai attorno; poi gli occhi mi s’affissarono su l’ombra del mio corpo, e rimasi un tratto a contemplarla; infine alzai un piede rabbiosamente su essa. Ma io no, non potevo calpestarla, l’ombra mia. Chi era più ombra di noi due? Io o lei? Due ombre! Là, là per terra; e ciascuno poteva passarci sopra: schiacciarmi la testa, schiacciarmi il cuore: e io, zitto, l’ombra, zitta. L’ombra d’un morto: ecco la mia vita…Ma sì! Così era! Il simbolo, lo spettro della mia vita era quell’ombra: ero io, là per terra, esposto alla mercè dei piedi altrui. Ecco quello che restava di Mattia Pascal, morto alla Stìa: la sua ombra per le vie di Roma”[2].

 

Concludo  con Proust:"Ci si accanisce a cercare i rottami inconsistenti d'un sogno, e intanto la nostra vita con la creatura amata continua: la nostra vita, distratta dinanze a cose di cui ignoriamo l'importanza per noi, attenta a quelle che forse non ne hanno, succube di esseri senza nessun rapporto reale con noi, piena di oblii, di lacune, di ansietà vane; la nostra vita simile a un sogno" (La prigioniera, p. 147).

 

 

Uscire dalla caverna significa salire eij"  to;n nohto;n tovpon,  Repubblica. 517 b) nel mondo intelligibile

Nel campo conoscibile -ejn tw'/ gnwstw'/-  l’idea suprema è quella del bene hJ tou' ajgaqou' ijdeva (517c) che a fatica si vede, ma una volta vista va considerata ojrqw'n te kai;  kalw'n aijtiva,  causa di tutte le cose belle e rette e nell’intellegibile (e[n te nohtw'/) largisce verità e ragione.

La scienza che non arriva all’idea del Bene è dannosa

 

L’idea del Bene è nell’intellegibile ciò che il sole è nel visibile. Lo ripeterà l’imperatore Giuliano, Augusto dal 361 al 363.

 

L’imperatore calunniato con l’infamante epiteto di “Apostata” riprende Platone nell’orazione A Helios re dedicata al filosofo Salustio. Questo “sermone natalizio” fu redatto alla fine del 362 d. C. per celebrare il 25 dicembre, dies natalis Solis invicti. Elio è visto come il signore del mondo intelligente e viene definito dio mediatore e potentissimo, assai simile al Bene preesistente a tutte le cose. Giuliano cita la Repubblica di Platone dove (508b) si dice che il Sole è figlio del Bene (τοῦ ἀγαθοῦ ἔκγονον) che il Bene generò simile a sé (ὃν τἀγαθὸν ἐγέννησεν ἀνάλογον ἑαυτῷ) e ciò che è il Bene nel mondo intellegibile rispetto all'intelletto e agli intellegibili è Helios nel mondo visibile rispetto alla vista e alle cose visibili (5, 17-21). L’Uno (τὸ ἕν) o il Bene (τἀγαθὸν), come lo chiama Platone, ha rivelato da sé Elios dio potentissimo del tutto simile a sé. Quindi Elios viene identificato con Zeus e con Apollo (31)

 

Chi giunge a questo punto non vuole più attendere alle faccende umane ma le loro anime sono sempre spinte a soggiornare in alto (ajll j a[nw ajei; ejpeivgontai aujtw'n aiJ yucai;; diatrivbein  Repubblica, 517 d).

Allora uno che viene da divine contemplazioni e scende alle miserie umane ajschmonei' fa brutta figura e sembra molto ridicolo kai; faivnetai sfovdra geloi'o"  quando, non ancora assuefatto alla tenebra, è costretto a combattere con delle ombre e degli ottenebrati.

 

Gli occhi si turbano passando e[k fwto;"  eij" skovto" e viceversa.

Così accade anche all’anima. L’educazione consiste in una conversione dell’anima che deve volgersi dalla parte giusta.

Essere tratti alla luce non sarebbe il voltare di un coccio bensì la conversione dell’anima oujk ojstravkou a[n ei[h  peristrofhv , ajlla; yuch`~ periagwghv, da un qualche giorno notturno a uno vero, alla vera ascesa al reale che noi diciamo essere la vera filosofia Repubblica,  521c

 L’animula to; yucavrion 519a) dei malvagi  detti sapienti ha la vista penetrante sulle cose basse cui si rivolge.

Al divenire sono congeniti pesi di piombo che rivolgono in giù la vista dell’anima kavtw strevfousi th;n th`s yuch`~ o[yin (519b).

