giovedì 17 ottobre 2024

Ifigenia CCV. Il ritorno a Bologna e il colpo di scena.


 

Entrai in camera mia. Erano circa le sette. Poco dopo arrivò

Ifigenia, assai complimentosa. Probabilmente aveva pensato di

essere stata troppo scostante. Mi faceva carezze e moine straordinarie.

Troppe, e, nel contesto di quella giornata, stonate. Alle sette e

mezzo scendemmo a cenare. La ragazza continuava a

ripetere:"Quanto sei bello, gianni, quanto sei bravo!". Aspettai che

tacesse un momento, quindi le domandai:"Perché sei venuta in

montagna senza intenzione di fare niente con me: né parlare sul

serio, né sciare, né passeggiare, né amoreggiare?"

Capì che non poteva continuare a mentire e rispose:"Non lo so.

Forse per abbronzarmi. E' vero che non ho più tanta voglia di stare

con te, non quanta ne avevo una volta, e mi spiace".

La osservavo con calma. Ne fu incoraggiata.

Continuò:"I miei sentimenti verso di te adesso non li capisco.

Dammi del tempo; anzi, facciamo una cosa. Finita la cena, saliamo

in camera mia. Quindi torniamo a Bologna, e là, per due

settimane, tu non mi cerchi, nemmeno al telefono. Io devo

pensarci bene a quello che sento, alla nostra situazione, a noi due.

Prima non ho voluto stare con te siccome ero stanchissima e tutta

indolenzita per le cento o mille cadute della mia disastrosa discesa.

Quando ho fatto la doccia, mi sono vista piena di lividi. Ma non è

solo per lo sfinimento e il pestaggio della discesa  da te imposta che non ho

voluto fare l’amore. Credo di essere venuta qua con l'intenzione di vedere se tu mi vuoi bene, se io te ne voglio; insomma per capire qualcosa di

noi. Io non sono più sicura di niente. Ora per esempio mi è venuta

una gran voglia di farlo".

Sembrava sincera. Probabilmente lo era. Le luccicavano gli occhi

mentre mi fissava. Salimmo in camera sua. La chiave chiudeva.

Lo facemmo una volta, con gusto e allegria. Dopo l'orgasmo

disse:"Lavati Gianni, facciamolo ancora". Andai nel bagno

contento.

"Come ai bei tempi", pensavo. Tornai presto nel letto dove lei

aspettava fissando il soffitto con un sorriso. Io però non ebbi una

seconda erezione decente. Priapo mi aveva abbandonato. Dopo tre o quattro tentativi falliti, Ifigenia mi scostò con una mano, e, senza guardarmi, esclamò con dura ironia:"Poi sono io quella che ne ha poca voglia! Diciamola una

buona volta questa verità!".

"Sì, capita pure a me di non avere tanto desiderio quanto una

volta-risposi-, ma generalmente tu sei più fredda di me. L'anno

scorso il meno entusiasta ero io; quest'anno sei tu".

"Già, oramai sono due anni che le cose non vanno bene tra noi",

confermò. Allora dissi:" Adesso partiamo. A Bologna proveremo

la separazione che hai proposto tu poco fa. Per due settimane non

ti cercherò. Faremo in modo di non incrociarci nemmeno per strada.

Dopo questi quindici giorni tu, però, mi dici con tutta franchezza e

chiarezza se vuoi restare con me. Io lo vorrei, nonostante questa

sera sia rimasto al di sotto della nostra sufficienza. Io

ambisco a restare con te. Non è soltanto dal numero degli orgasmi

che si misura la volontà di stare insieme". Ifigenia annuì.

Ci vestimmo, prendemmo i bagagli già preparati prima di cena e

scendemmo. Il proprietario dell'albergo, quando andai a pagare il

conto, disse: "Torni a Bologna tanto presto? Io, con una femmina

tanto giovane e  bella starei via almeno due anni". Non si vedeva quanto male andassero le cose tra noi. Meglio così: non affliggevamo altri che

noi stessi.

Durante il viaggio scherzammo sulla nostra tragedia; forse ci

aveva rallegrati la decisione presa di non vederci per quindici

giorni. Arrivati sulla tangenziale, poco prima di separarci, ancora

una volta e forse per sempre, recitammo un vicendevole atto di

dolore:"Mio Dio, mi pento e mi dolgo con tutto il cuore...".

Davanti alla porta di casa sua le ricordai il nostro patto, onesto e

chiaro. Rimasto solo, nel letto, non ero del tutto infelice.

