sabato 4 maggio 2024

Ifigenia CLX. L’ospedale di Debrecen. Il delicato corteggiamento del vecchio dentista.


 

Nei giorni seguenti, intorno al ferragosto,  vissi alcune ore di buona speranza: una serie intermittente di minuti nei quali immaginavo di ritrovare la bella Ifigenia come la sera di novembre quando venne a trovarmi innevata e innamorata salendo le scale come una baccante nella ojreibasiva invernale in onore di Dioniso, oppure la vedevo camminare in primavera sui prati fioriti dove il vento le gonfiava la gonna scoprendo le ginocchia rotonde e parte delle cosce tornite e profumate di vita, oppure la ammiravo di nuovo sull’aia deserta illuminata tutta dal sole ardente di giugno, nuda e incoronata di spighe come l’estate.

 

Tali ricordi pieni di gioia si alternavano con cupe visioni dove Ifigenia appariva quale immonda strige dalla fauce avida, dal morso pieno di denti, dalle fessure oculari che mi fissavano cercando di gettarmi addosso un malocchio paralizzante.  

 

Di questi ultimi giorni della Debrecen 1979 ricordo anche una scena simpatica siccome naturale e vivace.

Era lunedì 13 quando accompagnai l’amica Isabella dentro il grande complesso  ospedaliero  dove nel luglio del ’71 avevo portato Elena che voleva sapere se fosse incinta o malata di cancro. Sentiva dolori nel ventre, il ventre suo benedetto, ricco di vita.

Volevo aiutarla certo, ma non senza l’inteno di rendermela riconoscente e predisposta a contraccambiare il piacere di averle evitato l’autombulanza con un altro diverso e più grande piacere del quale avevo bisogno.

 Isabella non era una ragazza di tipo splendidissimo, tuttavia era gradevole  in quanto  dotata di stile, quindi aveva interessi elevati e a me congeniali come, per esempio,  il teatro. La accompagnai dunque nella clinica odontoiatrica senza l’intento palese o recondito di fare l’amore con lei. Tale mancanza di secondi fini mentre aiutavo una ragazza che non mi spiaceva, era segno di un pogresso non piccolo rispetto alle svariate volte in cui avevo dato una mano a una donna con lo scopo finale, latente tuttavia non secondario, che era diverso dall’aiutarla.

Quel giorno pensavo a Elena più che a qualsiasi altra persona: passando di fronte all’edificio con il frontone dove si leggeva “clinica delle donne malate e pregnanti” rivolsi un pensiero di riconoscenza alla finlandese bella e fine che con il suo dono meraviglioso mi aveva aiutato a trionfare sulle frustrazione che tante persone brutte, disordinate e cattive mi avevano inflitto. 

 

Il dentista era un vecchierello canuto, onesto e simpatico. Fu gentile con noi e bravo: lavorò bene, non volle denaro e parlando nella sua lingua con chierezza tranquilla, mi diede la possibilità, assai gradita, di tradurre tutto quanto diceva a Isabella che manifestava un amabile terrore. La ragazza che parlava italiano, con forte inflessione napoletana per giunta, si faceva capire siccome l’anziano odontoiatra conosceva il latino e anche per quella magica capacità che hanno le fanciulle carine di comunicare ai maschi più o meno attempati i loro desideri usando, ancora prima di qualsiasi strumento logico, la meravigliosa vitalità della giovinezza  e gli eterni, potenti richiami del sesso.

Il vecchio fece un’iniezione anestetica alla ragazza che, sebbene paziente, quel giorno era più bellina del solito, poi le disse che doveva aspettare almeno dieci minuti.

“Se vuole, rimanga qui signorina, ma, se preferisce, faccia pure due passi con il suo fidanzato”. Mimò la mossa dell’ambulare muovendo buffamente l’antico fianco.

Isabella rispose che non ero il suo fidanzato ma un amico.

Lo sussurrò con un tono dolce, sebbene un po’ impastato dall’iniezione.

Era spaventata dall’operazione cruenta che la attendeva ma anche un poco allusiva e stuzzicante nei confronti del simpatico anziano che, infatti, le disse: “Va bene kedves kisasszony, signorina cara, resti pure seduta qui, ma badi: siccome il giovanotto è solo un amico, io la corteggio: udvarolok. 

Quel dottore non mirava al fiorino o al dollaro: non aveva altro scopo che  curare la giovane senza farle paura; il suo stile era bello, il tono cordiale; Isabella era impaurita e gradevole: non si lamentava né faceva pesare la sua paura; io volevo aiutarla senza aspettarmi alcuna ricompenasa: tutta la situazione era limpida e mi faceva obliare la partita truccata che da qualche tempo Ifigenia voleva giocare con me per usarmi il più possibile prima di andarsene via piantandomi in asso, perfidamente.

Ma come Arianna abbandonata in Nasso da Teseo, me la sarei cavata trovandone una del mio stampo, della mia levatura, una donna di grande formato se non una dea.

 

Bologna 4 maggio 2024 giovanni ghiselli ore 19, 30

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Ifigenia CLIX. Il sogno angoscioso e la sua interpretazione.


 

La notte tra l’11 e il 12 agosto feci un sogno angoscioso.

Mi vedevo a Pesaro nella casa delle zie, mentre studiavo e aspettavo un segno da Ifigenia. Ero in camera mia, al secondo piano, quando udìi un suono flebile, come il frusciare delle ali di un uccello ferito. Veniva dal piano di sotto, forse dall’atrio dove si trovava il telefono. Era debole e fioco, tuttavia mi entrava nel cuore mettendolo in agitazione. Pensai, dormendo e sognando, che quel suono di morte  potesse essere una richiesta di aiuto. Allora mi vidi mentre uscivo dalla stanza e mi lanciavo giù per le scale. Queste però si muovevano verso l’alto come i gradini di ferro che avevo visto salire e scendere tra i piani della Rinascente di Milano nei primi anni Cinquanta, non senza stupore. A Pesaro non erano ancora arrivate.