 

Cfr. la Sfinge che nell’Edipo re di Sofocle costringeva a guardare in basso: Ma quale male, caduta così la tirannide,/stando tra i piedi- ejmpodwvn-, vi impediva di sapere questo?" ossia di fare indagini sull’uccisione di Laio, domanda Edipo a Creonte il quale risponde:

"La Sfinge dal canto variopinto hJ poikilwdo;~ Sfivgx- ci spingeva a guardare/quello che era lì tra i piedi- to; pro;~ posi; skopei`n, e a lasciare perdere quanto non si vedeva" (vv. 128- 131)

-Il canto variopinto è la parola ingannevole e adulatoria del tiranno, del demagogo, del sofista. E' il brutto senza semplicità. Oggi è la pubblicità che invade le vite umane seducendo gli ottenebrati.

 

L’anima dovrebbe convertirsi, cioè girarsi dalla parte dove si trova dell’idea del bene. Chi è malvagio rimane con un’animula (to; yucavrion) non convertita. Bisogna educare i migliori attraverso la conversione che li porti a vedere il Bene. Questi educati dovranno armonizzare i cittadini:

i filosofi devono occuparsi degli altri e custodirli, devono essere come i capi di un alveare. Ora le città sono governate da gente che vede ombre e contende con delle ombre per il potere, come se fosse un vero bene wJς megavlou tino;ς ajgaqou' o[ntoς (520b). Devono governare i veri ricchi, non di oro ma di una vita buona e saggia plouvsioi ouj crusivou ajll j zwh'ς ajgaqh'ς te kai; e[mfronoς (521). Non devono andare al potere dei poveri affamati di beni privati  ptwcoi; kai; peinw'nteς ajgaqw'n ijdivwn. Questi infatti tendono ad arraffare. Ci vuole dunque una conversione dell’anima yuch'ς periagwghv, non il voltare di un coccio ojstravkou peristrofhv.

L’anima deve girarsi da ciò che diviene a ciò che è.

Ginnastica e musica non bastano, ci vuole anche la matematica. Palamede fa apparire Agamennone scemo dicendo che non è stato lui a inventare il numero (ajriqmovn) e non avrebbe saputo  contare le navi né tutto il resto se non avesse avuto il suo aiuto. Dunque il guerriero deve saper lovgizesqai kai; ajriqmei'n, calcolare e contare.

Il filosofo deve cogliere l’essere (th'ς oujsivaς aJptevon) spogliandosi del divenire (genevsewς, 525 b).

 

Pesaro 30 settembre 2024 ore 19, 06, giovanni ghiselli

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[1] Del 1612.

[2] L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal, pp. 234-325.

La stranezza- ajtopiva- di Socrate. Il mito dell’essere “strano”.


 

La sapienza di Socrate non gli viene dalla natura bensì dalla città.

 

Cercare di smontare i miti con la ragione è roba da sofoiv detto con disprezzo da Socrate nel Fedro di Platone

 

Il luogo ameno fuori le mura di Atene non attira Socrate quanto la città

siccome impara dagli uomini.

 Nel prologo del dialogo Fedro,  Socrate descrive il paesaggio che incornicia la sua passeggiata con Fedro fuori le mura  e[xw teivcou~ (227A). Il filosofo  indica e descrive   un bel luogo di sosta. C’è un platano alto e molto frondoso,  poi c’è un agnocasto, un grosso cespuglio rigoglioso che stende sul terreno un’ombra bellissima, e offre un piacevole profumo con i suoi fiori viola. Sotto il platano ujpo; th`~ platavnou

scorre una fonte gradevolissima- phgh; cariestavth rJei`- (230B) di molta acqua fresca. Non mancano statue che fanno ritenere il luogo sacro alle Ninfe e ad Acheloo. Gradevole e dolce è il venticello del luogo. E   un melodioso suono estivo risponde al coro delle cicale- qerinovn te kai; liguro;n ujphcei` tw`/ tw`n tettivgwn corw`/ (230 C), ma la cosa più elegante è l’ aspetto dell’erba- to; th`~ pova~- disposta in un dolce declivio.

Essa è cresciuta in modo che vi si possa appoggiare la testa.

 

Quindi Socrate ringrazia Fedro che gli ha fatto da guida in quel luogo.

Ma il comes gli risponde : “tu o mirabile Socrate, sembri un tipo stranissimo- ajtopwvtatov~ ti~ faivnh/ (230C)  in quanto pari un forestiero condotto da una guida, non uno del luogo. Tu non esci dalla città neppure per recarti fuori le mura- exw teivcou~- 230 D.

 

Socrate e Leopardi sono strani.

 Socrate poco prima aveva  detto a Fedro che se non credesse al mito di Borea che rapì Orizia figlia del re Eretteo, come non ci credono oiJ sofoiv, non sarebbe l’uomo strano (a[topo~) che è ( Fedro, 229c). Potrei dire, facendo il sapiente, sofizovmeno~, che un colpo di vento di Borea gettò Orizia giù dalle rupi o dall’Areopago. È un’interpretazione ingegnosa, ma chi la fa, poi deve raddrizzare gli Ippocentauri, la Chimera, e Gorgoni e Pegasi e tutte le stranezze della natura. E per questo ci vuole molto tempo libero e io non ne ho: ejmoi; de; pro;~ aujta; oujdamw`~ scolhv (229e).

