giovedì 11 giugno 2020

Consigli per l'esame di maturità. Parte 1

fotografia di Redazione Scuola (Corriere.it)
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L’esame di maturità

L’ho fatto almeno una ventina di volte dopo quello da studente nel 1963

Quale consiglio agli studenti copio qui il il terzo capitolo della mia metodologia.

Suggerisco l’impegno serio e organizzato bene, cioè funzionale allo scopo ossia al successo, sino alla fatica, spesso necessaria e utile non solo a prepararsi come si deve, ma anche ad affrontare ogni esame e tutti gli agoni, gli scolastici, gli sportivi o quelli di altra natura, con la coscienza tranquilla: questa è il miglior antidoto della tremebonda paura che impaccia il cervello, inceppa la lingua e inficia le prove.


Capitolo III della mia metodologia. Un discorso sul metodo didattico

Argomenti del capitolo

Elogio della tradizione e necessità della fatica. Povno~ e laborEsiodo. Sofocle. Eracle al bivio. Orazio. Il sogno di Alessandro Magno in Arriano. Il discorso del condottiero macedone sul fiume Ifasi. Alessandro avrebbe procurato fatica anche ai poeti. Dante e il “poema sacro”. Machiavelli e il dovere di “insudare nelle cose”. Leopardi e il prezzo di un’opera egregia (Il Parini ovvero della gloria).

L'autore di La terra desolata in uno scritto di critica[1] afferma che la tradizione non è un patrimonio che si eredita ma, "if you want it, you must obtain it by great labour ", se uno vuole impossessarsene, deve conquistarla con grande fatica.

Questa è una dichiarazione topica: Esiodo dice che davanti al valore gli dei hanno posto il sudore: "th'" d j ajreth'" iJdrw'ta qeoi; propavroiqen e[qhkan" (Opere e giorni, 289).

Nell'Elettra di Sofocle la protagonista dice alla mite sorella Crisotemi: "o{ra, povnou toi cwri;" oujde;n eujtucei'''" (v. 945), bada, senza fatica niente ha successo.

Nei Memorabili[2] di Senofonte la donna virtuosa, la Virtù personificata, avvisa Eracle al bivio che gli dèi niente di buono concedono agli uomini senza fatica e impegno:"tw'n ga;r o[ntwn ajgaqw'n kai; kalw'n oujde;n a[neu povnou kai; ejpimeleiva" qeoiv didovasin ajnqrwvpoi"" (II, 1, 28).

così Cleante stoico in Diogene Laerzio (VII 172): “quando uno spartano gli disse o{ti oJ povno~ ajgaqovn, lui, raggiante di gioia, esclamò: “ai{mato~ ei\~ ajgaqoi`o, fivlon tevko~, sei di buon sangue, ragazzo mio!”

Si assiste a un eterno ritorno di questa affermazione e di non poche altre. “Tipico atteggiamento della “cultura” greca. Una volta coniata una forma, essa rimane valida anche in stadi ulteriori e superiori, e ogni elemento nuovo deve cimentarsi con essa”[3].

Sappiamo che la cultura greca non si limita ai Greci.

In tutt'altro contesto, il garrulus che attenta alla vita di Orazio gli fa: " nihil sine magno/vita labore dedit mortalibus"[4], niente senza grande fatica la vita ha mai dato ai mortali.

Alessandro Magno, che si riteneva discendente di Achille e di Eracle, quando si preparava ad assediare Tiro (estate del 332 a. C.), sognò che Eracle stesso lo introduceva in città. L’indovino Aristandro interpretò la visione onirica dicendo che Tiro sarebbe stata presa “xu;n povnw/ (…) o{ti kai; ta; tou` JHraklevou~ e[rga xu;n povnw/ ejgevnetw. Kai; ga;r kai; mevga e[rgon th`~ Tuvrou hJ poliorkiva ejfainevto[5] con fatica… poiché anche le imprese di Eracle erano avvenute con fatica. E in effetti anche l’assedio di Tiro si presentava come una grande impresa.

Quando, giunti al fiume Ifasi[6], i soldati di Alessandro Magno, si rifiutarono di attraversarlo e di procedere verso il Gange, il condottiero macedone, per convincere l’esercito esausto a proseguire, parlò ai soldati dicendo: “Pevra~ de; tw`n povnwn gennaivw/ me;n ajndri; oujde;n dokw` e[gwge o{ti mh; aujtou;~ tou;~ povnou~, o{soi aujtw`n ej~ kala; e[rga fevrousin” (Anabasi di Alessandro, 5, 26, 1), il limite delle fatiche per l’uomo valoroso non credo siano altro che le fatiche stesse, quante di esse li portano a grandi imprese”. Ma non riuscì a convincere quella gente stremata.