Correvo all’ingiù ma guadagnavo poco terreno a costo di enormi fatiche poiché i gradini dentati di quella scala ferrigna mi riportavano in su con una velocità quasi pari alla mia.

Oltretutto davanti all’ultimo tratto del ferreo tappeto che risaliva ruotando c’era un ostacolo: un inginocchiatoio con sopra la foto di un bambino nel giorno assai triste della prima comunione. Aveva l’aria di un orfano denutrito, infreddolito, reso spaurito e pallido dai patimenti. Chi era? Ero io? Era nessuno? Erano tutti i bambini infelici?Con uno sforzo supremo riuscivo a raggiungere il penultimo gradino, a saltare la barriera e ad afferrare il telefono.

“Pronto dissi con l’ultimo fiato. Sono gianni, pronto”.

“Pronto” rispose una voce tanto lontana e fioca che sembrava provenire dal paese nebbioso dei morti dove il sole non brilla mai.

“Sono Claudia, la sua allieva, si ricorda di me?

“Oh, sì, certo, ricordo, ricordo benissimo te, il Minghetti i suoi lunghi corridoi scuri nelle mattine invernali, i sorrisi viceversa luminosi di voi giovani e la collega venuta dal cielo a rallegrarmi nella stagione dolente. Bella era bella, tuttavia dozzinale”

Seguì un poco di silenzio, quindi Claudia mi domandò:

“Ha saputo cosa è successo?”

“No, che cosa?”

“Una cosa terribile prof”,  disse l’alunna

“terribile come? terribile a chi?”

“Una cosa terribile, terribile”, ripetè, poi tacque

Allora gridai: “A chi, a chi, alla vita della mia vita?”

Quindi iniziai a singhiozzare convulsamente e continuai, fino a quando il vecchio ceco che dormiva nella mia stanza, mi diede una strattone e mi svegliò.

Questo fu il sogno “che del futuro mi squarciò  ’l velame”.

Avevo bisogno di respirare cultura, mito, bellezza e poesia se volevo imprimere sulle mie miserie l’impronta dell’eterno.

Questa era la comprensione più profonda di tanto dolore

 

Durante la colazione non parlai con nessuno né mi guardai intorno.

 Cercavo di interpretare le immagini oniriche pervenute dall’inconscio avvalendomi della lettura dei libri di Freud. Sapevo che la censura maschera il significato vero di quanto vediamo e questo cerca di rimanere latente. Volevo svelare  la verità che in greco oltretutto si dice ajlhvqeia, ossia “non latenza”.

Molto probabilmente la terribile notizia paventata al punto da farmi singhiozzare, io sotto sotto me l’aspettavo e addirittura la desideravo: Ifigenia me ne aveva fatte troppe perché potessi ancora desiderare una vita con lei. Non funzionavamo insieme: dovevo cercarmene un’altra. Oramai la lunga, vana e penosa attesa dell’epistola promessa  aveva causato in me un disgusto profondo per la giovane collega e amante, per quel mio pedagogico aborto, quel fallimento educativo nonostante tutte le fatiche umanamente spese per rendere buona quella donna che oramai mi appariva quale un diavolo incarnato.  Prospero e Calibrano novelli eravamo noi due.

In lei vedevo disordine mentale, ingratitudine, mancanza di quella finezza d’animo di cui ho sempre sentito il bisogno nel prossimo mio.

 Mi sovvenni di quando l’aspettavo trepido sulla spiaggia di Pesaro, e lei, appena arrivata, disse con un sorriso sfacciato, plebeo, che in treno aveva vissuto tre quarti d’ora allegri e piacevoli, con un ferroviere fantastico.

“Di certo un cuccettista scaltro, abile nell’approfittare di ogni impudica atraente e disponibile”, pensai.

Mi ricordai pure della sera quando, arrivato a Pesaro intorno alle 10 dopo un viaggio lungo e noioso sull’autostrada, ricevetti una telefonata da Ifigenia che mi chiedeva con insistenza di tornare indietro fino a Misano.

Ero reduce dallo scrutinio dell’esame di maturità al Beccaria di Milano ed ero  assai affaticato, eppure ne fui contento. Ma  quando l’ebbi raggiunta, mi raccontò che nel pomeriggio era stata sul moscone con un uomo interessante , un professore più o meno della mia età, molto esperto di donne che le aveva proposto, solo ioci causa certo, di entrare nel suo harem. Aggiunse che nel serraglio non sarebbe entrata, ma se io non ero troppo geloso sarebbe uscita con lui qualche volta la sera mentre ero a Debrecen. Risposi che doveva deciderlo lei.

Da tale comportamento ho imparato a non essere geloso: dopo Ifigenia quando una si è messa a ingelosirmi per scherzo o sul serio, ho cambiato subito aria. Ho cacciato dal mio cervello il mostro dagli occhi verdi che ha annientato Otello rendendolo pazzo e assassino di Desdemona, la disgraziata.

Poi l’ultima iniezione di veleno nel mio sangue già intossicato da lei: la promessa non mantenuta dell’espresso postale.

Conclusi che il sogno mi aveva indicato la via della ritirata da quella donna. Non mi aveva ancora lasciato ma io vivevo già senza di lei.

Sul mezzogiorno andai a correre i 5000 metri: 20 minuti e 15 secondi. Un poco meglio dell’ultima volta. Dopo la prova, Isabella che era venuta a cronometrarmi, disse: “se la tua compagna non ti scrive perché amoreggia con un altro ma vuole restare ancora del tempo con te perché le conviene, stai certo che non ti farà sapere niente della sua estate.  Il suo tempus tacendi sarebbe già scaduto se tu le stessi a cuore. Credo che aspetti di vedere come andrà a finire con il ganzo dell’estate. Se finirà male con quello e avrà ancora bisogno dell’aiuto tuo, dirà che ti ha sempre amato e non ti ha scritto perché paventava la tua critica letteraria”. Isabella era lucida assai

 

Bologna 4 aprile 2024 ore 9, 04 giovanni ghiselli    

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venerdì 3 maggio 2024

Ifigenia CLVIII. Preghiera al dio Sole. Saluti alla signora e alla signorinella magiare.