Io non sono ancora in grado di conoscere me stesso kata; to; Delfiko;n gravmma, perciò mi sembra ridicolo geloi`on dhv moi faivnetai indagare cose che mi sono estranee - ta; ajllovtria skopei`n. Dunque dico addio a tali questioni, esamino me stesso skopw` ejmautovn, per vedere se per caso io non sia una bestia più intricata e più invasa da brame di Tifone o se sono un essere vivente (zw`/on) più mite e semplice, partecipe per natura di una sorte divina e priva di superbia fumosa (Fedro, 230a).

In conclusione Socrate  si scusa con Fedro dicendo; sono  filomaqhv~, amo imparare ma  imparo solo dagli uomini: “ta; me;n ou\n cwriva kai; ta; devndra oujde;n m j ejqevlei didavskein, oiJ d j ejn tw`/ a[stei a[nqrwpoi” (Fedro, 230d), il luoghi di campagna dunque e gli alberi, non vogliono insegnarmi niente, gli uomini della città, invece sì.

La sua sapienza infatti è sapienza umana- ajnqrwpivnh sofiva- come  dice difendendosi nell’Apologia scritta da Platone (20d).

 

Massimo Cacciari commente così: “átopos è Socrate  (…) Socrate non ha luogo, poiché li critica tutti, tutto interroga, tutto apre. Átopos e non ou tópos –non a caccia di immagini astratte di non luoghi o luoghi-buoni da contrapporre semplicemente a quelli di cui abbiamo esperienza. Il luogo dove il filosofo discute per suscitare meraviglia di fronte alla cosa è la città, il luogo comune e di nessuno, e proprio esso va interrogato  e mosso verso il suo Ultimo, verso ciò che appare Im-possibile a coloro che lo intendono e vogliono assicurarselo come una ferma dimora” (Metafisica concreta, p. 355).

 

Del resto quanto allo strano che si attribuisce l’uomo non comune posso citare anche Leopardi:

“quasi romito e strano

al mio loco natio

passo del viver mio la primavera” (Il passero solitario, 24-26).

 

La stranezza del linguaggio.

 

 Aristotele suggerisce di impiegare lo strano, lo srtraordinario per arrivare alla   levxew~ de; ajreth;, al pregio del linguaggio che deve essere chiaro e non pedestre  safh' kai; mh; tapeinh;n ei\nai” (Poetica, 1458a, 18 ).  

 L’autore si scosta dall’ordinario quando usa espressioni peregrine come glossa metafora allungamento e ogni forma contraria all’usuale:“xeniko;n de; levgw glw'ttan kai; metafora;n kai; ejpevktasin kai; pa'n to; para; to; kuvrion” (Poetica, 1458a, 22 ).

Dunque le callidae iuncturae e le metafore di Orazio: simplex munditiis  o carpe diem per esempi di metafore

 insperata atque inopinata verba” (Frontone) 

 

Anche la stranezza dell’aspetto umano può essere attraente

La stranezza ad alcuni piace anche nell’aspetto umano: Hans Castorp il giovane protagonista del romanzo La montagna incantata di T. Mann si innamora della russa Claudia Chauchat per la forma inconsueta degli occhi dal taglio finnico mongolico che gli ricordava una simpatia adolescenziale per un compagno di scuola di origine slava-Hippe Pribislav-, e anche per la stranezza del comportamento, di tutta la vita di questa donna equivoca e dunque del tutto diversa dalle borghesi ordinarie che aveva conosciuto.

 

Pesaro 30 settembre 2024 ore 17, 30giovanni ghiselli

 

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Il mito di Er. La scelta del destino.


 

 

Voglio rivedere e illustrare questo mito che mi sta molto a cuore poiché insegna che dobbiamo restare fedeli al nostro carattere una volta che l’abbiamo scelto, ossia individuato tra le varie possibilità.

Felicità è eujdaimoniva, un buon rapporto con il proprio demone, lo stesso destino 

Er, Panfilio di stirpe, era morto in guerra, ma al dodicesimo giorno, quando si trovava già sulla pira,  tornò in vita e raccontò quello che aveva visto nell’aldilà (Platone, Repubblica, 614b-X, ultimo libro).

Er disse che l’anima, quando esce dal corpo,  si incammina, con molte altre, verso un luogo soprannaturale eij~ tovpon tina; daimovnion , un prato, dove ci sono due voragini (cavsmata. 614c) contigue, nella terra, e altre due  nel cielo di fronte, in alto. 4 voragini dunque

In mezzo a queste aperture siedono dei giudici i quali ordinano ai giusti di procedere in alto a destra attraverso il cielo (eij~ dexiavn te kai; a[nw dia; tou` oujranou`)  e agli ingiusti di precipitare in basso a sinistra.

A Er i giudici dissero che doveva osservare e divenire nunzio agli uomini  delle cose dell’aldilà (a[ggelon ajnqrwvpoi~ genevsqai tw`n ejkei`, 614d).

