La mattina de 13 giugno telefonai alla mia amica più cara: Antonia,
nel giorno del suo onomastico. Oggi è un amica celeste. Mi aveva aiutato come
vicepreside nella scuola media di Carmignano, mi aveva educato al bene con il
suo esempio quando ero venticinquenne e, giovanilmente ancora piuttosto fatuo, ma lei aveva capito che di fondo ero bello
e buono di animo e mi aveva spinto a fare emergere questa kalokajgaqiva latente.
Mentre il primo preside
malevolo cercava di avvilirmi e addirittura cacciarmi via, Antonia, la vicepreside
della scuola media dove cominciai a lavorare, mi ha valorizzato per sempre.
E gliene sarò grato in saecula saeculorum. Tutti i 13 giugno
e tutti i 13 ottobre per il suo compleanno le telefonavo affettuosamente. Nei
giorni dei due solstizi andavo a
trovarla dopo il trasferimento Bologna. Diceva che stava vivendo più a lungo
dei suoi fratelli grazie al mio affetto.
Eravamo legati da reciproca gratitudine.
L’ingratitudine è il
contrassegno dell’anima plebea. Ha reso misantropi Timone di Atene, Cnemone il Dyskolos di Menandro, e chissà quanti altri.
Il mio amore per la vita mi ha
reso grato per sempre a quanti
hanno aiutato la mia esistenza, un exsistere anomalo, da a[topo~, estraneo
ai luoghi comuni volgari, riottoso alle mode, in cammino quasi sempre da solo
su una strada impervia, faticosa e dura
soprattutto nel lavoro che ho vissuto come una missione. Senza l’aiuto di Antonia
e pochi altri buoni, generosi, leali, non ce l’avrei fatta.
Verso sera, dopo le ore di
studio andai al campo sportivo scolastico Baumann per mettere alla prova forza,
salute e volontà correndo i 5000 metri.
Ifigenia mi assisteva e incoraggiava. Contavo che la ragazza, mitizzata dalla
mia mente imbevuta delle favole belle dei Greci che mi illudono e pure
sostengono i miei sogni da quando ero bambino, facesse per me quanto Pallade Antena fece per favorire Odisseo: “gui`a d’
e[qhken ejlafrav”, agili rese le membra”[1].
Il mio ideale completo
sarebbe stato correre di fianco alla giovane domina perché la corsa
tempra la volontà, conserva la bellezza e rasserena la mente. Inoltre, se la
bella donna avesse condiviso questa mia ascesi, avremmo avuto un’altra gioia in
comune oltre il sesso, e un altro argomento in aggiunta alla scuola, i
colleghi, il preside maligno e i libri buoni. Il nostro rapporto magari sarebbe
durato più a lungo.
Ma non era destino: Ifigenia
non sarebbe mai diventata la mia compagna di vita e procreazione nella bellezza
secondo lo spirito, né secondo il corpo tovko" ejn kalw'/ kata; to; sw'ma [2]: ad altra funzione l’aveva predisposta
il suo demone. Avrei iniziato a comporre l’opera grande e meravigliosa, dove ancora
spendo una parte non piccola della mia vita mortale, dopo che se ne fu andata
via per sempre il 13 giugno di due anni più tardi.
Il 13 giugno dell’anno scorso
è morta a 80 anni l’anziana signora che era stata la ragazzina mito della mia
preadolescenza. Da quando l’ho saputo, passo ogni giorno davanti a casa sua e
mando dei baci con la mano destra.
Mi è rimasta impressa quella
fanciulla sebbene abbia scambiato con lei soltanto poche parole. Mi fece capire
qual era il mio tipo di femmina umana: mora, snella eppure formosa,
intelligente, brava a scuola.
Nello stesso tempo compresi come dovevo
attrezzarmi per piacere a ragazze siffatte: essere bravo quanto lei,
possibilmente anche più bravo, presentarmi in una forma attraente anche se non
proprio bella, e rendermi capace di primeggiare in quanto facevo. All’epoca
esibivo i miei voti e i miei successi in bicicletta, ma non avevo ancora
l’eloquio ornato e persuasivo con il quale convinsi Elena, la versione adulta della meravigliosa ragazzina
Marisa.