 

Pregai il sole già molto vicino al margine occidentale della grande pianura.

“Aiutami Sole, a trovare dentro questo lungo travaglio l’idea del Bene di cui tu doni agli occhi mortali l’immagine visibile.

Dammi la lucidità necessaria per trovare nel dolore la comprensione del mio viaggio terreno, della serie di cause che mi hanno condotto fin qui e mi guideranno fino alla morte di questo involucro. Voglio assecondare il mio fato comunque esso sia. In ogni caso non mi sembra meschino. Ho già educato centinaia di giovani. Vorrei diventare maestro di un popolo intero. Questa sofferenza, se me la sono cercata e la coltivo, vuole dire che è dovuta alla mia crescita, al mio progresso di educatore. Sulla fellona che non mi dà risposte, in verità non mi sono mai creato illusioni. Non risponde perché non mi corrisponde: non è del mio stampo. Mi ha potenziato con il piacere che mi ha offerto, ma ora devo cercare di trarre altro potenziamento dalla intelligenza di questo dolore. Ho sempre imparato dalle sofferenze e dalle ingiustizie subite. Aiutami a capire santa faccia di luce, mente dell’Universo. Aiutami a non impazzire per tanta pena, anzi a diventarne più saggio”.

Dalle canne della palude verde saettavano schiere di rondini verso sinistra, simili a frecce alate. Ottimo segno: volatus avium dirigit Sol invictus.

“Con il tempo-pensai- ho imparato che i segni del cielo sono tutti buoni se sappiamo volgerli al bene. Anche le sventure possono essere provvide. Sono funzionali all’insieme della vita: alla mia come a quella dell’Universo.

Scio sad conservationem Universi pertinere[1]”.

 

Alle 19, 41 il sole vermiglio spariva nella terra nera. “Dai contrasti bellissima armonia. –pensai ancora-Augurio di più sereno dì al pio educatore. Ma sono pio e sono davvero un educatore? Alcuni lo negano, altri lo giurano: sono segno di contraddizione anche io, come Socrate, Giovanni Battista, Cristo e altri profeti”.

Ritenni che non aveva più senso rimanere lì fuori da monaco solitario.

Rischiavo di compiacermi della solitudine fino a diventare un anacoreta demente.

Volevo rivedere la bambina con la madre per cogliere dei segni vocali da loro. Significavano molto parlando. Tornai seduto dov’era stato un quarto d’ora prima. La bella signora e la signorinella c’erano ancora.

La bambina mi domandò:

 “Dove sei stato Janos?”-

“A pregare, Sarolta”

“Chi, Gesù?”

“No; il Sole che è la sua immagine visibile. Pensa che gli antichi consideravano il Natale come il giorno della nascita del Sole”

“Come mai?”

“Perché nelle giornate più corte pensavano che stesse morendo, poi vedendo che la luce cresceva, credevano che fosse guarito e che rinascesse”

“Quale grazia gli hai chiesto pregandolo?”

“Di mettere al mondo una figlia simile a te”

“Perché simile a me? Io non sono tanto buona”

“Lo diventerai se studierai e farai sport. Molto buona e bella assai, come tua mamma”

Ero riuscito a dire queste semplici frasi in ungherese.

La signora mi fece un sorriso e mi ringraziò.

Poi mi domandò se fossi italiano

“Sì, risposi dell’Italia centrale. Come ha fatto a capirlo?’”

“Dal naso e dalla  cortesia usata a noi due. Ho pensato che lo è tipicamente”.

“Anche voi siete state carine con me. E siete tipicamente, splendidamente magiare. Ora vi devo salutare: vi auguro il meglio di tutto. Lo meritate”.

“Grazie. Questo vale anche per lei”.

Mi alzai e uscìi pensando: “missione compiuta. Ho raccolto i segni vocali di cui avevo bisogno”.

Dopo i complimenti di quelle due femmine umane beneducate potevo essere soddisfatto di me. Mi aveno fatto capire che meritavo una donna migliore della ragazza fallace che voleva indebolirmi cercando di farmi soffrire.

Sicché tornai in collegio e andai a dormire senza altro dolore.

 

Bologna 3 maggio 2024 ore

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[1] Cfr. Seneca Ep. A Lucilio, 74, 20.

Ifigenia CLVII. Il teatro di legno, la puszta e la csárda

.

 

Nella O di legno[1] del teatro  dunque l’anno seguente a questo che sto raccontando la mia giovane amante avrebbe pregato.

Chiedeva al buon Dio di farla diventare un’attrice famosa.

Insegnare proprio non le piaceva. Bella era bella kalh; kalhv[2].

Alle sue spalle, c’era la scenografia: il paesaggio non dipinto ma vero: le canne, il fiume paludoso, il ponte a nove arcate, il cielo. Davanti, sulla càvea, non c’era altro pubblico che me e Fulvio intento a fotografarla. Bella era bella. Ma debole e vana, mio Dio, nervosa, non abbastanza proba e colta, e nemmeno tanto astuta e dura da evitare di venire strapazzata, stritolata, inghiottita e vomitata da globo cattivo e corrotto dove voleva entrare nuda inopsque.

In quel mondo  spietato, clientelare, mistificatòrio, le relazioni sono rapporti di forza e di potere. Lei aveva solo la transeunte, effimera venustà della giovinezza. Per giunta il suo sguardo non era abbastanza espressivo né in termini di dolcezza né in quelli della potenza. Aveva commosso me per il mio narcisismo nel tempo in cui mi imitava. Poi avevo perso interesse in seguito ai  suoi sgarbi, al suo egoismo, figli della sua scarsa immaginazione. Senza questa non si capiscono gli altri e non si può divenire un buon attore.