 

Er dunque vedeva parte delle anime giudicate che salivano verso il cielo per una delle due voragini volte in alto, parte scendevano nella terra attraverso la voragine aperta verso il basso, mentre dalle altre due aperture contigue scendevano dall’alto anime pure, e salivano dal basso anime piene di lordura e di polvere (ejk th`~ gh`~ mesta;~ aujcmou` te kai; kovnew~).

 

Le anime giunte sul prato (eij~ to;n leimw`na, 614e) vi si attendavano come per un consesso festoso e si salutavano, quante si conoscevano.

 

Quelle che venivano da sotto terra rievocavano piangendo il loro viaggio ipogeo di mille anni (ei\nai de; th;n poreivan cilievth, 615).

Quelle che venivano dal cielo invece facevano un racconto di delizie e di spettacoli straordinari per la bellezza (eujpaqeiva~ dihgei`sqai kai; qeva~ ajmhcavnou~ to; kavllo~).

 

I puniti raccontavano che di ogni ingiustizia avevano pagato il fio dieci volte tanto, ossia avevano subito dolori dieci volte maggiori di quelli inflitti, e i premiati corrispettivamente ricordavano che pure i benefici erano stati ricompensati in misura dieci volte maggiore.

Un contrappasso decuplicato, come quello delle fosse ardeatine e oggi quello di Gaza.

Più grandi erano le retribuzioni per l’empietà e la pietà verso gli dèi e i genitori e per le uccisioni di propria mano.


 

Tiranni incurabili: tumori del mondo

 

Un esempio negativo molto evidente di cui Er aveva sentito dire era quello del grande criminale Ardieo (   jArdiai`o~ oJ mevga~, 615 c). Costui era diventato tiranno in una città della Pamfilia, mille anni prima, e aveva ucciso padre, fratello, non senza molte altre scelleratezze. Chi l’aveva incontrato disse che quell’orribile criminale non sarebbe mai arrivato nel prato del consesso festoso. Infatti era uno di quelli così inguaribilmente malvagi (ti~ tw`n ou{tw~ ajniavtw~ ejcovntwn eij~ ponhrivan, 615c) che non potevano risalire. La maggior parte di questi incurabili erano tiranni. Quando si avvicinavano alla bocca d’uscita, questa emetteva un muggito (ejmuka`to). Cfr. ijavomai=curo

Allora intervenivano uomini a[grioi, diapuvroi ijdei`n (615 e) selvaggi, infuocati a vedersi che  afferravano tali delinquenti e li portavano via. I pessimi come Ardieo , venivano legati mani, piedi e testa, buttati a terra, scorticati, trascinati fuori strada su piante spinose e gettati nel Tartaro.

 

Dopo sette giorni passati nel prato dunque, le anime dovevano viaggiare per quattro giorni finché giungevano in un luogo da dove vedevano dall’alto una luce diritta (fw`~ euquv)  distesa per tutto il cielo e la terra (dia; panto;~ tou` oujranou` kai; gh`~) come una colonna (oi|on kivona, 616c), molto simile all’arcobaleno, ma più fulgida e pura. Questa è l’anima del mondo.

Le anime degli umani camminavano un altro giorno e, arrivati a metà della luce, vedevano teso dalle due estremità il fuso di Ananche (ejk de; tw`n a[krwn tetamevnon   jAnavgkh~ a[trakton), l’asse dell’universo attraverso cui avvengono tutti i movimenti circolari. Il fuso aveva otto fusaioli concentrici (ojktw; ga;r ei\nai tou;~ xuvmpanta~ sfonduvlou~, 616d), i contrappesi del fuso.

 

Questi fusaioli rappresentano il cielo delle stelle fisse e i sette pianeti. Partendo dall’esterno: Stelle fisse, Saturno, Giove, Marte, Mercurio, Venere, Sole, Luna. Così nel Timeo. E’ l’ordine pitagorico.

         Il fuso si volgeva sulle ginocchia di Ananche.

Su ognuno dei fusaioli circolari che rotavano lentamente incedeva in alto una Sirena sumperiferomevnhn (617b) tratta anch’essa nel moto circolare mentre emetteva una voce in armonia con quella delle altre sette.

 

 Sirene  celesti, angeliche e Sirene ctonie, funebri.  Sirene assassine nel XII canto dell’Odissea. Nel IV libro delle Argonautiche vengono neutralizzate dal canto di Orfeo.

 

Poi le doctae Sirenes di Ovidio

“Chi sono veramente le Sirene? Esseri oscuri del mondo sotterraneo, come voleva Platone nel Cratilo?[1] O, come Platone stesso, con esemplare sublimazione ed implicita auto-decostruzione, proponeva nella Repubblica, esseri celesti che intonano la musica delle sfere nel mondo futuro[2]; quindi, per un’età successiva, ‘angeli’? Simboli del desiderio mondano e del piacere dei sensi, cortigiane e prostitute, come credeva l’ellenismo, o icone del sapere, sul tipo delle doctae sirenes celebrate da Ovidio?”[3].

