giovedì 4 giugno 2020

"La morte di Empedocle... Pardon, di Hölderlin!" di Giuseppe Moscatt

Friedrich Hölderlin

Giuseppe Moscatt
La morte di Empedocle.... Pardon, di Hölderlin!

Il 20 marzo del 1770 nasceva a Lauffen am Neckar - un piccolo paese nei pressi di Stoccarda - uno dei sei più grandi poeti della Germania, Friedrich Hölderlin (per la cronaca, gli altri cinque furono Goethe, Schiller, Klopstock, Weiland e Lessing, graduatoria fissata dal Mommsen e dal nostro De Sanctis). E a duecentocinquanta anni dalla nascita, non poteva mancare all'appello delle ricorrenze anche questa. Naturalmente, un fiume di poesie e di scritti costella la sua produzione letteraria e dunque se non fosse per il corona virus, avremmo l'imbarazzo della scelta nel segnalare i numerosi momenti celebrativi. Quel dannato virus li ha sospesi e dunque occorrerà fare una cernita delle ragioni per cui lo si ricorda. Cominciamo dalla biografia, considerato che l'unità di vita e di opere è la carta d'identità di ognuno di quei sei geni che tutta l'Europa invidia alla Germania, ma che ormai è patrimonio comune dell'Umanità. Il biografo cui attingiamo è uno scrittore nondimeno famoso per la biografia di grandi tedeschi, Stefan Zweig, la cui opera meriterebbe uno studio a parte. Il libro di riferimento è “Hölderlin, la lotta col demone” del 1925, recante nel frontespizio due versetti dell'incompiuta tragedia “La morte di Empedocle” del 1799. Qui Zweig non solo apre con “poiché il mortale difficilmente riconosce i geni..." ma anche fa seguire “notte e gelo sarebbero sopra la terra, e nell'angoscia l'anima si struggerebbe, se di tempo in tempo non mandassero gli Dei siffatti giovani a rinnovar la vizza vita umana”. E' nel primo capitolo che Zweig si lancia in una suggestiva ode sulla magnifica schiera di eroi che lo precede, lo accompagna, con cui muore e che dopo un paio di secoli e mezzo lo rendono vivo fra noi. Lo anticiparono Robespierre, Desmoulins, Voltaire, Rousseau, Leibniz, Kant, Haydn, Wieland, Mozart. Lo accompagnarono Keats, Byron, Schiller, Novalis, Kleist, Puškin, Foscolo, Leopardi e Bellini. Muoiono poco prima di Lui tutti questi geni, Napoleone fra loro, nonché una miriade di giovani che cantavano in tutte le lingue la grandezza della natura e il loro dolore. Ultimo a morire, isolato nel bosco dei ricordi, il vecchio Goethe, come Merlino che riconosce e legittima il giovane Artù. E di ciò, Zweig fa memoria e paragone. Lo chiama “ultimo efebo della grecità tedesca”. E di tale splendida eternità poetica, illuminata dalla fede dell'uomo, oggi abbiamo veramente bisogno. Ma al di là della retorica – benché suggestiva! - presentazione dall'autore austriaco, la vita di Hölderlin sembra aderire al modello romantico, mentre l'opera è spiccatamente classica.
A collocarlo fra i romantici è il principe dei critici letterari germanisti, Ladislao Mittner. Poesie alla mano, questi cita “l'arcipelago” - tre parti, l'arcipelago dell'Egeo, come immagine di una nature cosmica letta in modo panteistico; la grande età ateniese di Pericle; l'oggi di Hölderlin, aperto alla cultura greca che diviene il modello della vecchia Alemagna. "Heidelberg", peraltro, rappresenta la città immersa nella natura, simbolo della vittoria sullo scorrere del tempo. La buona battaglia che il poeta combatté con la sua esistenza, certo della vittoria sulla natura, con la quale intreccia un mitico dialogo di eterna pace esteriore per mitigare le interne inquietudini. Ma la sua appartenenza al romanticismo, sia pure in embrione, non solo è magnificata dallo splendido inizio della biografia di Zweig or ora citata; ma anche dai commenti di Jorge Mario Bergoglio, che lo ha affascinato fin dalla sua gioventù, tanto da citarlo spesso nelle omelie da arcivescovo di Buenos Aires. Sicuramente, uno dei segnali che lo avvicinano al mondo di Manzoni e perfino a Leopardi per lo svuotamento di Dio (Gottlosigkeit) e la sua costante ricerca di ciò che è sacro (das Heilige), che a Hölderlin pare ritrovare proprio nella libertà di poetare fuori da schemi precostituiti. In fondo, l'eroe più simile al poeta che morì nella famosa torre di Tubinga, povero e pazzo, è proprio il filosofo Empedocle, un eroe vinto la cui morte tragica è la sua vittoria. E Bergoglio non poteva non vedere in Lui quel Cristo sulla croce per cui Francesco ora prega e spera.
Del resto, la straordinaria sensibilità dell'uomo che soffre, ma che ritrova pace nella contemplazione della natura, emerge nelle "Parche": “Concedetemi solo un'estate, voi potenti! E' un Autunno, per fare maturo il mio canto perché più bramoso è il cuore, di dolce gioco saziato, allora mi annoio... ma se un giorno a me il sacro che ho in cuore, la poesia, riuscirà, sia benvenuta, allora, quiete del regno d'ombra! Sarò contento anche se la mia cetra laggiù non mi avrà accompagnato; sarò vissuto una volta, come gli dei e di più non occorre”. Era il 1799. aveva quasi 30 anni e un amore apparentemente conquistato, anche se fra poco sarà soltanto un mito, un'elegia greca, per una Diotima ormai idealizzata che mai lo amò veramente. Chi era costei? Andiamo cono ordine. Dalle sue varie biografie - ma anche