Avrei voluto comunque aiutarla a diventare forte e bella per sempre, non certo vomitarla dopo averla mangiata[3]. Altri l’avrebbero fatto probabilmente.

 

Ma torniamo all’agosto del 1979 . Osservavo i maiali edaci e obesi come sempre. Mangiano molto e capiscono poco. Pensavo: “I porci si nutrono, poi noi ci nutriamo di loro. Negli uomini che non sanno o non vogliono pensare l’anima forse serve soltanto a preservare il corpo dalla putrefazione, come fa il sale con i prosciutti di questi suini onnivori. Adesso chi sa pensare ed è capace di parlare con chiarezza, togliendo alle persone e alle vose le maschere imposte dal sistema, rimane isolato. Questo è un grave rischio per me. Io infatti vorrei vivere una vita politica, al servizio degli altri”.

Dalla csárda veniva il suono dei violini che  intonavano le danze ungheresi di Brahms. Soffio possente di un fatale andare[4] sempre più avanti, quasi sicuramente da solo, come quando arrivai in Ungheria nel luglio del ’66, come quando me ne andrò per sempre via dalla terra con la più eroica delle morti: senza nessuno vicino.

Ma nella vita che mi resta voglio imparare dell’altro e fare del bene.

Una donna che non risponde alle mie iterate  suppliche di  mandarmi una lettera, certamente non mi aiuterà. Anzi mi toglierebbe le grandi forze necessarie alla mia opera se rimanessimo insieme. Voglio procedere metodicamente sulla strada in compagnia di persone che condividano i miei gusti, i miei scopi, il mio bisogno di cultura e di arte”.

 

Intanto sopra il teatro di legno  avanzavano nuvole grosse, acquose: provenivano da ovest muovendosi verso il centro del cielo. Coprirono il sole portando un buio precoce, autunnale oramai. Mi si stringeva il cuore. I maiali invece continuavano a grugnire, a spalancare le fauci e mangiare. Una vita la loro senza logos e con il solo pathos del consumo di cibo e di sesso, come certe pseudopersone con l’aspetto usurpato di uomini e di donne. Andrebbero recuperati a  quanto non è solo bestiale. Fare capire che l’umano riguarda anche loro

Le nubi coprivano grandi tratti  dell’immensa pianura. Le automobili sulla strada di Eger accendevano i fari. Erano solo le sette di sera, ora legale. Da alcuni comignoli si alzavano spirali di fumo. Era già autunno. Mi aspettavano mesi molto difficili se quella mi lasciava o mi costringeva a scappare ad maiora mala vitanda. A un tratto le nuvole raggiunsero la parte orientale del cielo, verso l’Unione Sovietica, e il dio si spogliò dalle nere e acquose, piagnucolose gramaglie .

Era più bello che mai: grande, rosso, e specchiandosi nell’acqua sotto le arcate si raddoppiava. Si inclinava sulla dea madre terra e le due immagini erano molto vicine. Si baciavano quasi. “Buon segno”, pensai. “domani mattina, o forse già questa sera, miracolosamente troverò la posta che salverà questo equilibrio”. C’era un senso di pace nell’aria. Una cicogna dalle ali ampiamente spiegate volava verso il nido per nutrire i pulcini e passarvi la notte. Anche io presto sarei tornato ai miei affetti. Se Ifigenia non aveva scritto, c’erano pur sempre i libri dei miei autori e la bicicletta, organi sempre vivi della mia contentezza . Poi l’amico carissimo Fulvio e gli studenti sempre amati. E avrei trovato un’altra donna meno disordinata e cattiva. Così tra il rassegnato e il confortato entrai nella csárda.

Andai a sedermi al tavolo dove ero stato  con le  tre  finniche: Helena, Kaisa, Päivi in tre anni già allora parecchio lontani. Dall’ultimo erano passati gà cinque anni, un grande spazio nella vita di un uomo. Ricordare quelle tre muse mi spingeva a scrivere. Erano state loro le prime a scoprire il mio valore e a farlo riconoscere a me: ogni cosa buona che ho fatto la devo a loro. Con l’aiuto che mi veniva dal ricordo del bene ricevuto da quelle tre donne fatidiche trovavo la forza di rifiutare chiunque volesse svalutarmi e avvilirmi.

Dunque scrissi: “Dopo non avere degnato di una risposta le mie suppliche e non avere mantenuto una promessa inviata in fretta  con un telegramma, tra una baldoria e un’altra, Ifigenia nihil iam putabit esse nefas nei miei confronti: crederà di poter infliggermi qualunque torto, menzogna e umiliazione”.

Cercavo le parole forti e atte a deprecare la sciagurata, quando una bambina bruna bruna di sette-otto anni che si trovava seduta su una panca contigua mi domandò perché non scrivessi in ungherese.

“Perché non lo so fare-risposi-conosco solo poche parole nella tua lingua”

“Per esempio?”

“Queste che sto dicendo a te”

“E poi?”

“Sei molto bellina. Come ti chiami?”

“Sarolta[5]. E tu?”

“gianni, Jáno".”

La mamma seduta di fianco alla figlia intervenne: “Sarolta, ringrazia il signore e lascialo scrivere”

Allora la bambina disse, riempiendomi il cuore di gioia: “sei carino anche tu”.

“Grazie creatura”. Poi aggiunsi: “complimenti signora per questa bella bambina. Non c’è dubbio che sia sua figlia. Talis mater”. Mi guardò stupita forse non si aspettava di venire corteggiata davanti alla figlia.

Ma io davanti a una bella donna non riesco a non farlo. Avevo comunque capito che bastava così. Corteggiare sempre, molestare mai.

Quindi le lasciai in pace. Non senza pensare che se al mio letto di moribondo si avvicinerà un’infermiera carina la corteggerò con l’ultimo fiato e se questo angelo mi farà un sorriso ne sarò rallegrato in punto di morte.

