lunedì 3 giugno 2024

Pindaro Pitica I, antistrofe 5, epodo 5. Ultima parte


 

Antistrofe 5

Anche se sfugge un’inezia

è riportata come cosa grande

detta da te. Sei rettore

di molti: molti sono i testimoni fedeli per l’uno e  per l’altro verso.

Prospera persistendo nel tuo temperamento,

se davvero ami udire sempre dolce fama

non stancarti nelle spese munifiche.

Libera come il nocchiero

la vela gonfiata dal vento.

Non lasciarti ingannare, amico, da lucri

instabili: solo la gloria della reputazione che sopravvive ai mortali

 

Epodo 5

rivela la vita degli uomini defunti

attraverso narratori e poeti.

Non muore la benevola virtù di Creso.

Invece un’odiosa nomea ha in suo potere dovunque Falaride,

mente spietata che faceva arrostire delle persone in un toro di bronzo.

Né sotto i tetti lo accolgono le cetre

in tenero connubio con i canti dei giovani.

La prima cosa è gioire dei premi vinti;

la seconda fortuna è una buona fama: l’uomo  che  abbia incontrato

l’uno e l’altro successo e li abbia afferrati

ha ricevuto la corona somma.

 

Creso è stato re di Lidia nel VI secolo finché venne sconfitto da Ciro il Vecchio. Erodoto nel primo libro delle Storie racconta il suo incontro con Solone. Lo rappresenta come un re ricchissimo e tanto pacchiano da esibire i propri tesori e domandare al legislatore ateniese se lo reputasse l’uomo più felice del modo. Solone eluse la risposta diretta.

Del resto Creso  ebbe buoni rapporti con i Greci della costa anatolica e con il santuario delfico. Per questo Pindaro lo ricorda positivamente nel celebrare una vittoria pitica.

Falaride fu tiranno di Agrigento dal 571 al 554.

E’ rimasto famigerato per la sua crudeltà ricordata da diversi autori.

In questa ode di Pindaro il tiranno acragantino è il correlativo umano, anzi disumano, di Tifone, entrambi portatori di u{bri~ e disordine, ostli alla musica, mentre Ierone e il suo paradigma divino Zeus sono fondatori di ordine e latori di armonia.

Non faccio l’elenco delle testimonianze su Falaride. Mi limito a Dante che nel XXVI e XXVII canto dell’Inferno (cerchio VIII e ottava bolgia quella dei consiglieri fraudolenti)  vede delle fiamme parlanti e le ascolta. Prima quella di Ulisse e Diomede, poi quella di Guido da Montefeltro.

Questa, prima di articolare le parole,  faceva uscire dalla sua cima “un confuso suon”. Sicché viene menzionato il bue di Falaride di cui Dante aveva letto in Ovidio e in Paolo Orosio.

Ripassiamo dunque Dante:

“Come il bue cicilian che mugghiò prima

col pianto di colui, e ciò fu dritto,

che l’avea temperato con sua lima,

mugghiava con la voce dell’afflitto,

sì che, con tutto che fosse di rame,

pur el parea dal dolor trafitto;

così, per non aver via né forame

dal principio nel foco, in suo linguaggio

si convertian le parole grame”  (vv- 7-15)

Artefice del toro fu Perillo cui Falaride fece inaugurare il supplizio:

 Et Phalaris tauro violenti membra Perilli

torruit; infelix imbuit  auctor  opus” (Ovidio, Ars amatoria, I, 650-651)

e Falaride arse nel toro le membra del violento Perillo;  l’infelice artefice bagnò la sua opera. Con i suoi liquidi organici immagino.

Anche Ovidio considera giusta la condanna di Perillo.

 

Fine della Pitica I.

 

Bologna 3 giugno 2024 ore 18, 26 giovanni ghiselli  

 

 

 

 

 

 

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