 

 

La mattina seguente andai a scuola con il proposito di non

incontrarla. Invece uscito da scuola durante l’intervallo la vidi nel solito bar di via Nazario Sauro.  Era con un compagno della scuola di recitazione

che conoscevo, siccome era venuto più  di una volta a casa

mia, con lei, a prendere appunti su Ibsen.  Era un giovane

taciturno, occhialuto, foruncoloso nel volto bruno. Ifigenia

quella mattina lontana era così splendida che ne provai

un'impressione di dolore. Mi scoccò un sorriso luminoso con il

quale mi inflisse una ferita; mi sembrava che volesse significarmi:" Tu

oramai sei fuori dalla mia vita, e io sto bene.". Sorrisi anche io,

cercando di non lasciare vedere l'affanno interno, e bevvi il caffè senza dire parola. Ero molto turbato: le gambe tremavano, e il cuore in

tumulto balzava dentro il petto. L'avevo vista così miticamente

bella, radiosa e lontana, che l'amore di lei, mi sembrava già una

favola antica. Da raccontare.


 

Durante l'ultima ora, verso mezzogiorno, mi affacciai all'alta

finestra che risponde a un angusto cortile dove avevo parcheggiato la bianca Volkswagen. Guardai giù, nelcupo pozzo dove il sole non arriva che in giugno. C'era lei. Irradiava bellezza dal volto abbronzato. In fondo  a quel buco, la vidi brillare di candida luce. Era seduta sopra una vespa con gli occhi chiusi e la faccia girata verso un raggio riverberato da una finestra lontana e poco pulita.  Quel riflesso opaco diventava un barbaglio potente

dopo essersi vivacizzato cadendo nel viso della ragazza già

abbronzata dalle nevi scintillanti del Lusia. Parlava con uno seduto

accanto a lei, tenendo le spalle appoggiate su quelle di  lui. Sembrava

soddisfatta. Forse l'avevo perduta.

Dopo la scuola, salii sul monte Donato. Volevo rivisitare una

stradina sghemba e romita, dove due estati prima avevamo fatto

l'amore scostando spine, schiacciando insetti, facendo fuggire le

lucertole che saettavano via come baleni verdi, e interrompendo lo

strepitoso fragore delle cicale pazze di sole. Stavamo stretti in

abbracci dolcissimi, al pari di uccelli dentro i cespugli1

  Dopo, ci rotolammo giù per un pendio, tenero  di erba alta e profumata

 Quando ci ritrovammo in fondo al declivio, fermi e ancora

avvinghiati, le accarezzai i capelli violacei versati sulla

vegetazione, le baciai le labbra ardenti, vermiglie come i papaveri,

le guardai le iridi nere come le more, le pupille scure, brillanti di

gioia nella gran luce pomeridiana, e mi sembrò di tenere

abbracciata la terra con il meglio della sua vita.

 Il 23 marzo 1981,di quella intesa con la ragazza, di quella felicità naturale, non era rimasto niente.

 

Il colpo di scena

 

Il 24 era un martedì, giorno nel quale le mie lezioni cominciavano

soltanto alle undici. Perciò potei dormire a sazietà: fin oltre le

nove, come chi ha la coscienza tranquilla. Era anche una bella

giornata di sole già caldo, precocemente quasi maturo, per cui

potei andare a scuola in bicicletta, e non infagottato. Insomma ero

di buon umore, come se le cose mi andassero bene. Dopo tutto,


 

 

 

pensavo, l'interruzione o anche la fine del rapporto poteva essere

una cosa buona: sarei diventato libero di dedicarmi a me stesso, potevo farla finita  con tutti i pensieri e le azioni senza costrutto alcuno, prive di soddisfazione mentre cercavo invano di piacere a una  donna ingrata, incapace di trattenere e valorizzare ogni dono. Avrei avuto tempo per leggere, onde non perdere, oltretutto il resto, la fondamentale identità di insegnante bravo. Quindi  avrei cominciato a

scrivere l'opera che dovevo a me stesso e all'umanità. Così avrei

pure recuperato l'autocompiacimento, l'amor proprio che avevo

smarrito versandolo nella fanciulla dall'anima ingrata, siccome

priva di fondo, come le brocche delle spose omicide 2.

 

Arrivai davanti al liceo quando suonava l'inizio della ricreazione.

La campana si sentiva anche da fuori le mura del tetro edificio,

illuminate del resto e rallegrate dal sole. Decisi di non entrare

prima che l'intervallo fosse finito, per non correre il rischio,

di essere interpellato e disturbato da qualche importuno molesto.

Aspettai di fianco al portone d'ingresso con la

Faccia girata verso la santa fiamma che nutre la vita. Ero

contento siccome avevo trovato la forza di stare solo.