“Ecco- ripresi a scrivere- la mia compagna ideale dovrebbe essere ingenua e diretta come questa cittina. Le finniche un po’ primitive, pure se colte, si avvicinavano a questo modello. Con loro avevo potuto parlare senza infingimenti. Dopo altri cinque anni di partite a scacchi o di poker, insomma di bluff, con le amanti, le colleghe, i colleghi, i presidi e così via, non ne posso più di finzioni.

Perché quella non scrive? Come puoi avere ancora dei dubbi? Perché non ti ama. Allora se non sei un budello, se sei un uomo umano nei tuoi stessi confronti devi disprezzarla e rigettarla. Già senti la nausea. Mettiti un dito in gola, l’indice, e vomitala tutta”.

Uscìi dalla csárda. Il sole si era avvicinato tanto alla strada di Eger da trasformarla in un tappeto di porpora. Una guida verso l’eternità dell’arte o la via dolorosa verso una morte straziante? Mi sovvenne il sire Agamennone[6]

Bologna 3 ottobre 2020 ore 12, 15 giovanni ghiselli.

p. s

Ora basta leggere e scrivere, a[li~, satis. Via in bicicletta su e giù per i colli. Altrimenti mangiare sarebbe u{bri". Nessuno al mondo potrebbe più trovarmi carino. Nemmeno decente. Io poi troverei immondo me stesso.

 

Bologna 3 maggio 2024 ore 11, 45 giovanni ghiselli

 

p. s.

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[1] Cfr. di nuovo Shakespeare, Enrico V, prologo 13 “this wooden O”

[2] Cfr. Callimaco, Antologia Palatina, XII, 43, 5

[3] Cfr. Shalespeare, Otello dove Emilia, la moglie di Iago, dice:

 “ ‘Tis not a year or two shows us a man

They are all but stomachs and we all but food;

They eat us hungerly, and when they are full

They belch us. Look you, Cassio and my husband” (III, 4)  

 

[4] Pascoli, Alexandros , v. 34

[5] Carlotta

[6] Cfr. Eschilo, Agamennone, 910: “porfurovstrwto" povro"

Ifigenia CLVI. Pensieri del 9 e del 10 agosto


 

Salito in camera rimuginavo: “Aspetta il mio espresso”, aveva telegrafato. Poi qualcuno le ha fatto cambiare roposito. Chissà quale rozzo bagnino l’ha stuzzicata , o quale borghesuccio l’ha manipolata dopo essersi spacciato da gran signore”.

“Faccia il tuo grande signore, gran signora pure te”, canticchiavo simulando noncuranza. Invero era il lugubre qrh`no", il canto funebre dell’amore morto male.. Poi tornavo a fare ipotesi più o meno balorde: “Oppure, perversa com’è, magari si è data da fare con il collega di religione, quello cui  sfacciatamente faceva vedere le mutande celesti tra le coscione sudate durante la gita scolastica sul lago di Garda, a Sirmione. Salve o venusta, le aveva detto il domine non so quanto turbato, ma forse era un sant’uomo e probabilmente più che a lei si rivolgeva a Sirmione”.

Tali erano gli arzigogoli del mio cervello arido e inconcludente mentre calzavo le scarpe di gomma, rosse e non poco fetide, le stesse che le avrei prestato due anni più tardi quando andammo sull’ombelico del mondo a pregare Apollo, il signore di Delfi, perché ci concedesse felices in cetera cursus, corsi ricchi di successi in quanto restava da fare a me e a lei. Allora i nostri corsi erano già volti in direzioni diverse. Eravamo contenti del discidium avvenuto. Si poteva fare l’amore lo stesso e non avere più il problema assurdo della fedeltà. Avevo finalmente capito che non potevo imporlo a chi non ne era capace. Quel 9 agosto invece mi allacciavo le scarpe puzzolenti per correre e liberarmi dalle tossine dell’odio. Feci un tempo mediocre: superiore ai venti minuti. La pena mi appesantiva l’anima e il corpo.

Il giorno seguente, 10 agosto,  andai a Hortobágy da solo. Partìi alle quattro del pomeriggio dopo avere atteso tutti i passaggi del postino. Invano. Come succedeva a Moena, in via Damiano Chiesa 11 dove passavo parte dell’estate negli anni Cinquanta sotto la tutela della zia Giulia, aspettando ogni giorno per diverse  ore almeno una cartolina della mamma anche lei bella e bruna, pure lei ognora silente.

Quel pomeriggio di fine estate dell’anno 1979 il cielo era tutto sereno: a mano a mano che il sole calava sulla grande pianura un po’ desolata lo supplicavo di farmi avere un segno da Ifigenia. Ma il dio non accennava ad ascoltarmi, a esaudimi: avrei preso per buono finanche un cenno pur quasi impercettibile della sua luce. Io l’avrei notato e ne sarei stato immensamente felice.

Allora mi venne in mente il pomeriggio radioso del luglio del 1974 quando andai là nella puszta con Päivi che credevo fosse il massimo scopo della mia eterna ricerca. C’erano Bruno, Silvano e due tedesche amiche loro. Sei giovani educati, contenti, in due automobili. Uno dei momenti più belli della mia vita mortale fu quando scesi dalla Volkswagen e andai a urinare in direzione del sole. Dio allora mi ascoltò, Dio mi esaudì. E’ stata l’ultima volta che ho amato una donna senza nessuna riserva. Nei cinque anni passati da allora il caro Bruno era morto e gli altri quattro erano andati comunque lontano da me. Anche la nostra bambina era morta.

Avevo fatto un po’ di carriera nella scuola. Poca: insegnavo al ginnasio.

Non avevo desinato quel giorno. Non ne avevo sentito il bisogno. Farlo non mandante fame, senza la richiesta della fame sarebbe stato un abominio, il crollo della mia identità, la ricaduta nella depressione infernale del 1966.

