venerdì 12 giugno 2020

Consigli per l'esame di maturità. Parte 3. Necessità della conoscenza della Storia

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La conoscenza della tradizione richiede il senso storico: the historical sense "involves a perception not only of the pastness of the past, but of its presence"[1], il senso storico implica la percezione non solo della passatezza del passato, ma anche della sua presenza.
 “Chi è privo di senso storico rischia di confondere l’attuale con l’eterno”[2].

Insomma la topica, o arte dei luoghi, presuppone la conoscenza della storia.

 Argomenti
 Lo studio della storia presenta varie possibilità di approccio: da quello politico ed economico, al sociologico, all’antropologico, allo psicologico. Rostovzev. Auerbach. S. Mazzarino su Tucidide e Tacito con la crisi dell’agricoltura italica. La storia degli anelli d’oro in Plinio il Vecchio e nel Satyricon.
 Luperini: il legame profondo e necessario tra disciplinarità e interdisciplinarità. La necessità della conoscenza dei contenuti. La SSIS (la Mastrocola e il sottoscritto). La storia esemplare con modelli e contromodelli. Tito Livio, Tacito e la grandezza del passato rispetto alla sopravvenuta decadenza. Il filum di tradizionalismo che unisce Catone - Sallustio - Livio e Tacito. Polibio: la storia come correzione (diovrqwsi"). Posidonio e Diodoro: gli storiografi quali benefattori dell’umanità. Tucidide e la maggiore grandezza del presente. Plutarco e i suoi estimatori: Montaigne, Shakespeare, Vittorio Alfieri, Foscolo, Nietzsche e la storia monumentale. Seneca (Naturales quaestiones) sconsiglia di proporre contromodelli. Machiavelli e Guicciardini. Le interpretazioni contrastive della Storia inducono il giovane a pensare. Vite composite e variopinte. Proust. Le Vite di Demetrio Poliorcete e di Antonio secondo Plutarco. Luciano e la processione della Tuvch. Mussolini e il colonnello Aureliano Buendía di Márquez.