Mi mossi  dopo avere sentito tutto il suono che segnava l'inizio

della quarta ora.  Ma come posi piede  sul primo gradino di accesso al corridoio, sentii una voce che gridava il mio nome con forza.

Non potei fare a meno di fermarmi, girarmi e alzare gli occhi.

Era una ragazza che voleva dirmi qualcosa. Era lei alle mie spalle. Sì era

Ifigenia che mi chiamava, un'altra volta, e correva ancora

verso di me. Arrivò trafelata, come nel giorno del primo incontro.

"Gianni -disse- ti stavo cercando. Devo parlarti”. Come due anni e

mezzo prima. L'espressione del volto era commossa ma allegra.

"Adesso ho lezione", risposi. Ifigenia non si lasciò fermare.

:"Gianni, io ti amo. Voglio stare con te. In questi tre giorni

mi sei mancato tanto; sempre mi sei mancato. Ci vediamo all’una”.

Mi salutò non senza ripetere che aveva capito di amarmi, e  ne era sicura.

Si allontanava verso via Ugo Bassi  facendo piccoli balzi, come una puledra di fianco alla madre in un pascolo luminoso e fiorito.

 Era certa che non l'avrei respinta. Sapeva bene che mi tenevo sulle mie solo

perché volevo sentirla parlare ancora, prima di farle vedere quanto

ero contento e fiero del fatto che aveva deciso di tornare con me.

Oh sì, ne ero felice: poco prima, a furia di arzigogoli, avevo solo

messo insieme una misera consolazione dello strazio di essere

stato piantato da una femmina umana siffatta. Dopo mesi di

dolorosa incertezza, aveva detto che voleva restare con me. Però

non sapevo per quali motivi né con quali intenzioni.

Finite le ore di scuola la vidi corrermi incontro: l’amabile seno, sotto la maglia di lana sottile, rosa, aderente,  balzava in leggero anticipo rispetto al resto del corpo. Era splendidissima la ritrovata compagna. Non era Nemesi, era Afrodite:  aleva la pena soffrire ancora grandi dolori per una giovane donna fatta così.

 

Note

 

1

Cfr. Euripide, Baccanti, vv. 957-958

:"Kai; mh;n dokw' sfa'" ejn lovcmai" o[rniqa"

w{"-levktrwn e[cesqai filtavtoi" ejn e{rkesin", e mi sembra che esse, come

uccelli tra i cespugli, siano avvinte nei dolcissimi lacci dei letti.

2

Le Danaidi.


 

 

Pesaro 17 ottobre 2024 ore 18 givanni ghiselli.

p. s.

Statistiche del blog

Sempre1630303

Oggi158

Ieri272

Questo mese5531

Il mese scorso9470

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ifigenia CCIV. Diverse ore piene di ammaccature.


 

Tornammo alla Campagnola e salimmo in camera sua. Si stese sul

letto. Volle che le tenessi una mano e leggessi i miei appunti del

mese di Marzo. Lessi le annotazioni copiose dalle quali avrei tratto

i due capitoli precedenti. Ifigenia ascoltava con attenzione.

Quando ebbi finito, disse:"bravo, continua così: ci sai fare."

Poi chiese il quaderno per scriverci sopra. Glielo diedi e volsi

lo sguardo fuori dalla finestra, ai monti cominciavano a coprirsi di rosa. "Presagio d'estate felice", pensai, come mi ero già detto  a Moena la primaverache precedette l'incontro con la ragazza bella bruna e vivace.

Allora si era avverato.

Rivolsi una preghiera al sole che rosseggiava tra le pietre dei

:"Falla diventare un'attrice famosa, e fammi scrivere un

capolavoro capace di educare un popolo intero". Il dio non diede

alcun segno. Invece mi chiamò Ifigenia per restituirmi

l'agenda con queste parole:"Caro gianni, sto male da morire. Ho il

fegato in cattivo stato: "visceri guasti dai ripugnanti sospiri” 9

  e mi sento quella persona infelice, malata che sono diventata. Ma io

non sono così di natura. Una delle mie caratteristiche è essere

sana oltre che allegra, vitale, ecc. Tu dici che vuoi il mio Bene e

secondo te il mio Bene è che tu continui a scrivere, a essere forte.

Dici che sono infelice e non ti chi… ". Qui si interrompe. In fondo

alla pagina sono disegnati due volti piccoli, con occhi grandi ma

poco espressivi, con capelli folti, nasi leggermente carnosi e

pronunciati, denti appena un poco fuori dalle labbra sensuali. Schizzi di ritratti.