Mi fermai sul luogo dell’atto magico di cinque anni prima. Ero già innamorato di Päivi e mi sentivo contraccambiato. Lo ero. Facemmo l’amore quella sera stessa, la sera della festa della conoscenza: in tutti i sensi. Meravigliosamente io la conobbi nel collegio numero due. Nella luce del sole vedevo riflessa la  donna amata quantum amabitur nulla pensavo. In lei avevo visto la luce di cui avevo bisogno.

Mi rivolsi all’amico morto ante diem e sempre rimpianto

“Allora ci bastava poco per essere felici. E’ ve’ Bruno? Ci bastava una ragazza fine e bellina assai, una per uno, se no si litigava. I nostri attriti di certi momenti dipendevano dal fatto che tanto a me quanto a te dava fastidio che l’altro, temuto magari a torto come rivale, piaceva alle donne lui pure, e ognuno di noi temeva di piacere di meno. Ma poi nell’età allegra di quegli anni con una ragazza a testa, una bottiglia di Egrikikavér, un bagno in piscina, una partita a tennis e due ghiribizzi eravamo contenti. Si era giovani molto e ci si accontentava. Ragazzi ghiribizzosi eravamo. Tu caro amico, sei rimasto giovane e bello fino alla tua dipartita. Quando ti penso, mi tornano in mente le gioie ancora ingenue dei nostri venti anni che si avvicinavano ai trenta però, e incombevano già tempi peggiori per tutti. Il 1974 fu forse il limes, o limen se preferisci, da giurisperito qual sei.

 Tu non l’hai oltrepassato quel confine tra la nostra età dell’oro e le successive sempre più tristi. Non dico meglio per te, per carità, non lo dico, ma è vero che ti sei risparmiato tanti orrori, tante delusioni, tante faticose miserie che rendono vecchi.

Poi con gli anni , mentre le forze scemano, crescono le pretese. Adesso ci vuole altro che la ragazza bellina e una bottiglia di vino per essere appagati. Io ho bisogno di onestà, pulizia, intelligenza, cultura. Ifigenia la mia donna, non tiene fede alle promesse. Bella è bella ma una voce mi dice: “un altro amante la tiene in pugno”.  Poco, fa in piscina, ho contato i battiti cardiaci: quarantadue in un minuto. Ancora qualcuno in meno poi ti raggiungo dove sei ora: forse là, nella pianura Elisia ai confini del mondo dove è facilissima per i mortali la vita[1], dove staremo bene come nel collegio di Debrecen quando eravamo nel fiore noi due. Ti ricorderò nel capolavoro che scriverò quando le Muse mi spingeranno a essere l’aedo di Debrecen. Fulvo me l’ha profetizzato e io aspetto l’ispirazione. Se arriverà,  neanche tu omnis morieris[2]”.

 

Mi ero seduto sul paraurti posteriore della bianca Volkswagen. Pensai queste parole e le scrissi. Poi ripartii e arrivai a Hortobágy. Salìi sui gradini-sedili del teatro di legno situato davanti al fiume e al ponte famoso, quello a nove arcate: il kilenclyukú híd.

Luogo di ricordi e pure di attese di eventi futuri: l’anno seguente sul palcoscenico di quel piccolo teatro Ifigenia in scarpe da ginnastica, calzoncini bianchi attillati e maglia rossa, aderente,  avrebbe alzato le braccia al cielo gridando : “

O! for a Muse of fire, that would ascend

The brightest heaven of invention[3] .

Voleva lasciare la scuola per recitare nei teatri i drammi dei grandi autori e io avrei voluto diventare il più grande di tutti.

Non sapevo che da conferenziere avrei recitato tante parti anche io.

Intanto Fulvio, l’amico caro e profetico la fotografava.

 

Bologna 3 maggio 2024 ore 9, 55 giovanni ghiselli

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[1] Cfr. Odissea, IV, 563ss.

[2] Cfr. Orazio Odi, III, 30, 6

[3] Shakespeare, Enrico V Prologo vv. 12. Oh per una Musa di fuoco che sapesse salire al più luminoso cielo dell’invenzione

giovedì 2 maggio 2024

Ifigenia CLV In piscina con Giulia. Fedeltà o tradimento? Questo è il problema.


 

Il pomeriggio  del 9 agosto andai in piscina con la bella ragazza serba. Giulia era formosa e venusta in qualunque modo fosse vestita; in costume da bagno però era una specie di Afrodite slava: alta e snella senza essere secca né mascolina, con una piccola testa folta di capelli biondi che le incorniciavano un viso ovale, minuto e illuminato da due grandi occhi cerulei. Inoltre era giovane molto.

“Eh sì, eh- disse Fulvio una volta-la donna deve essere giovane!”

Stavamo fantasticando al buio nello studio tra le 2 camere della stanza numero 4 del secondo collegio.

Quindi l’amico accese un fiammifero, si illuminò il volto, poi con sguardo ironico e malizioso aggiunse: “l’uomo no!”.

 

Ricordarlo me lo fa sentire ancora vicino. Dentro di me Fulvio è ancora vivo, come le persone più care e preziose per questa mia vita mortale.

Ora devo mettere una citazione antica per non cadere nel soggettivo e per ribadire che i classici parlano di noi, delle nostre esperienze e ce le chiariscono. Al contrario i cattivi scrittori confondono, complicano, imbrogliano. Perché non capiscono e non amano la vita. Proprio come le persone cattive.

 

Ecco dunque la citazione tratta dall’Oreste di Euripide tradotto da me parola per parola, con rispetto e con amore. Perché anche gli autori sui quali ci siamo impegnati, ci diventano cari quanto gli amici.

Euripide e Fulvio, due carissimi amici.  

Il  vecchio aedo che sono continuerà a ricordarli, a citarli, nei suoi canti.

Oreste dunque dice queste parole riferendosi a Pilade che gli ha offerto il proprio aiuto

“Questo è quel precetto famoso: procuratevi degli amici, non solo la parentela/,

poiché un uomo che nel carattere si è fuso insieme, anche se è un estraneo,/

è migliore di diecimila consanguinei” (804-806).