Ovidio nel V libro delle Metamorfosi racconta che le doctae Sirenes, figlie di Acheloo, erano compagne di Proserpina quando la figlia di Demetra sparì,  cum legeret vernos Proserpina flores (v. 554), mentre raccoglieva i fiori primaverili. Come la Kore scomparve, rapita da Plutone, le Acheloidi la cercarono per tutta la terra, poi vollero volare sul mare sperando di rintracciarla.

  Per questo divennero alate. Ma conservarono volti virginei e voce umana (563), perché non perdessero la facoltà del canto, ille canor mulcendas natus ad auras (561), fatto per incantare gli orecchi. 

Nell’ultimo libro delle Argonautiche di Apollonio Rodio,  Orfeo con il suo canto neutralizza quello delle Sirene appostate sull’isola Antemoessa, usualmente identificata con  degli scogli vicini a Sorrento. Esse sembravano in parte uccelli e in parte giovani donne, incantavano e uccidevano con il loro canto, ma la cetra di Orfeo ebbe la meglio sulla voce delle fanciulle che mandavano suoni indistinti. Soltanto Bute ne fu affascinato e saltò in mare: le Sirene lo avrebbero ucciso, ma lo salvò Afrodite, la dea protettrice di Erice e gli assegnò il promontorio Lilibeo per dimora.  (Argonautiche, 4, 892 sgg.).  Sembra che Apollonio voglia indicare una contrapposizione tra musica benigna e maligna.


 

Ma torniamo al X libro della Repubblica di Platone.

Le anime dunque vedevano l’asse dell’universo.

Le Moire

Sedevano in trono tre persone diverse dalla folla: le figlie di Ananche, le Moire vestite di bianco e con dei serti (stevmmata, 617c) sul capo.

Queste sono Lachesi, Cloto e Atropo che cantavano sull’armonia delle sirene.

 Lachesi cantava ta; gegonovta, il passato, Cloto ta; o[nta, il presente, Atropo ta; mevllonta, il futuro.

Cloto fila la trama della vita-klwvqw=filo

Lachesi dà le sorti-lagcavnw=ottengo in sorte

Atropo è l’inflessibile: quella che non fa tornare indietro: aj privativo e trevpw-

Le tre Moire[4] accompagnavano con la mano i moti del fuso.

Le anime dovettero presentarsi a Lachesi, quella che dà le sorti.

Quindi un portavoce (profhvth~) dispose in fila la folla, poi  prese delle sorti, dei modelli di vita dalle ginocchia di Lachesi.

Infine il profhvth~ , salito su un’alta tribuna, diede voce al pensiero di Lachesi, la vergine figlia di Ananche (   jAnagkh" qugatro;" kovrh" Lacevsew" lovgo~).

 Disse: “Questo è l’inizio di un altro ciclo  di mortalità della razza mortale.

, e non sarà il demone a sorteggiare voi, bensì voi sceglierete il demone 

( “ oujc uJma'" daivmwn lhvxetai, ajll j uJmei'" daivmona aiJrhvsesqe" (617 e).

Chi è sorteggiato a scegliere per primo, prenda per primo la vita cui sarà congiunto”.

Il sorteggio riguardatolo il turno della scelta. Ricevuto il turno, poi la scela è libera tra le sorti rimaste. Questo a parer mio significa che possiamo scegliere solo all’interno del nostro gevno~ i nostri modelli.

 La parola di Lachesi aggiunge che la virtù è senza padrone (ajreth; de; ajdevspoton, 617e) e ciascuno ne avrà di più o di meno, a seconda che la apprezzi o la disprezzi. Responsabile è chi ha fatto la scelta[5], non la divinità” (aijtiva eJlomevnou: qeo;~ ajnaivtio~ (617 e).

Di fatto la scelta che possiamo fare è interna al gevno~: dal quale ricaviamo le predisposizioni. Dobbiamo individuare tra i “maggior nostri” quelli che ci assomigliano di più e sviluppare il meglio di quanto abbiamo preso da loro.

Sentiamo T. Mann a questo proposito: “Figli e nipoti guardano padri e nonni per ammirare e perfezionare quello che è già predisposto dall’ereditarietà”  (La Montagna incantata, p. 36)

 

 

Riferite queste parole, il portavoce di Lachesi gettò le sorti con il turno della scelta, e ognuno tirò su quella che aveva vicino. Er non poté farlo.

Quindi il prfhvth~ mise in terra davanti a loro svariati modelli di vite: umane e di animali.

C’erano vite di tutti i tipi, e anche mescolanze di tipi.

Il profhvth~ aggiunse che anche chi sceglieva per primo non doveva essere negligente e l’ultimo  non doveva scoraggiarsi ma scegliere con senno: mhvte oJ a[rcwn aiJrevsew~ ajmeleivtw mhvte oJ teleutw`n ajqumeivtw (619b).

