giovedì 25 giugno 2020

Consigli per l'esame di maturità. Parte 24. Gli abbracci impossibili


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Premessa
La conta degli insegnanti quali numeri. “Sono circa 100 mila gli insegnanti in più che sarebbero necessari da settembre secondo le stime della commissione Bianchi”.
E subito sotto: “Le Regioni: Più docenti e chiarezza sulle responsabilità”.
 (“la Repubblica” di oggi, 25 giugno 2020, p. 20)
Non una parola sulla preparazione, la cultura, la capacità educativa di questi 100 mila in più, su come verificarla. Si vogliono mandare allo sbaraglio docenti e discenti con il rischio che niente si insegni e nulla si impari.
Io proseguo con la pubblicazione nel mio blog della metodologia preparata quando nella SSIS, tra il 2000 e il 2010 a Bologna, nel 2007 anche a Bressanone, poi nel 2013 nel TFA di Urbino, dovevo chiarire ai giovani laureati in lettere come insegnare nei licei in modo da farsi ascoltare e invogliare i giovani a leggere le opere presentate, a studiarle.
Bisogna fare capire, e sentire, ai giovani che la cultura potenzia la loro natura.
Successivamente l’ho presentata in decine di scuole dove sono stato invitato. Ora la ripresento, certo che può essere ancora utile a molti, a maggior ragione in questo periodo più difficile che mai.

L’abbraccio e l’addio frustrati dalla spietatezza del mondo dei morti: Odisseo e la madre Anticlea; Orfeo e Euridice nella quarta Georgica; Enea e la moglie Creusa; Enea e il padre Anchise nell’Eneide; Orfeo e la delicatezza di Euridice nelle Metamorfosi di Ovidio. Dante e Casella.

Topos gestuale dei morti, o riservato ai morti, è l’abbraccio e l’addio frustrati dalla spietatezza del mondo infero: Odisseo racconta che si lanciò tre volte (tri;~ me;n ejformhvqhn), spinto dallo qumov~, ad abbracciare la madre evocata dall’Ade, ma ella, skih'/ ei[kelon h] kai; ojneivrw/ - e[ptat j (Odissea, 11, 206 - 208) simile all’ombra o anche al sogno, volò via. Tuttavia Anticlea ha la possibilità di rispondere al figlio desolato che la invoca, di salutarlo e benedirlo.

Più spietato è il mondo dei morti[1] che rinchiude Euridice: ella non può rispondere nemmeno con le parole al vano tentativo compiuto da Orfeo di abbracciarla: “Dixit et ex oculis subito, ceu fumus in auras/commixtus tenuis , fugit diversa neque illum/prensantem nequiquam umbras et multa volentem/dicere praeterea vidit; nec portitor Orci/amplius obiectam passus transire paludem” (Georgica IV, 499 - 503), disse, e dagli occhi all’improvviso, come fumo confuso in arie impalpabili, fuggì all’indietro né vide lui che cercava di afferrare invano gli aspetti dell’ombra e molte parole ancora voleva dire; né il traghettatore dell’Orco permise che attraversasse più l’interposta palude.

Il topos dell’abbraccio negato si ripresenta nell’Eneide, due volte. La prima si trova alla fine del secondo canto che racconta la caduta di Troia. Il mesto fantasma, l’ombra della donna Creusa (infelix simulacrum atque ipsius umbra Creūsae, II, 772) sparita, appare a Enea che la cercava, e lo invita a partire, seguendo il suo destino di successi con una nuova sposa, regale. Lei, la madre di Ascanio, rimarrà sulle coste troiane trattenuta da Cibele, la magna deum genetrix (v. 788). Dette queste parole, la donna sparì: “haec ubi dicta dedit, lacrimantem et multa volentem/dicere deseruit tenuisque recessit in auras.” (II, 790 - 791). Come ebbe detto queste parole, mi lasciò che piangevo e volevo dire molte parole, e scomparve nelle arie impalpabili. Allora Enea fece il tentativo topicamente vano: “Ter conatus ibi collo dare bracchia circum;/ter frustra comprensa manus effugit imago,/par levibus ventis volucrique simillima somno”. (vv. 792 - 794), tre volte tentai allora di stringerle al collo le braccia; tre volte l’immagine invano afferrata sfuggì alle mani, uguale ai venti leggeri e del tutto simile al sogno fugace.
Gli stessi versi sono ripetuti nel sesto canto (v. 700 - 702), a proposito dell’abbraccio di Anchise, invano desiderato e richiesto tra le lacrime: “ ‘Da iungere dextram,/ da, genitor, teque amplexu ne subtrahe nostro’. Sic memorans largo fletu simul ora rigabat” (Eneide, 6, vv. 697 - 699), dammi la destra da stringere, dammela, padre, e non sottrarti al nostro abbraccio. Così dicendo, nello stesso tempo rigava il volto con pianto copioso.