Il 13 giugno del 1981 la
perdita di Ifigenia fu una sventura provvida per la mia vita.
Fino a quella notte fatale,
scrivendo, mi ero limitato a prendere appunti soprattutto per le mie lezioni, a tradurre e commentare i
classici greci e latini, l’Edipo re di
Sofocle soprattutto.
Ma torniamo alla corsa del
giorno di santo Antonio da Padova dell’anno di mia salvazione 1979.
La bella dunque si era seduta
su una panchina situata accanto alla linea di arrivo del percorso ellittico che
dovevo compiere per 12 volte e mezzo correndo a più non posso. Era vestita di
azzurro, con il volto abbronzato dalle carezze del sole, tocchi santi come
quelli del plettro maneggiato da Febo. La sua splendida forma mi invogliava a
impiegare tutte le mie energie corporee e mentali per esserne degno. Mi
osservava compiaciuta, mi spronava con delicatezza, mi invogliava a manifestare
tutto il meglio di me.
“Come una madre sta accanto a
me e mi protegge”, ricordai[3].
La mia signora mi diede il via facendo scattare anche il
cronometro.
Lo scatto mio non fu rapido.
Mi accorsi subito di essermi un po’ appesantito. Basta un chilo in più a
rallentare le corse e le pedalate in salita. Un chilo in più è uno svantaggio per
un atleta leggero, e pure una colpa. Mi fissai l’obiettivo mirando al bersaglio
di fare un tempo e una figura decente: il record personale inferiore ai 18
minuti e trenta secondi era da escludere, non era alla portata delle mie forze.
Per tre quarti di ogni giro soffrivo una fatica opprimente, ma quando arrivavo
a vedere l’idolo mio che mi incitava e
incoraggiava sul traguardo, quell’immagine mi liberava dall’acre affanno, mi
ricaricava di forza e coraggio infondendomi la voglia e la speranza di compiere
egregiamente l’impresa. Al primo passaggio mi vennero in mente alcuni versi
dell’Olimpica I di Pindaro:
“ la gloria
dell’atleta egregio brilla negli stadi
degli agoni
Olimpici dove gareggiano
velocità di piedi
e vertici ardimentosi di
forza;
e il vincitore per il resto
della vita
ha una dolce serenità”.
Ifigenia era fiera del suo
compagno non più giovanissimo ma forte di muscoli, fiato, cuore e soprattutto
di volontà, ed era orgogliosa della propria capacità di spingerlo a impegnare
il massimo delle sue doti fisiche e mentali, ovunque, non solo nel talamo. Come
iniziava la curva successiva al traguardo e non vedevo più l’icona della musa
santa che mi ispirava, la fatica si faceva sentire di nuovo, mi dolevano i
muscoli, i tendini, perfino i polmoni e ansimavo a corto di fiato. Ce la
mettevo tutta affinché la volontà non cedesse, le gambe non si illanguidissero,
il cuore non scoppiasse, la lena non si spezzasse. Cercavo soccorso guardando
il prato erboso, gli alberi ricchi di foglie, il cielo benigno pieno di luce e di voli. Pensavo che quanto vedevo
era l’epifania dello stesso dio artista creatore della ragazza dispensatrice
d’incanto che mi aspettava sul traguardo in fondo al secondo rettilineo. Come
la rivedevo allora mi tornavano tutte le forze. Riuscii a rimanere dentro i
diciannove minuti: un buon tempo .
Ifigenia mi accarezzò il volto
con mano leggera per non togliermi del tutto il respiro mezzo mozzo. Disse che
continuando così avrei conseguito
l’immortalità
“Sì - risposi dopo avere
ripreso fiato - diventerò una creatura divina, come sei tu".
Già docente di latino e greco nei Licei Rambaldi di Imola, Minghetti e Galvani di Bologna, docente a contratto nelle università di Bologna, Bolzano-Bressanone e Urbino. Collaboratore di vari quotidiani tra cui "la Repubblica" e "il Fatto quotidiano", autore di traduzioni e commenti di classici (Edipo re, Antigone di Sofocle; Medea, Baccanti di Euripide; Omero, Storiografi greci, Satyricon) per diversi editori (Loffredo, Cappelli, Canova)
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