 

 

 Socrate che fa questo racconto dice a Glaucone che bisogna studiare soprattutto come  scegliere la migliore tra le vite possibili.

Buona è la vita che tende alla giustizia, cattiva quella che va verso l’ingiustizia. Bisogna essere refrattari a lasciarsi colpire dalle ricchezze e da simili malanni come la tirannide. Bisogna fuggire tutti gli eccessi in entrambi i sensi (feuvgein ta; ujperbavllonta eJkatevrwse, 619).

 

.

 

 

Er raccontò che il primo scelse la tirannide senza accorgersi che questa racchiude il destino di mangiare i propri figli e altre sciagure. Poi se ne avvide e si mise a piangere. Quest’uomo veniva dall’apertura nel cielo poiché aveva vissuto la vita precedente in uno Stato bene ordinato praticando la virtù, per abitudine, senza filosofia (e[qei a[neu filosofiva~, 619d).

Era più facile che scegliessero precipitosamente e sbagliassero quelli scesi dal luogo beato, in quanto inesperti di travagli (a{te povnwn ajgumnavstou~), mentre quelli che venivano dalla terra, siccome erano tribolati e avevano visto altri soffrire, non facevano la scelta ejx ejpidromh`~ in modo affrettato.

Di nuovo il tw`/ pavqei mavqo~.

Così c’era una permuta di beni e di mali.

Ma se uno in vita filosofa, poi la sua scelta non cade tra le ultime, è facile che quest’uomo abbia due buone vite di seguito.

Comunque, dice Er, lo spettacolo era degno di essere visto, uno spettacolo pietoso, ridicolo e meraviglioso (qevan ajxivan ijdei`n kai; geloivan kai; qaumasivan, 620).

 

Vediamo però che  la scelta non è però del tutto libera siccome è condizionata dalle quantità di sorti rimaste disponibili quando tocca  scegliere  a ciascuno secondo il  numero d’ordine raccolto in precedenza. Inoltre le anime erano condizionate  dalle esperienza fatte nella vita precedente.

 Vediamo come.

.

Aiace Telamonio scelse la vita di un leone poiché rifuggiva dal nascere uomo in quando ricordava il giudizio delle armi (620b).

Agamennone, per avversione al genere umano, scelse la vita di un’aquila.  Orfeo, scelse la vita di un cigno non volendo nascere da grembo di donna mivsei tou` gunaikeivou gevnou~ , in odio del genere femminile per la morte  sofferta dalle donne[6]. 

Un cigno al contrario scelse la vita di un uomo.

Atalanta, visti i grandi onori ricevuti dagli atleti, scelse la vita di in atleta.

Il buffone Tersite scelse la natura di una scimmia.

L’anima di Odisseo, prese la sorte per ultimo e, guarito da ogni ambizione per il ricordo dei travagli precedenti, scelse la vita di un uomo privato e amante del quieto vivere ("bivon ajndro;" ijdiwvtou ajpravgmono"", Repubblica  620c).

La trovò messa da parte e negletta dagli altri, ma disse che l’avrebbe presa anche se avesse dovuto fare la scelta per primo.

 

Nell’asino d’oro di Machiavelli c’è un uomo che trasformato in porco da Circe vuole rimanere tale e risponde:

“Voi, infelici assai più che non dico,

gite cercando quel paese e questo,

non aere per trovar freddo od aprico

ma perché l’appetito disonesto

de l’aver non vi tien l’animo fermo

nel viver parco, civile e modesto;

e spesso in aere putrefatto e infermo,

lasciando l’aere buon, vi trasferite;

non che facciate al viver vostro schermo.

Noi l’aere sol, voi povertà fuggite,

cercando con pericoli ricchezza,

che v’ha del bene oprar le vie impedite” capitolo VIII

 

Nell' VIII canto Eneide la decadenza delle età è collegata alla guerra e alla volontà di impossessarsi delle ricchezze:"Aurea quae perhibent illo sub rege fuere/saecula: sic placida populos in pace regebat,/deterior donec paulatim ac decŏlor[7] aetas/et belli rabies et amor successit habendi " (VIII, 324-327), i secoli d'oro di cui si narra furono sotto quel re[8]: così reggeva i popoli in placida pace, finché un poco alla volta succedette l'età scolorita e la furia di guerra, e l'amore del possesso.

 

 

 

Quindi Lachesi diede a ciascuno come custode (fuvlaka) il demone (daivmona, 620d) che si era scelto. Poi Cloto  Atropo e Ananche confermavano le scelte e le rendevano immutabili.

In seguito le anime  venivano portate  attraverso una terribile calura e arsura fino al fiume Amelete perché ne bevessero l’acqua. Una certa misura era obbligatoria. I meno prudenti ne bevevano più della misura (plevon tou` mevtrou, 621) e mentre bevevano scordavano tutto. Infine si addormentavano, scoppiava un tuono e le anime venivano spinte a una nuova nascita cui si lanciavano come stelle cadenti.