A cena Ifigenia continuò a fare la grande malata: mangiò solo

del riso scondito, e subito dopo, tra lamenti e sospiri, volle tornare

in camera. L'accompagnai. Mi pregò di rimanere a dormire con lei.

 

La mattina seguente si svegliò guarita e contenta. Allora le proposi

di sciare con me, sulle piste del Lusia: il gruppo di mia sorella era

andato su quelle del San Pellegrino, perciò non avremmo

incontrato nessuno che, conoscendola, potesse vederla cadere,

posto che fosse caduta. Così la convinsi: infatti temeva il ridicolo.

Mi seguì in direzione della discesa Le Cune-Valbona che per un

principiante, a onore del vero, è alquanto difficile. Voglio dire che

 non fui un bravo maestro, né un amico, portandola da quella parte.

Comunque la precedevo, mi giravo e la incoraggiavo a tentare i

brevi tratti che ci separavano. Le davo pure suggerimenti vari sulla

tecnica sciistica dove del resto io stesso ho più da imparare che da

insegnare. Non potei evitarle di cadere innumerevoli volte, anche

pesantemente. Nei casi peggiori mi piombava addosso, e,

precipitando, mi trascinava con sé. Allora dovevo rimettere in

piedi tutti e due, con fatica ogni volta maggiore. Dopo pochi metri

di scivolata, ricadeva, più o meno male, ma sempre cadeva.

A metà discesa si tolse gli sci, esasperata e, credo, ammaccata; mi

accusò persino di avere voluto ammazzarla spingendola giù per quel

burrone scosceso.

Risposi che la pista non era nera, e che cercavo di insegnarle con il

metodo attraverso il quale avevo imparato io: anche a nuotare

avevo cominciato buttandomi dal moscone dove non toccavo,

quando non ero sicuro di galleggiare. Avevo sì e no cinque anni.

Replicò sdegnata che lei era diversa da me, e non voleva rischiare

la vita; quindi mi consegnò i suoi sci e cominciò a scendere

camminando. Ogni due passi imprecava. Mentre facevo la discesa

da solo, con i suoi attrezzi tra le braccia, pensavo:"Ma guarda se

quella, da quando frequenta una scuola di recitazione, deve avere

l'ardire di credersi una gran donna, superiore a te. Hai visto come

era goffa ? Hai contato quante volte è caduta? Se non ti

ama più siccome pensa di trovare un principe azzurro

nell'ambiente dello spettacolo, vada pure a cercarlo nel teatro l’eroe della sua pupazzata. Sarà lo strappo nel cielo di carta 10 della sua baracca dei burattini avanspetttacolo a darle coscienza dell'errore che ha fatto cambiando te

con una marionetta gesticolante. In fondo colei è stata pure una palla di piombo attaccata con una catena ai tuoi piedi leggeri  per invalidarne la

corsa. Oggi per esempio, sai quanto avresti sciato più volentieri

con tua sorella, o anche da solo, piuttosto che con quella noiosa

balorda! Per quanto riguarda la tua opera d'arte poi, non credere

che tale incapace sia necessaria; anzi, comincerai a scrivere con

impegno totale quando questa sciagurata Desdemona sarà andata via. E intanto, finché rimane, disturba. Antiquus amor cancer est: sparita lei, tu sarai libero da tanto tumore; passata la sofferenza della necessaria resecazione, ti sentirai veloce,  potente e potrai lanciarti spedito verso la meta dell'arte".

La aspettavo a Valbona. La vidi arrivare dopo una mezz'ora.

Avanzava  zoppicando eappoggiandosi sulle racchette.

"Vecchia e brutta", pensai.

Tornammo in albergo. L'accompagnai in camera sua. Guardai

l'orologio. "Sono le cinque-dissi-, adesso ci laviamo, ci riposiamo

un poco, e ci vediamo tra un'ora".

"Va bene-rispose-, a cena". Ma questa era alle otto: non voleva fare l'amore. Una volta non perdevamo nemmeno un’occasione  di pochi minuti, anche se non avevamo una stanza per la nostra libidine. Mi allontanai facendo questa constatazione triste. Scesi in camera mia, mi lavai e asciugai in fretta, poi uscii per parlare con i monti amici e con il santo volto di luce che tramontava. Erano quasi le sei. A quell'ora, nelle sere non annuvolate di primavera, le rocce antropomorfe prendono un colore  che suscita buoni presagi, evoca ricordi di maggi odorosi, di calde, aulenti sere piene

di voli. I  monti rosati dall'ultimo sole mi parlarono anche.