La fusione delle anime è la quintessenza dell’amicizia e dell’amore.

 

Ebbene la Venere di Novi Sad non aveva ancora compiuto venti anni.

Se ci fosse stato Fulvio mi avrebbe esortato ad acciuffarla come si deve fare con il kairov", il momento opportuno, l’occasione che è calva di dietro.

Calvo e bastonato invero rischiavo di rimanere io continuando a soffrire per una lettera che non arrivava e pur se fosse arrivata sarebbe stata lordata dalle menzogne.

Ma Fulvio purtroppo non c’era e io, desolato com’ero e mentalmente  suggestionato, incantato da quella Circe, pensavo che ci fosse il massimo di  forza e di vita nella sua epidermide bruna, nei capelli violacei, negli occhi neri come prugne, nella bocca rossa, ridente e fresca come i lamponi che coglievo e succhiavo nei boschi di Moena da bambino.

Di quella giovane donna allora ricordavo solo i momenti migliori: quando tendeva le braccia verso di me come una rosa in boccio si stende sul proprio stelo ai soffi fecondatori dell’aria già tiepida.

Nella bionda lì presente non trovavo una fonte di vita altrettanto sapida e deliziosa per il mio gusto che le finlandesi avevano raffinato con i loro sapori forti e delicati.

Poi loro tre sono sparite fisicamente e Ifigenia dopo Debrecen non mi appariva più come un miracolo, anzi non mi piaceva più.

 

Una relazione a casa l’aveva anche Giulia: lei però non aveva giurato né promesso al suo amante che non avrebbe fatto l’amore con altri, poiché-diceva-“non si può mai sapere che cosa succederà mentre camminiamo sulla corda del destino, tesa sopra l’abisso della morte che nullifica  gli impegni, tutti: quelli presi e pure quelli non presi”.

Il discorso si fece interessante e lo riferirò poiché riguarda molte persone, se non proprio tutte.

Io intanto pensavo che Ifigenia, poiché non scriveva, parlava nella stessa maniera a un corteggiatore sulla spiaggia adriatica o sui viali, per stuzzicarlo e provocarlo per trarne e dargli piacere, commettendo, allora credevo, un’ingiustizia grave nei miei confronti. Ora penso che tale diversità di comportamento non era un’ ingiustizia inflitta alla mia persona, anzi era una discrepanza che mi avrebbe fatto capire come fosse inopportuno e deleterio che io sprecassi la mia fedeltà, i miei sentimenti e il tempo buono della vita per una donna con la quale avevo poco in comune. Da allora ho compreso di dover rinunciare al pathos quando non riceve l’assenso del logos, cioè dei fatti reali perché davvero ciò che è razionale è reale pur se non tutto il reale è razionale. In ogni caso l’amore di Ifigenia per me non era reale e il mio per lei non era razionale. Doppia discrepanza dunque.

E’ andata bene così, come diceva spesso Fulvio che mi voleva bene contraccambiato

Anche ora che sono vecchio e ho vissute parecchie altre storie diventando sempre più lucido e disincantato, ora che  ho superato il minimo sindacale amoroso che mi ero avevo proposto1, credo tuttavia, come allora, che un amante impegnatosi a mantenere la fedeltà, debba farlo. Niente del resto ci obbliga a prendere impegni che non siamo sicuri di onorare.

Quando tornai da Debrecen, nell’agosto del 1974, arrivato in Italia dissi a una brava ragazza triestina con la quale avevo intrecciato una relazione nel precedente maggio odoroso, che mi ero innamorato di un’altra, cioè di Päivi una finlandese che  era pure rimasta incinta.

La giovane donna italiana mi disse: “tu non sei un uomo, sei una prostituta”, con tutto che non le avevo giurato né promesso la mia fedeltà.

Dopo qualche mese di amicizia, ci perdemmo di vista. Diversi anni più tardi tuttavia la madre mi telefonò dicendo che la  ragazza era morta. Temevo di venire apostrofato con ira. Invece la signora mi chiese di andare a pregare sulla tomba di Gianna, si chiamava così, siccome le aveva detto che ero stato io l’unico uomo per bene che avesse incontrato in vita sua. Difatti non le avevo mentito. Non lo faccio, siccome non lo ritengo degno di me.

 

Ma torniamo al 9 agosto del 1979. Dissi a Giulia che le emozioni vane vengono cercate dall’orrore del  vuoto di chi non è soddisfatto di sé e del compagno.  La bella ragazza mi rivolse  uno sguardo irritato: credo che le avesse dato fastidio non ricevere una corteggiamento che magari avrebbe respinto, però non riceverlo dopo avermi dato l’occasione di provarci, aveva disturbato il suo narcisismo.

Tanto che disse: “La tua è una visione meschina e obsoleta dei rapporti amorosi”

“Sì è arretrata-risposi-risale almeno a Platone”

“Risalirà a Platone-replicò con disprezzo appena dissimulato-ma io non la condivido. E’ debole e falsa. Anzi, credo che nemmeno tu  ne sia intimamente convinto e che la usi per puntellare la tua fiacchezza attuale: tu giri intorno all’argomento con tante parole, ma il fatto è che hai il terrore di venire tradito e magari lasciato da una sulla quale hai basato la tua identità. Tu ne aborrisci il terremoto e la rovina. Sei anche falso:  santo come vuoi apparire, non ti sei mai concesso delle avventure?”

“Sì, certo, anzi parecchie, qui a Debrecen, in Italia e altrove. Ho folleggiato nel piacere anche io. Ma quando non mi ero vincolato con alcuna promessa. Recentemente l’ho fatta siccome ho prefeito l’amore con una donna sola a diversi rapporti con varie amanti più o meno gradite.

La monogamia con una di raro valore mi dà più della poligamia. L’ho praticata anche per fare numero: per vanità”.