 A Er era stato impedito di bere e non sapendo come, si era trovato il mattino sulla pira. Socrate commenta il mito con poche parole dicendo che per entrare nell’apertura e nella via che va in alto bisogna praticare sempre la giustizia in modo da essere cari a noi stessi e agli dèi qui in terra e dopo, nel viaggio millenario di cui si è detto (621d)

 

Questo mito è un’immagine concentrata del nostro destino di mortali. A me piace molto, e pur essendo una fantasia, credo che la sua bellezza contenga anche una verità: che noi dobbiamo vivere in sintonia con il nostro daivmwn che è il destino ed è pure il carattere.

Eraclito  con il suo stile ieratico e lapidario insegna che l’uomo e il suo destino coincidono: h\qo~ ajnqrwvpw/ daivmwn[9]”.

 

Se davvero noi abbiamo scelto sia pure con delle limitazioni, il verso di questa vita prima di nascere, non lo so. So però che ciascuno di noi eredita delle predisposizioni e che sta in ciascuno di noi assecondarle o contrastarle secondo la direzione  (trovpo~) che intendiamo dare alla nostra vita. Voglio fare notare che la parola greca trovpo~ significa tanto “verso”, “direzione”, quanto carattere.

Il nucleo dell’infelicità è tradire il proprio destino. Se  veniamo rinnegati dal nostro demone, non c’è scampo all’infelicità.

 

"Qui, proprio qui, sta l'origine dell'infelicità…Avvertiamo allora lo squilibrio tra il nostro essere in potenza e il nostro essere in atto. E questa, questa è l'infelicità"[10].

"Molti provavano, per un istante, una penosa tristezza perché tra la loro vita e i loro istinti c'era un tale dissidio, un tal conflitto che la loro vita non era affatto una danza, bensì un faticoso e affannato respirare sotto i pesi: pesi che in fin dei conti essi stessi si erano accollati"[11].

 

Sconcio in greco si dice  ajeikhv~, ossia non eijkov~ che è la cosa  neutra che non assomiglia, è l’uomo oggetto non somigliante a se stesso.

Ognuno deve individuare il proprio destino, o ricordarlo secondo il mito di Er, quindi amarlo poiché ciascuno è il proprio destino e l’uomo, se vuole realizzarsi,  deve diventare quello che è.

Lo prescrive la somma del pensiero educativo di  Pindaro: “gevnoio oi|o~   ejssiv” (Pitica II  v. 72), diventa quello che sei.

 

Sentiamo anche Nietzsche

Il necessario non mi ferisce; amor fati è la mia intima natura, das ist  meine innerste Natur[12].

  

“L’individuo è un frammento di fato da cima a fondo”[13].

"Il fatalismo turco contiene l'errore fondamentale di contrapporre fra loro l'uomo e il fato come due cose separate…In verità ogni uomo è egli stesso una parte di fato…Tu stesso, povero uomo pauroso, sei la Moira incoercibile che troneggia anche sugli dèi"[14].

 

Inoltre: "La nostra origine è nei miti: tutti i miti sono di origine"[15].

Può trattarsi dell’origine di un’usanza, di un nome, di un culto, di una città, come spesso nella poesia ellenistica, ma può riguardare anche la nostra genesi di persone.

 

Il mito di Er dell’ultimo libro della Repubblica di Platone ci ricorda che prima di venire sulla terra ci siamo scelti un daivmwn, che è carattere e destino. Eujdaimoniva, felicità è, etimologicamente, l’accordo con il proprio daivmwn. Se non  ricordiamo, non  riconosciamo e non  assecondiamo quel daivmwn liberamente scelto, saremo infelici e saremo colpevoli della nostra infelicità: “aijtiva eJlomevnou: qeo;~ ajnaivtio~” (Repubblica, 617e), responsabile è chi ha fatto la scelta, il dio non lo è. E’ quello del resto che afferma già Omero, attraverso Zeus nel primo canto dell’Odissea: “ Ahimé, come ora davvero i mortali incolpano gli dèi!/ da noi infatti dicono che derivano i mali, ma anzi essi stessi/per la loro stupida scelleratezza hanno dolori oltre il destino" (vv. 32-34).

 Durante la vita terrena  "ci resta accanto un compagno, una specie di angelo custode o spirito guida: il Daimon, il modello del nostro destino, che in qualche modo ci aiuta e indirizza al compimento di quella scelta che inizialmente proprio noi avevamo fatto, ma che abbiamo dimenticato. Poiché il mito di Er, come lei accennava prima, è alla base del suo Codice dell'anima…Lei ha citato uno dei miti sul perché esiste il dolore: il Daimon ci mette di fronte le richieste del destino e noi recalcitriamo"[16].

"Poiché la felicità alla sua antica fonte era eudaimonia, cioè un daimon contento, soltanto un daimon che riceve ciò che gli spetta può trasmettere un effetto di felicità all'anima"[17].