Alessandro Magno non solo si sobbarcò personalmente fatiche immani, e, ovviamente, le impose alle sue truppe, ma le procurò anche ai poeti: Arriano racconta che dopo la distruzione di Tebe (335), poco prima di partire per la sua spedizione, il giovane re di Macedonia celebrò giochi e sacrifici. Allora gli fu annunciato che la statua di Orfeo nella Pieride ijdrw`sai xunecw`~ sudava continuamente; quindi l’indovino Aristandro disse che cantare le gesta di Alessandro sarebbe costato polu;~ povno~ ai poeti (Anabasi di Alessandro, I, 11, 2 - 3).

Dante mette in rilievo la grande fatica che gli è costata l’opera grandiosa della sua Commedia: il “poema sacro/al quale ha posto mano e cielo e terra/sì che m’ha fatto per più anni macro” (Paradiso, XXV, 1 - 3).

Machiavelli nota che molti uomini attribuiscono alla Fortuna un potere eccessivo nella vita umana e per questo ritengono “che non fussi da insudare molto nelle cose, ma lasciarsi governare dalla sorte”.

 Il segretario fiorentino non condivide questo parere: “perché el nostro libero arbitrio non sia spento, iudico poter essere vero che la fortuna sia arbitre della metà delle azioni nostre, ma che ancora lei ne lasci governare l’altra metà, o presso, a noi”. La Fortuna come certi “fiumi rovinosi (…) dimostra la sua potenzia dove non è ordinata virtù a resisterle, e quivi volta li sua impeti, dove la sa che non sono fatti li argini e li ripari a tenerla”. Dunque non bisogna adagiarsi sulla Fortuna: “quel principe che s’appoggia tutto in sulla fortuna, rovina, come quella varia” (Il principe, 25).

La fatica naturalmente deve essere regolata da una disciplina logica e rigorosa.

Nel discorso tenuto da Ceriale davanti a Trevĭri e ai Lingŏni nel 69 d. C., c’è la tesi politica e morale della dominazione romana. La grandezza e la solidità dell’impero sono state create e consolidate dalla fortuna e dalla disciplina

I Romani vogliono impedire l’avanzata di un nuovo Ariovisto. I Romani ai Galli hanno imposto iure victoriae, per diritto di vittoria, solo ciò che è necessario a mantenere la pace. Nam neque quies gentium sine armis, neque arma sine stipendiis, neque stipendia sine tributis haberi queunt (Tacito, Hist. IV, 74). Se arriveranno Britanni o Germani, i tributi aumenteranno.

Cacciati i Romani (quod di prohibeant) rimarrebbe solo una guerra universale. Octingentorum annorum fortuna disciplinaque compages haec coaluit: quae con velli sine exitio convellentium non potest”, questa mole si è consolidata con la fortuna e la disciplina di ottocento anni e non può essere abbattuta senza rovina di chi la abbatte.

“Sono le parole di tutti gli imperialismi” commenta Concetto Marchesi nel suo Tacito[7]

Qui il merito del successo è diviso tra fortuna e disciplina, come nel Machiavelli tra fortuna e virtù

Leon Battista Alberti (1404 - 1472) nel Prologo ai Libri della Famiglia

toglie alla fortuna uno spazio maggiore: scrive che molti accusano la fortuna e si dolgono “d’essere agitati da quelle fluttuosissime sue unde, nelle quali stolti sé stessi precipitarono”.

La fortuna non prevale mai sulle buone e sante discipline del vivere.

Leopardi nell’Operetta morale Il Parini ovvero della gloria[8] immagina che il poeta di Bosisio parli a un giovane “d’indole e di ardore incredibile ai buoni studi, e di aspettazione meravigliosa”, e gli dica che pochi sono capaci di intendere “che e quale sia propriamente il perfetto scrivere”. Chi non intende questo “non può né anche avere la debita ammirazione agli scrittori sommi”. La conclusione del ragionamento dunque è: “Or vedi a che si riduca il numero di coloro che dovranno potere ammirarli e saper lodarli degnamente, quando tu con sudori e con disagi incredibili, sarai pure alla fine riuscito a produrre un’opera egregia e perfetta”.


giovanni ghiselli Bologna 11 giugno 2020 ore 17, 15

 



[1] Tradition and the Individual Talent (del 1919) Tradizione e talento individuale.

[2] Scritto socratico in quattro libri che presenta il maestro come un uomo probo e onesto, rispettoso della religione e delle leggi, valida guida morale nella vita pratica

[3] W. Jaeger, Paideia 1, p. 191.

[4] Sermones, I, 9, 59 - 60 -

[5] Arriano (età di Traiano e di Adriano), Anabasi di Alessandro, 2, 18, 1.

[6] Nell’estate del 326 a. C.

[7] Milano Messina, 1944, p. 136

[8] Scritta nel 1824, pubblicata nel 1827.

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