Poi ci sono l’Orfeo e l’Euridice delle Metamorfosi di Ovidio. In questo poema il cantore trace volse indietro lo sguardo innamorato, per brama di vederla e per paura che lei si perdesse (ne deficeret metuens avidusque videndi 10, 53) nel sentiero che avevano preso in salita, in silenzi privi di parola, scosceso, oscuro, denso di nebbia fitta (“ Carpitur adclivis per muta silentia trames/arduus, obscurus, caligine densus opaca”, vv. 53 - 54).
Leggiamo i versi che descrivono la situaziono topica, ma vengono rinnovati dalla delicatezza di Euridice la quale non si lamenta poiché un’amante non può lamentarsi di essere amata: “flexit amans oculos: et protinus illa relapsa est/bracchiaque intendens prendique et prendere certans/nil nisi cedentes infelix adripit auras./Iamque iterum moriens non est de coniuge quicquam/questa suo (quid enim nisi se quereretur amatam?)/supremumque “vale”, quod iam vix auribus ille/acciperet, dixit revolutaque rursus eodem est” (X, vv. 56 - 63), girò indietro gli occhi l’amante: e subito lei cadde, e sebbene lui tendesse le braccia lottando per essere preso e prendere, nulla afferrò l’infelice se non soffi fugaci. E lei mentre già moriva per la seconda volta non emise un lamento sul coniuge suo[2] (di che cosa infatti si sarebbe lamentata se non di essere amata?) e gli disse l’ultimo “addio” che oramai quello appena prendeva nelle orecchie, poi cadde di nuovo nel luogo di prima.
Torneremo sulla delicatezza di Ovidio in un capitolo successivo (62).
Infine ricordo Dante che tenta di abbracciare Casella sulla spiaggia del Purgatorio: “Ohi ombre vane, fuor che nell’aspetto!/Tre volte dietro a lei le mani avvinsi,/e tante mi tornai con esse al petto” (Purgatorio, II, 79 - 81). 