 Dalla storia si possono ricavare tanti e vari argomenti: l'economia, la politica istituzionale, la psicologia, secondo i gusti di chi la insegna e di chi deve impararla. Ci furono anni, quando era di moda il marxismo, nei quali era obbligatorio il discorso economico - strutturale; ora che Marx è stato messo in soffitta, si preferiscono le sovrastrutture. Quindi sono passati in secondo piano i "severi/economici studi" e vale più "il proprio petto/esplorar"[3].
Se una volta, dietro richiesta dei ragazzi, si studiava il Rostovzev[4] prima ancora di leggere Tacito, ora si cerca l'approccio antropologico, o si studia la psicologia della fanciulla Ottavia, che era costretta a celare i propri sentimenti, o si fa notare il determinismo geografico.
 La storiografia antica si presta comunque a letture diverse. Auerbach sostiene che gli antichi "non vedono forze, bensì vizi e virtù, successi ed errori; la loro impostazione del problema non è evoluzionistica né nei riguardi dello spirito né in quelli della materia; è invece moralistica"[5].
S. Mazzarino invece ritiene che al pensiero storico classico non manchi un'ampia e approfondita considerazione dei fatti economici:"Basta pensare, per es., all'archeologia di Tucidide, tutta fondata su aJcrhmativa[6] crhmavtwn th;n kth'sin[7]; concetti che lì sono fondamentali, non già semplici riferimenti. Tacito (…) Plinio il Vecchio (…) hanno interpretato con acutezza i fatti sociali dell'epoca giulio - claudia"[8]. Si pensi alla crisi dell’agricoltura italica dovuta all’estendersi dei latifondi; per esempio: latifundia perdidere Italiam" scrive Plinio il Vecchio[9].
Per quanto riguarda l’autore degli Annales[10]:"Questa idea della crisi economica dell'Italia domina il pensiero di Tacito, e dà ad esso toni di tristezza profonda: infatti, la ritroviamo in un passo degli Annali, XII, 43, meritatamente celebre”[11]:"at hercule olim Italia legionibus longiquas in provincias commeatus portabat, nec nunc infecunditate laboratur, sed Africam potius et Aegyptum exercemus, navibusque et casibus vita populi Romani permissa est ", eppure, per Ercole, una volta l'Italia mandava vettovaglie per le legioni in province lontane, né oggi la terra soffre di sterilità, ma noi preferiamo far coltivare l'Africa e l'Egitto, e la vita del popolo romano è affidata ai rischi della navigazione.
Lo storico si riferisce all’ultimo periodo del principato di Claudio (41 - 54), ma già Ottaviano Augusto temeva che le campagne rimanessero non coltivate a causa dell'ozio della plebe, e decise di abolire le distribuzioni frumentarie:"quod earum fiduciā cultură agrorum cessaret [12], poiché, confidando in queste, la gente trascurava la coltivazione dei campi. Tuttavia l'imperatore non perseverò nel proponimento. Poi "Una grande crisi scoppiò nel 33 d. C. : i latifondi coltivati da schiavi rendevano impossibile una qualunque concorrenza da parte di piccoli proprietari; questi si erano indebitati, ricorrendo a prestiti di latifondisti senatori, sebbene ai senatori fosse proibita l'usura…Ne derivò la rovina di molti piccoli proprietari, i quali svendevano i campi per pagare i debiti"[13]. Durante il I sec. d. C. sotto gli imperatori Giulii e Claudii :" anche in Italia le grandi tenute divennero sempre più estese e a poco a poco assorbirono le fattorie di media estensione e i poderetti contadineschi… Le tenute di media estensione furono a poco a poco rovinate dalla mancanza di vendita e vennero acquistate a buon mercato da grandi capitalisti. Questi ultimi naturalmente desideravano di semplificare la gestione delle loro proprietà, e, paghi di ottenerne un reddito sicuro se pur basso, preferivano dare la loro terra ad affittuari e produrre prevalentemente grano"[14]
La "mancanza di vendita" di molti prodotti italici era dovuta anche alla emancipazione economica delle province: “le condizioni del mercato peggioravano di giorno in giorno a misura che si svolgeva la vita economica delle province occidentali…A questo mutamento s'accompagnò il crescente raccogliersi della proprietà rurale nelle mani di pochi ricchi proprietari"[15].
Nello stesso tempo della crisi dilagavano, tra i ricchi e gli arricchiti, il lusso e lo spreco. La politica finanziaria di Tiberio cercò, molto blandamente, di porvi un freno. Ecco la tendenza: "lotta contro il rialzo dei prezzi; e d'altra parte, proprio per quella sua moderatio nei riguardi degli ottimati, esitazione e anzi rinunzia a prendere rigidi provvedimenti contro il lusso delle dites familiae nobilium aut claritudine insignes[16]. Dalle nuove esigenze fu particolarmente incoraggiato il commercio con l'India, come chiaramente attestano i reperti numismatici di questa regione. In queste condizioni, il lamento che la moneta pregiata prendesse la via dei mercati stranieri (pecuniae nostrae ad externas aut hostiles gentes transferuntur [17] ) restava una protesta platonica, e denunziava un "drenaggio di oro" a cui Tiberio stesso dichiarava di non poter porre rimedio"[18]
Passiamo a Plinio il Vecchio e vediamo “un interessante squarcio di storia sociale scritta da un autore antico”.
“Questo cavaliere dell’Italia settentrionale, freddo e saggio, ci ha descritto (naturalmente con disdegno) le ambizioni e la luxuria dei nuovi ricchi dell’epoca Claudia…Come esponente dell’altissima borghesia equestre, egli si intendeva di fatti economici. Nella travagliata epoca giulio - claudia, gli sembrava dominante l’ambizione di tutti, di portar anuli aurei, che in verità sono distintivi dei cavalieri: sotto Tiberio si era stabilito che solo i nati liberi e di libero avo, con censo equestre e facoltà di sedere nei 14 ordines al teatro (vale a dire, solo i veri e propri cavalieri), potessero portare anuli aurei ; con Caligola, anche i liberti avevano quegli ornamenta, “ciò che prima non era avvenuto mai”; all’epoca di Claudio (che era stato anche censore), ben 400 persone furono accusate per questo abuso. Nonostante i provvedimenti di Tiberio, i liberti erano dunque decisi a “sfondare”, anche contro la legge; e, al solito, il principato di Caligola aveva aperto ad essi la strada; “l’ordine equestre”, commentava Plinio, “si voleva distinguere dal resto dei liberi, e doveva subire l’intrusione dei liberti!” Oppure: quelli che non appartengono all’ordine equestre non si fanno scrupolo di firmare con l’anulus, dalla parte dove è l’oro: “una trovata dell’epoca di Claudio”; “ed anche i servi portano anuli coperti, all’esterno, di oro” (la stessa nota troviamo nel Satyricon di Petronio)” [19].
Entrato nella sala del banchetto, addobbato di rosso, Trimalchione ostenta gli anelli portati nella mano sinistra: uno grande placcato d'oro (anulum grandem subauratum 32, 3) e uno d'oro massiccio, ma tutto come costellato di pezzetti di ferro ( totum aureumsed plane ferreis veluti stellis ferruminatum), quindi denuda il braccio destro armilla aurea cultum et eboreo circulo lamina splendente conexo (32, 4), ornato da un bracciale d'oro e di un cerchio d'avorio intrecciato con una lamina luccicante; infine si cincischiò i denti con uno stuzzichino d'argento (pinnā argenteā dentes perfōdit, 33). E' un monumento classico, aere perennius, al cattivo gusto, alla volgarità dell'eterno cafone arricchito.
"La storia degli anelli d'oro: il più interessante capitolo di storia del costume dell'epoca imperiale, particolarmente dell'epoca giulio - claudia…Claudio eredita da Caligola, ed affina e organizza, il predominio dei liberti imperiali nella corte. Ma dietro questi tre potentissimi liberti[20] c'è la grande massa di tutti i liberti, imperiali o non, in tutto l'impero. Sono una borghesia affaristica e prepotente. Affrontano talora i rischi della legge, pur di portare l' anulus aureus, gabellandosi per cavalieri. La pressione di questa borghesia significa soprattutto una cosa: l'intensificazione dell'economia monetaria…burocrazia (questa burocrazia dei liberti imperiali) significa economia monetaria, intensità di circolazione dei mezzi legali di pagamento. L'economia naturale delle grosse domus senatorie è colpita a morte"[21].
“L’economia non conosce tradizioni, o, se ne ha, non esita un solo istante a distruggerle nel caso che non gli siano più utili”[22].