 “La poligamia o la poliandria può essere vissuta con molti amanti di raro valore”, rispose spiritosamente e non illogicamente la bella.

 

“La monogamia-replicai- chiede maggiore  attenzione, rispetto, riguardo, e la crescita avviene solo attraverso relazioni impegnative. Con i rapporti superficiali cresce poco l’ esperienza, “small experience grows”, per dirla con Petruccio di Shakespeare[1]. La Poligamia è facile, come la poliandria: richiedono troppo poco per essere accrescitive. La monogamia ti dà più in quanto chiede di più. Come uno studio serio magari con traduzione e commento rispetto a una lettura distratta”.

Giulia mostrava di sdegnare tale posizione secondo lei arretrata, e, siccome significava anche “io non voglio avere un’avventura con te”, smentiva la sua certezza di poter incantare qualsiasi uomo, sicché questa Circe serba mi chiese di riaccompagnarla in collegio usando un tono carico di antipatia.

Giunti nell’altrio, guardammo se c’era posta: ebbene la mia fedeltà, teorizzata e praticata con devozione ieratica, non ricevette alcuna mercede, mentre il lassismo almeno teorico di quella ragazza fu ricompensato da una lettera. Giulia aveva saputo da Alfredo che io aspettavo da diversi giorni con ansia  un espresso dalla mia compagna lontana, sicché mi salutò sbandierando la sua busta bicolore e dicendo: “Ciao gianni, buona fortuna! Ti auguro di ricevere posta da domani ogni giorno e di essere felice con la tua amata per tutta  la vita, Felice e contento fino a cento e più anni!

Dopo sarai infinitamente  beato nel paradiso dove andrai di sicuro, fedele, puro e santo come sei stato qui sulla terra!”

Non le risposi. Ero nauseato. Non di lei ma di Ifigenia e di me stesso che avevo creduto di vivere con questa amante l’amore “che è palpito dell’universo intero”, mentre la prova della lontananza di un mese aveva testificato la falsità di lei e rivelato la mia illusione, rendendo ridicolo il rigore promesso e impiegato nel rispettare gli impegni che mi ero sobbarcato tutti da solo.

“Le mie virtù devo offrirle e consacrarle a Dio, chiunque egli sia”, pensavo.

Salìi in camera pieno di rancore per la svolazzante fringuella, che poco prima avevo celebrato come un’eroina e quale dea degna di venerazione

 

 

 

Bologna 2 maggio 2024 ore 11, 23, giovanni ghiselli

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 Nota 1

[1] Mi viene in mente un amico, un donnaiolo di Pesaro:  quando lo incontro e gli chiedo “come stai, stai bene?”, mi risponde sempre dicendomi quanto è salito il numero delle sue amanti. Gli rispondo dichiarando il mio. Sono numeri simili ma lui ha quattro anni meno di me, dunque è in vantaggio. Vorrei rifarmi ma è una gara dura.

 

 

 

 



[1] The Taming of the Shrew, I, 2.

mercoledì 1 maggio 2024

Il caso Vannacci e la doverosa difesa della parresia.


 

Sono in disaccordo su tutto quanto dice,  scrive e forse pensa il generale Vannacci, eppure sostengo la sua libertà di parola, come la mia e quella di chiunque voglia parlare o scrivere.

Siamo liberi di non leggere e non ascoltare chi non ci piace.

La parresia è la cellula della democrazia e metterla in dubbio è un attentato alla libertà più importante.

 

La tragedia di Euripide  Ione (circa del 411 )  tratta il problema del potere, quindi quello della cittadinanza ateniese e della parresia ad essa associata.

La parresia  sostiene il protagonista eponimo è un bene primario.

 Ione che crede di essere un trovatello, mentre è il figlio della principessa Creusa che in lui si incinse stuprata  da Apollo, poi lo ha esposto nel santuario di Delfi, spera che la madre sconosciuta sia una ateniese perché a lui spetti la parrhsiva (672) , siccome lo straniero che piomba in quella città pura- kaqara;n ej" povlin- quanto al gevno" (673) , anche se a parole diventa cittadino, ha schiava la bocca senza la libertà di parola ("tov ge stovma-dou'lon pevpatai[1] koujk e[cei parrhsivan", vv. 674-675).

 

 

Nella tragedia  Fenicie del medesimo periodo Euripide riprende il mito dei Sette contro Tebe con un Eteocle peggiorato e un Polinice migliorato rispetto a quelli dei Sette a Tebe di  Eschilo, e con una smontatura del potere compiuta da Giocasta che  vuole togliere  ogni attrattiva alla tirannide parlando con Eteocle il quale invece ne è bramoso ed è disposto a commettere qualsiasi nefandezza pur di ottenerlo o mantenerlo.

Quindi torna il tema della parresia.  Negarla è la mira di ogni tiranno.

Polinice risponde alla madre sulla cosa più odiosa per l'esule:" e{n me;n mevgiston, oujk e[cei parrhsivan" (v. 391), è una soprattutto, che non ha libertà di parola.

Infatti, conferma Giocasta, è cosa da schiavo non dire quello che si pensa: “douvlou tovd j ei\pa~ , mh; levgein a[ ti~ fronei`”(392).

 

Sul valore ineccepibile della parrhsiva prende posizione Victor Hugo quando cita queste parole “ingenuamente sublimi” scritte da padre Du Breul nel sedicesimo secolo: “Sono parigino di nascita e parrisiano di lingua, giacché parrhysia in greco significa libertà di parola della quale feci uso anche verso i monsignori cardinali”[2].

 

Bologna  primo maggio 2024 ore 20, 11 giovanni ghiselli

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[1] Forma poetica equivalente a kevkthtai.

[2] Notre-Dame de Paris, p. 38.

Ifigenia CLX. L’ospedale di Debrecen. Il delicato corteggiamento del vecchio dentista.

  Nei giorni seguenti, intorno al ferragosto,   vissi alcune ore di buona speranza: una serie intermittente di minuti nei quali immagi...