Dissero: "Non preoccuparti, gianni, non te la prendere. Non sei più

il bambino umiliato e maltrattato che dovevamo consolare

trent'anni fa, quando oltre noi non avevi nessun conforto per il

padre vacante, nessuna difesa dalle zie imperiose, dalla madre furente o silente e spensierata. Né avevi ricordi buoni. Ora sei un uomo di trentasei

anni e non sei male: hai avuto il beneficio dell'amore di donne

anche belle e fini ben più di questa, hai conosciuto il pensiero di persone intelligenti e geniali, hai costruito dentro di te una forza che nessuno potrà

sottrarti, che anzi si accresce di giorno in giorno mentre la

propaghi insegnando. Ifigenia è una ragazza bella assai, non è

proprio scema, non è ignorante del tutto, ma tu puoi trovare di

meglio.

Pensa a quanta strada in salita hai fatto da quando venivi qua

bambino angariato a domandarci:"Ditemi monti dal volto

umano, tu amico Piz Meda, tu caro Sas da Ciamp, tu fraterno

Mesdì, che cosa ho fatto di male per soffrire in questa maniera?

Fatemi capire in che cosa sbaglio, piccolo come sono, e smetterò.

Quali peccati ho commesso perché una zia possa denigrarmi


dicendo che sono un bambino scalmanato, perché la mamma

dai capelli neri e lucenti come le piume dei grandi uccelli che

planano adagio sopra le vostre foreste scure, dagli occhi grigio

verdi e inafferrabili come le trote dei vostri torrenti, in due

settimane che sono qui a patire aspettando, non mi ha mandato

nemmeno una cartolina con baci e saluti?"

Ricordi quanto  male ti andava? Camminavi solo su queste strade,

ed eri malvestito, e pativi, e non lo facevi per posa come oggi, soffrivi davvero per tante carenze soprattutto affettive,  eppure pensavi che ti saresti rifatto: un giorno, magari lontano, però sicuro, non saresti

più stato un mendicante di carezze in balìa di gente disordinata. Ebbene, da

allora diverse creature ti hanno amato; alcun persone ti hanno

ammirato; altre hanno dovuto temerti; i colleghi invidiosi ti hanno

fatto una guerra iniqua che giustamente hanno perduto, poiché gli

allievi hanno preso non loro, ma te quale modello di cultura e di

vita. Pensa alle donne che ti hanno donato l'amore nella gioia, o

l'amicizia nella contentezza, l'affetto e la solidarietà nei momenti

difficili. Ti è andata bene, gianni, molto bene ti è andata. E non è

finita qui. Dai retta a noi che siamo più antiche dei tuoi poeti, più

di Sofocle che prediligi, anche del poeta sovrano, l’antichissimo Omero siamo più antiche noi, e abbiamo visto tanta gente soffrire. Ma tu sai farlo con

dignità, con nobiltà, come i tuoi eroi della tragedia: tu dal dolore

sai trarre comprensione11 e accrescimento . Con la volontà buona e

l'intelligenza hai conquistato quanto nemmeno osavi sperare:

Elena, anzi due Elene, di cui una augusta, poi Kaisa poi Päivi, per esempio; poi altre, compresa Ifigenia. Cos'altro vuoi?

Dillo a te stesso, dillo a noi, e lo otterrai. Quella ragazza non l’hai mai voluta per sempre. Hai pensato che con la sua bellezza esterna volesse sottomettere la tua interiore, meno apparente ma più produttiva e reale, e non hai voluto scambiareoro con rame, come fece con Diomede  Glauco12 cui Zeus tolse il senno . Non è così?"

Ammisi tutto e ne fui confortato. Capii che avevo motivi razionali e

reali per essere ottimista. Ringraziai i monti amici, le convalli

rifugi di fiere montane, i dossi sporgenti, le rupi scoscese a me

familiari , e tornai alla Campagnola.

Note

9

E' un verso del terzo coro del dramma che avevo scritto in Dicembre: La scuola

corrotta.

 

10

Cfr. Pirandello, Il fu Mattia Pascal, cap. XII.

 

11

Cfr. Eschilo, Agamennone, vv. 177:" tw` pavqei mavqo~”,

attraverso il dolore la comprensione.

 

12

Cfr. Iliade, VI, vv. 234-236.


 

 

Pesaro 17 ottobre 2024 ore 12, 02 giovanni ghiselli

p. s

Statistiche del blog

Sempre1630262

Oggi117

Ieri272

Questo mese5490

Il mese scorso9470

 

 

 

 

 

 

Ifigenia CCV. Il ritorno a Bologna e il colpo di scena.

  Entrai in camera mia. Erano circa le sette. Poco dopo arrivò Ifigenia, assai complimentosa. Probabilmente aveva p...