Come si vede non è impossibile l’approccio “economico” e sociologico ai testi classici. Uno dei tanti.

Da qualche tempo è ammessa, anzi è praticata più o meno bene da molti insegnanti, l’interdisciplinarità che al sottoscritto negli anni Ottanta costò due ispezioni in tre anni, volute dal preside Magnani del Liceo classico Galvani. Costui del resto venne sbugiardato pesantemente entrambe le volte dagli ispettori ministeriali: Adelelmo Campana e Antonio Portolano, due uomini intelligenti, i quali elogiarono il mio metodo e il mio operato, sebbene allora fosse innovativo. Ora piuttosto è di moda. Non dico che si debbano seguire le mode, casomai che si possono prevedere, e che non è male assecondare i gusti dell'utenza quando questa presenta richieste plausibili.

“Si è scoperto insomma… il legame profondo e necessario fra disciplinarità e interdisciplinarità. In altri termini, si è arrivati alla coscienza che, nello studio della letteratura (ma il discorso vale anche per altre materie umanistiche), l’interdisciplinarità non comporta affatto una rinuncia ai contenuti disciplinari e che in esso il ricorso alla storia, alla antropologia, alla storia dell’arte, alla psicoanalisi, alla filosofia, e persino alla geografia e alla fisica è finalizzato a insegnare meglio la letteratura, non a confondere tale insegnamento con altre discipline. Nel campo dello studio della letteratura, un uso rigoroso della interdisciplinarità non è tuttologia, ma è il suo esatto opposto: è l’impiego di discipline diverse al fine di capire meglio o di spiegare meglio un testo letterario o un fenomeno letterario (un movimento, un tema, un periodo storico)”[23].

