sabato 6 giugno 2020

Chi sono i ragazzi della bicicletta

in bici verso l'Ungheria, 2011
I ragazzi della bicicletta siamo noi che facciamo da 40 e più anni le vacanze estive, e ci spostiamo comunque, in ogni stagione e quasi sempre pedalando il nostro veicolo a due ruote.

Leggo nel solito quotidiano: “Pedalando con i ragazzi di Greta” ‘Il vero virus è l’inquinamento’ ” (“la Repubblica" 6 giugno 2020, p. 13)
E’ la cronaca di un raduno di ciclisti a Milano. Alcune osservazioni accolte dal cronista Ettore Livini sono giuste. Ne trascrivo e condivido due in particolare: “ La pandemia è l’effetto e l’inquinamento è la causa” (…) “Molti dei morti di Covid in Lombardia sono mancati perché avevano i polmoni già danneggiati dall’aria che respiriamo tutti i giorni”. 

Non mi piace invece “i ragazzi di Greta” del titolo.  Se si tratta dell’adolescente svedese, non credo che abbia alle spalle un curriculum di decine di migliaia di chilometri in bicicletta, non può averlo, se non altro per l’età. Le parole dei giornali dovrebbero aderire ai fatti. Benemeriti e probiviri della bicicletta e dell’aria pulita sono casomai tanti anziani, anche più attempati di me, che in vita loro hanno percorso più chilometri in bici e a piedi che in automobile o in moto.
Con i  tre carissimi  amici Maddalena, Fulvio, Alessandro, ho fatto la maggior parte delle mie vacanze estive in bicicletta. Abbiamo girato più volte per la Grecia, siamo arrivati fino a Troia e a Debrecen. 

Ricordo qui un episodio della mia seconda estate ciclistica in Grecia dove quell’anno pedalavo eccezionalmente da solo. Era il 1978: avevo 33 anni  e quasi nove mesi.  

Il 9 agosto salii sull’imbarcazione che dal porto di Andros mi recava lontano dalla greggia dei materialisti integrali. Ero felice di essere solo con la mia bicicletta, una Bianchi da corsa.
Osservavo il chiarore dei flutti spumeggianti e dei gorghi  solcati dal veicolo marino.  Biancheggiava la scia del traghetto come un sentiero in mezzo a una pianura erbosa fatta fluttuare dal vento sonoro.
Sbarcai a Tenos dove volevo prendere un altro battello per arrivare a Delo, l’isola sacra che diede i natali ai due occhi del cielo. Ma le corse di quel giorno erano già tutte finite: dovevo aspettare la mattina seguente. Cercai un ostello dove passare la notte, fissai un giaciglio, quindi mi chiesi come impiegare sensatamente e proficuamente il resto della giornata che non volevo sprecare, cioè passare senza attività valide a potenziare il corpo e la mente.
Potevo girare l’isola liberamente, ossia senza pensare con retrogusti cattivi ai conoscenti di Bologna che mi aspettavano a ore, determinate da loro, per entrare in un enorme gommone motorizzato e andare stipati  in cerca di baie deserte dove arrostire salsicce affumicando la santa luce del cielo.
Dopo due giorni così malvissuti volevo ricaricarmi di energie vitali e morali. Sul mezzogiorno, lavati gli stracci sudati che poi distesi perché si asciugassero sopra lo zaino appoggiato sul materasso disteso nella terrazza del dormitorio, cominciai a pedalare seminudo nel sole mentre venivo accarezzato dall’aria pregna di aromi marini, vegetali e terrestri: respirandola lietamente a pieni polmoni, sentivo di partecipare a una festa della natura profumata, calda e luminosa come una bella ragazza piena di salute, di gioia, di vita. Le cime degli alberi, i musi degli animali, i visi umani apparivano sereni e luminosi, piene di promesse e speranze.
Con gli occhi stenebrati del tutto vedevo  la luce vivace danzare tripudi sulla grande tavola liscia e violacea del mare, quindi balzare sui declivi dei monti dove la accompagnavano battendo le ali gli innumerevoli  cori delle cicale pazze di sole, dove i penduli fichi stillavano gocce dolci le quali moltiplicavano quel dono del cielo che assentiva alla vita.
Nell’aria celeste gli uccelli cantavano inni di gratitudine alla fonte della luce divina, l’occhio del giorno d’oro, l’immagine che porta la massima significazione di Dio alla nostra vista mentale. Con le narici aspiravo i profumi soavi della terra, odorosa tutta come un frutto maturo appena spiccato dal ramo. Mi domandavo come può non essere felice una creatura in un paradiso così ben fatto dall’artista divino.
 Assaporavo tutti gli umori distillati dai raggi del sole che ravvivano tutto, e gioivo osservando i colori accesi e accentuati dalla pienezza del suo splendore.
Ogni tanto mi fermavo per cogliere un fico o un grappolo d’uva: dolce offerta, già maturata dal caldo che favorisce la vita.
Mentre mangiavo questi doni dell’estate incoronata dai raggi del dio, pensavo ai regali ricevuti dalle meravigliose donne che avevo già conosciute. Li ho sempre considerati “borse di studio”, come le belle giornate. Ero sicuro che altri premi ci sarebbero stati dopo una vacanza tanto santa. 
Ringraziavo la madre terra generosa e felice, poi riprendevo a pedalare su e giù per le strade dell’isola. Ascendere le impervie salite eliminando gli umori cattivi, acquistando la forma corporea più bella possibile e la mente serena quanto il cielo era una gioia: mi sembrava di salire per una scala i cui gradini portavano al dio sole; ed ero felice mentre mi lanciavo giù per le rapide discese  rinfrescando il volto e il petto con i fiotti veloci dell’aria sulla pelle abbronzata sentendomi  armonizzato con l’opera d’arte dove avevo la fortuna di essere vivo del tutto, lontano e diverso dagli sdilinquiti borghesi che arrostivano grassi cadaveri di animali nelle baie sassose ottenebrando la luce del sole o la cristallina purezza della notte lunare.

giovanni ghiselli

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