 

Fine mito di Er Pesaro 30 settembre 2024 ore 10, 42 giovanni ghiselli

 

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[1] 403d, Sono le sirene ctonie evocate già nella parodo dell’Elena di Euripide dove Elena intona  il primo  canto   cui risponde il coro di donne greche rapite dai corsari e vendute come schiave in Egitto.  La figlia di Zeus dunque chiama le Seirh`ne~  (v. 169)  pterofovroi neanivde~ ragazze alate (v. 167), vergini figlie della terra parqevnoi Xqono;~ kovrai (v. 168): le invita a venire compagne ai suoi  gemiti con il flauto libico o le zampogne ,  lacrime, canti di pianto accordati con i suoi   desolati lamenti, dolori per dolori, canti per canti . Le Sirene erano rappresentate nei monumenti funebri ndr

[2] Nella mito di Er della Repubblica, Platone racconta che  l’asse dell’universo, si volgeva sulle ginocchia di Ananche e che il fuso era bilanciato da otto fusaioli, emisferi concentrici su ognuno dei quali incedeva una sirena, tratta anch’essa nel moto circolare, e da tutte otto che erano  risuonava una sola armonia ( ejk pasw`n de; ojktw;  oujsw`n mivan aJrmwnivan sumfwnei`n, 617b)

 

[3] P. Boitani, L’ombra di Ulisse, pp. 27-28

[4] Cfr. lagcavnw “ricevo in sorte”, klwvqw, “filo” e trevpw “volgo” preceduto da aj- privativo, quindi l’inflessibile.

 

[5] E’ l’afferrmazione della responsabilità degli uomini, già fatta da Zeus nel primo canto dell’Odissea:"Ahimé, come ora davvero i mortali incolpano gli dèi! Da noi infatti dicono che derivano i mali, ma anzi essi stessi per la loro stupida presunzione hanno dolori oltre il destino. Così anche ora Egisto oltre il destino si prese la moglie legittima dell’Atride, e lo ammazzò appena tornato,

pur sapendo della morte scoscesa, poiché gliela predicemmo noi,

mandando Ermes, l’Argifonte dalla vista acuta,

di non ammazzarlo e di non corteggiarne la sposa:

infatti da Oreste ci sarà la vendetta dell’Atride,

quando sia adulto e desideri la sua terra.

Così diceva Ermes, ma non persuadeva la mente

Di Egisto, pur pensando al suo bene; e ora tutto insieme ha pagato” (vv. 32-43).

 

[6] Cfr. Virgilio, Georgica IV: spretae Ciconum quo munere  matres-inter sacra deum nocturnique orgia Bacchi-discerptum latos iuvenem sparsere per agros” ( vv. 520-522) spregiate da questa fedeltà (a Euridice)) le donne dei Ciconi  fra riti religiosi e le orge di Bacco notturno, sparsero per i vasti campi  il giovane fatto a pezzi.

[7] Nell’Oedipus di Seneca la Tebe ammorbata dagli scelera del re  è colpita dall’aridità, dalla siccità e pure dallo scolorimento che significano sterilità e morte:"Deseruit amnes humor atque herbas color,/aretque Dirces; tenuis Ismenos fluit,/et tingit inǒpi nuda vix undā vada "(Oedipus, vv.41-43), l'acqua ha lasciato i fiumi e il colore le erbe, è disseccata Dirce; l'Ismeno scorre vuoto, e con la povera onda bagna a stento i guadi nudi. La malattia toglie umore e colore alla vita prima di annientarla: "Il sole della peste stingeva tutti i colori e fugava ogni gioia" A. Camus, La peste, p. 87.

[8] Saturno (cfr. redeunt Saturnia regna di Bucolica IV, v. 6) che diede alla terra dove si era rifugiato il nome di Latium , "his quoniam latuisset tutus in oris " (Eneide, 8, v. 323), poiché era rimasto latitante sicuro in queste contrade. 

[9] Fr. 91 Diano, il carattere è il destino dell’uomo

 

[10] J. Ortega y Gasset, Meditazioni sulla felicità, p. 42.

[11] H. Hesse, Klein e Wagner, p. 126.

[12] F. Nietzsche, Ecce homo (del 1888), Il caso Wagner,  p. 92.

[13] Crepuscolo degli idoli, Morale contronatura 6.

[14]Nietzsche, Umano troppo umano ,. II, Il viandante e la sua ombra, pp.. 155-156. Uscito nel 1878. “Fu concepito come una quinta “considerazione inattuale”, intitolata Il vomere,, ma poi fu trasformato nel libro di aforismo che conosciamo” (S. Giametta, Introduzione a Nietzsche, p. 236).

[15] J. Hillman, Il piacere di pensare, p. 52.

[16] James Hillman, Il piacere di pensare. conversazione con Silvia Ronchey, pp. 53-54.

[17] J. Hillman, Il codice dell'anima , p. 112.