In ogni caso è necessario conoscere i contenuti, le parole e le idèe contenute, appunto, in un libro, anzi in tanti libri, per insegnare, con un taglio o con un altro, una materia o anche solo un argomento.
“Oggi c’è la SSIS: Scuola di Specializzazione per l’Insegnamento Secondario. Si tratta di una scuola per chi si è laureato nella materia che amava e ora la vuole insegnare. Si dà per scontato che non la sappia insegnare e quindi glielo si insegna in una scuola apposita, successiva alla laurea. Una volta ci si laureava e basta, quattro anni di università e poi automaticamente si andava a insegnare la materia in cui si era laureati…Oggi invece si fa tre+due, si prende la laurea e poi si aggiungono i due anni SSIS, dove ti insegnano a insegnare…Cos’è cambiato? Che prima si pensava così: basta che uno sappia bene la sua materia e la saprà insegnare di sicuro; si pensava, cioè, che il conoscere bene a fondo la propria materia fosse di per sé un’assicurazione del saperla insegnare: si dava allora, evidentemente, molto valore alla conoscenza. Adesso invece si pensa: non importa che cosa uno conosce o non conosce, l’importante è che sappia insegnare. Ma insegnare che cosa? Nessuno pensa che il “che cosa” sia importante: la materia, l’argomento, l’oggetto…il complemento oggetto. Si insiste sul verbo, e non sul complemento oggetto”[24]. La Mastrocola generalizza, esagera e sbaglia: io insegno alla SSIS, in quella dell’Università di Bologna dove tengo un corso di didattica della letteratura greca con laboratorio, e in quella dell’Università di Bolzano dove faccio laboratorio di didattica della cultura e della civiltà letteraria italiana: ebbene l’uno e l’altro corso partono dalla metodologia, ma assai presto questa viene applicata agli autori e alle loro opere. Certo, gli insegnanti che non conoscono la materia, quelli che non sanno insegnarla, ci sono, eccome, ma ci sono sempre stati. La SSIS, io credo, attraverso i docenti esperti, e bravi, quando lo sono, aiuta i laureati indicando loro le vie meno contorte per arrivare alla mente e al cuore[25] dei ragazzi, per aiutarli a crescere in termini tanto culturali quanto umani, e suggerisce sia i metodi, sia le letture più efficaci per cogliere questo scopo, ossia questo bersaglio. Il discorso sul metodo che sto componendo riflette questo lavoro, ed è il lavoro di una vita dedicata allo studio, all’insegnamento e al rafforzamento della vita stessa, della mia e di quella dei miei allievi.


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[1] T - S. Eliot, Tradition and the Individual Talent. 1920. The Sacred Wood
[2] Natoli, Parole della filosofia, p. 109.
[3] Leopardi, Palinodia al Marchese Gino Capponi, del 1835, vv. 233 - 235.
[4] M. Rostovzev, Storia economica e sociale dell'impero romano. La prima edizione (in inglese) è del 1926.
[5] Mimesis (del 1946), p. 45.
[6] Tucidide, Storie, I, 11, 3. Significa scarsità di risorse senza le quali secondo lo storiografo della guerra del Peloponneso non si possono allestire grandi flotte né fare guerre grandi come quella del Peloponneso.
[7]I, 13, 1. E' l'accumulo di ricchezze necessari allo sviluppo di una grande potenza.
[8] S. Mazzarino, L'impero romano, (del 1974) vol.I, p. 214, n. 4.
[9] Naturalis historia, XVIII, 7.
[10] Gli Annales, composti da Tacito negli anni successivi al 111 d. C., dovevano continuare l'opera di Livio: il titolo dei manoscritti Ab excessu divi Augusti echeggia il liviano Ab urbe condita. Dell'opera che doveva andare dalla morte di Augusto a quella di Nerone ci sono arrivati i libri I - IV, un frammento del V e parte del VI con gli avvenimenti dalla morte di Augusto (14 d. C.) a quella di Tiberio (con una lacuna per gli anni 29 - 31); inoltre i libri XI - XVI con il regno di Claudio, dal 47, e quello di Nerone fino al 66.  
[11] S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, III, p. 458.
[12] Svetonio, Vita di Augusto, 42.
[13] S. Mazzarino, L'impero romano I, p. 148.
[14]M. Rostovzev, Storia economica e sociale dell'impero romano, p.115 ,
[15]M. Rostovzev, Storia economica e sociale dell'impero romano, p. 114.
[16] Tacito, Annales , III, 55, le famiglie ricche dei nobili o distinte nel segnalarsi.
[17] Annales, III, 53.
[18] S. Mazzarino, L'impero romano I, p. 147.
[19] S. Mazzarino, L'impero romano, 1, pp. 214 - 215.
[20] Callisto, Pallante e Narcisso.
[21] S. Mazzarino, L'impero romano, 1, pp. 215 - 216.
[22] P;P: Pisolini, Saggi sulla letteratura e sull’arte, p. 2695.
[23] R: Luperini, Insegnare la letteratura oggi, p. 12.
[24] P. Mastrocola, La scuola raccontata al mio cane, p. 71.
[25] Ai professori che ogni giorno si apprestano a dare giudizi sulle capacità intellettuali dei loro allievi un invito a riflettere prima su quanta educazione emotiva hanno distribuito, perché, a se stessi almeno, non possono nascondere che l’intelligenza e l’apprendimento non funzionano se non li alimenta il cuore” (U. Galimberti, L’ospite inquietante, p. 48).

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