da quanto emerge da varie lettere ad amici che solo nel '900 il circolo di George ritrovò negli archivi comunali di Francoforte e che il giovane poeta von Hellingrath riuscì a far pubblicare prima di morire sul fronte occidentale a Verdun - lo vediamo provenire a 25 anni da esperienze familiari non favorevoli: un padre poco conosciuto, una madre tirannica, un secondo padre assente, la forzata predestinazione all'ufficio di pastore luterano. Nel collegio teologico di Tubinga, suonò il violino, studiò con Schelling e Hegel e non fu come loro mai convinto dell'imperante teismo antilluminista e anticlassico che gli si impartiva. Piuttosto, come fece il quasi contemporaneo von Platen, lesse tutti i poeti greci nella loro lingua e assunse nel suo animo uno spirito libertario pari a quella di Schiller, già noto fra i giovani intellettuali. L'unico contemporaneo che lo attirò fu Rousseau - sul quale scrisse un’ode alcaica nel 1798 - e il cui pensiero politico troppo aulico lo allontanò dai due giovani amici, ma che lo portò a Jena, non appena fu abilitato ad essere pastore.
Poetava e pregava un Dio che non era quello che gli era stato proposto. Amava quegli dei omerici che che lo rimettevano in pace con la natura, già in attesa di un nuovo vero e unico, il Dio cristiano, fuori dalla devozione falsa e pietista del Collegio, contro quell'ufficio concreto di Pastore che non si sentiva di esercitare come voleva. In una lettera all'amico editore Sternkopf, confessava la sua vera fede in Cristo, che gli aveva conciliato cuore e ragione, reale e ideale, cultura e natura. L'unificazione di tutti i saperi dell'Io attraverso la poesia classica, di cui aveva imparato il verseggio da Pindaro e Alceo, in una continuità verso il Bene Supremo, aderendo a quel panteismo spinoziano che aveva affascinato il primo Goethe e che credeva di aver ritrovato nel titanismo eschiliano, dove l'uomo signoreggiava la Natura. Distacco dalla realtà che gli imponeva però di mettere i piedi a terra. Giunse allora a Francoforte, nel 1796, su segnalazione del Goethe e divenne precettore in casa del ricco banchiere Gontard e della bella moglie Susette, di appena 26 anni e di trenta anni più giovane del marito. Qui visse per un triennio, conobbe l'amore, ma la pace poetica presto gli venne meno. Susette - la Diotima delle sue varie poesie d'amore, presa a modello da simposi platonici - era molto più carnale di quell'esempio. Voleva un amante sul serio e non un declamatore teorico troppo platonico per i suoi gusti. Hölderlin peraltro non era certamente un ipocrita doppiogiochista, quanto un novello Giuseppe insensibile alle profferte della moglie del padrone di turno. Gontard mal sopportava quel cicisbeo e Susette lo fece licenziare. Umiliato e offeso nella sua onestà di amante platonico, pieno di profonda coerenza morale, passò gli altri 47 anni della sua vita fra la madre che a Lauffen dove spesso si rifugiava e Bad Homburg vor der Höhe (Assia occidentale), dove tentò con scarso successo di rifarsi una vita, straziata nel suo personalissimo senso di amore.
Morì a Tubinga, isolato, poverissimo e folle in cima ad una torre, oggi suo mausoleo. Qui tentò di concludere una delle sue opere maggiori, che lo rende famoso anche nelle nostre terre siciliane, descrivendo la fine del filosofo agrigentino Empedocle, di cui Hölderlin si sentiva attratto fin dalle giornate di studio matto e disperato sui classici, come aveva fatto il giovane leopardi. Il mito della morte di Empedocle era noto: cacciato per indegnità politica degli abitanti di Agrigento, solo perché non era stato attratto dalla arroganza del potere, né per avere approfittato egoisticamente degli eccessi del governare, Empedocle si sarebbe gettato nella bocca dell'Etna, sacrificandosi come Socrate - e come Cristo! - in modo da indurre il popolo a rinsavirsi e a crederlo un Dio immortale, il Dio del Vero, del Buono e del Bello, un mito di pace e giustizia idonea alla Resurrezione dell'uomo nella valle di lacrime che è la storia quotidiana. Mito che aveva rivissuto sulla sua carne infelice, quando morì alla vita di fronte alle menzogne dell'amata e all'ira del banchiere che non aveva compreso l'animo turbato e infelice del poeta. Una sublimazione dell'artista, direbbe Freud, se avesse conosciuto le ultime lettere di Hölderlin ancora oggetto di nuovi studi. Che dire oggi di questo grandissimo poeta? Appare ormai la profonda religiosità della sua poesia che riguarda il Divino e l'Uomo. Per Lui la poesia pura in sé lo pone in relazione con l'Altro. Poetare è il suo vivere isolato nel mito, adoperando un linguaggio alternativo assoluto per il moderno, risalendo appunto alla grecità leggendaria. Dunque, nostalgia degli Dei, ma melanconia per un passato mai più ripetibile. E qui il legame con la Germania, pallido sole, o meglio “pallida madre” - come disse Brecht “come insozzata sia fra i popoli! Fra i segnati d'infamia tu spicchi..." Un tremendo messaggio che risuona gravido di responsabilità in un Europa attualmente attraversata da sinistre visioni e da scenari sociali gravidi di catastrofi.

Giuseppe Moscatt

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