giovanni ghiselli




[1] Sentiamo qualche testimonianza sulla spietatezza attribuita ai morti e la spiegazione che ne dà Freud. Sempre nella Georgica IV, Orfeo, preso da improvvisa pazzia (subita… dementia , v. 488) si era voltato per guardarla, rompendo i patti del crudele tiranno (immitis rupta tyranni/foedera, vv. 492 - 493), ossia di Plutone. Ebbene tale dementia sarebbe stata da perdonare se i Mani sapessero perdonare: “ignoscenda quidem, scirent si ignoscere Manes” (v. 489). Nell’Edipo re i morti non ricevono e non sentono compassione: “"E la città muore senza tenere più conto di questi/e progenie prive di pietà giacciono a terra portatrici di morte senza compassione" (vv.179 - 181). Probabilmente i morti ci danno sensi di colpa. Nell’Eneide Ilioneo, scampato al naufragio, chiedendo la compassione di Didone, che la concederà, le dice di essere uno dei compagni di Enea, re giusto e valoroso, e di non sapere se l’eroe troiano si nutra ancora del soffio dell’etere o se sia giaccia crudelibus…umbris (I, 547), tra gli spettri crudeli. 
Come si spiega questa spietatezza attribuita ai morti? Lo chiarisce Freud in un capitolo di Totem e tabù (del 1913) intitolato “Il tabù dei morti”. L’autore ricorda alcuni studiosi unanimi nell’attribuire ai selvaggi la credenza dell’ostilità dei morti: “La premessa che sta alla base di questa teoria, è che il membro della famiglia che si è amato, al momento stesso della morte, si trasforma in un demone dal quale i congiunti che gli sono sopravvissuti non possono aspettarsi altro che ostilità e dai cui intenti malvagi devono in tutti i modi guardarsi. Tale concetto è così singolare e sconcertante, che da principio si è portati a non prestarvi fede. Tuttavia quasi tutti i più eminenti studiosi sono unanimi nell’attribuire ai selvaggi questa credenza” (Totem e tabù, p. 87). Riferisco solo uno degli studiosi citati da Freud: “Supporre che i defunti più cari si trasformino dopo la morte in demoni pone ovviamente un ulteriore interrogativo. Quali furono le ragioni che indussero i popoli primitivi ad attribuire ai loro morti più cari un così profondo mutamento di sentimenti? Perché li trasformano in demoni? Westermarck ritiene che la risposta a tali domande sia facile :“Poiché nella maggior parte dei casi la morte è considerata come il peggiore dei mali, si pensa che i trapassati debbano essere profondamente infelici per la sorte che è loro toccata. Secondo la concezione dei popoli primitivi, la morte è sempre violenta, sia per mano altrui, sia ottenuta per magia, e già questo basta a far immaginare l’anima del trapassato come carica di rabbia e desiderosa di vendetta. Presumibilmente essa invidia coloro che sono ancora in vita e ha grande nostalgia della compagnia dei suoi cari di un tempo - è quindi comprensibile ch’essa miri a ucciderli con le malattie, per potersi riunire a loro… Un’ulteriore spiegazione della malvagità che si attribuisce alle anime dei morti la si deve ricercare nella istintiva paura che essi ispirano, la quale è a sua volta il risultato dell’angoscia che si prova di fronte alla morte” (E. Westerrmarck, The Origin and Development of the Moral Ideas, p. 426. ). Quindi Freud torna a scrivere in prima persona: “Quando la morte strappa il marito a una donna, o la madre a una figlia, non di rado accade che la persona sopravvissuta sia sopraffatta da dubbi tormentosi, che noi usiamo chiamare “rimproveri ossessivi”, e si domandi se non sia colpevole, per negligenza o imprudenza, della morte della persona cara…L’esame psicoanalitico dei casi ci ha insegnato a scoprire le molle segrete di questa sofferenza. Abbiamo potuto constatare che i rimproveri ossessivi sono, in certa misura, giustificati e soltanto perciò resistono a tutte le obiezioni e le confutazioni. Ciò non significa ovviamente che la persona in lutto sia realmente colpevole della morte della persona cara o davvero abbia commesso quelle negligenze o trascuratezze, come il rimprovero ossessivo afferma: vi era comunque in lei qualcosa, un desiderio inconscio che non si opponeva a quella morte…Tale ostilità, presente nell’inconscio, ma celata dietro un caldo sentimento di amore, si trova in quasi tutti i casi di intenso legame affettivo con una determinata persona, e rappresenta il caso classico, il modello dell’ambivalenza delle emozioni dell’uomo…Il processo si chiude per mezzo di un particolare meccanismo che in psicoanalisi si usa chiamare proiezione. L’ostilità…viene proiettata sul mondo esterno, quindi staccata dalla propria persona per essere attribuita all’altra. Non siamo più noi, i vivi, a essere contenti di esserci sbarazzati del defunto; no, al contrario, noi piangiamo la sua perdita, ma il defunto è intanto stranamente diventato un demone cattivo che gioirebbe della nostra infelicità e che è pronto a portarci la morte. I supersiti devono quindi difendersi da questo nemico malvagio; in questo modo si sono liberati da un’oppressione interiore, soltanto per scambiarla con un’angoscia che viene dall’esterno”(Totem e tabù, pp. 90 - 91 e p. 94).
[2] Si pensi alla moglie della satira sesta di Giovenale: quando si trova sulla nave dove l’ha fatta salire il marito, gli vomita addosso, se invece segue l’amante, sta bene di stomaco, pranza in mezzo ai marinai, passeggia per la poppa e gode nel maneggiare le dure funi: “quae moechum sequitur, stomacho valet; illa maritum/convomit; haec inter nautas et prandet et errat/per puppem et duros gaudet tractare rudentis” (vv. 100 - 102)

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