La sera del 16 luglio uscii di nuovo con Silvia Virág che venne a chiamarmi in collegio mentre studiavo la storia romana. Tornammo all’Obester e riprendemmo a parlare di politica, ossia della vita nelle poleis che conoscevamo
La bionda tedesca ribadiva che la Germania Orientale era oppressa dal tallone del tiranno Honecker puntellato e sorretto dall’esercito sovietico.
Io ribattevo che l’Italia non stava meglio in quanto era raggirata e inebetita da un liberalismo il cui fine è che la massa non pensi, non ami, e consumi di tutto ingordamente con le fauci spalancate e il cervello chiuso.
Il popolo dissi non è politico bensì “ nunc inhiat panem et mendacia ut devoret ” , ora spalanca la bocca per divorare pane e menzogne.
Il nostro liberalismo del resto comprende la libertà di sfruttare.
“Da noi-dicevo- imperversa una gioventù intruppata in branchi rumorosi, ottusi, faziosi, oppure in greggi pigri, queruli, flebili, o petulanti e beceri, o viceversa afasici.
Intanto, nel vuoto di cultura, di idèe, di sentimenti forti e buoni, proliferano vizi quali la malafede, l’egoismo, la droga, la violenza. Sintesi e simbolo di tutto questo sono le stragi occultamente programmate da manovratori infernali ed eseguite da una manovalanza di sicari. I giovani sono sciancati nell’anima, gli adulti sono incoscienti o, se coscienti, restano comunque sottomessi e silenziosi. Io ho perso il lavoro che mi piaceva per avere criticato il potere.
C’è stato un intellettuale coraggioso, Pier Paolo Pasolini, che ha denunciato la complicità di parti dello Stato nelle stragi ed è finito massacrato di botte da una banda di sicari nel novembre del 1975. Da noi l’intellettuale libero viene ucciso o per lo meno penalizzato da tale liberalismo”.
Silvia tornò a lamentare la censura e l’assenza di tanti autori europei, introvabili nelle librerie di Berlino est. Era meno difficile reperirli in Ungheria dove c’erano maggiori sperequazioni economiche ma più libertà culturale.
Un comunismo al gulasch, si diceva di quello di Kádár che attenuò il rigore del regime filosovietico dopo la rivolta del 1956, rivoluzionaria o reazionaria che fosse.
Tornato in collegio, in camera mia , ripensai alla serata. Quella donna diceva parole che mi facevano pensare, come succede dopo un film interessante o una lettura significativa.
Ifigenia invece mi obbligava a rimuginare sul suo conto cercando di ingelosirmi. Oramai nella mia povera testa pullulavano ipotesi pessime. Sapevo che nell’amore il dubbio di non essere corrisposto è una certezza, ne ero sicuro per averlo provato più volte, ma durante quel mese volli soffrire fino in fondo il dilemma ridicolo e irrazionale “m’ama non m’ama” per imparare dell’altro dal dolore che sentivo ogni giorno davanti all’assenza di messaggi per me.
Tornato in Italia, potei constatare in presenza di Ifigenia che il mio pathos doloroso non era parto di un cervello malato, bensì faceva parte del logos che voleva capire prima di rinunciare.
Ifigenia mi fece un racconto caotico e contraddittorio delle sue avventurose vacanze e disse che non mi aveva scritto perché temeva il mio giudizio sul suo stile. In realtà mi aveva inviato un telegramma laconico e ingannevole: “aspetta il mio espresso”, poi non aveva mandato nient’altro siccome non aveva nulla di buono da comunicarmi e non poteva rivelarmi la verità sulle proprie faccende poco limpide e buone, almeno dal mio punto di vista, viziato, forse, dal moralismo o dalla morale. Decidi tu, lettore.
Il fatto è che non sapevo o non volevo prendere la vita com’è davvero, ingabbiato com’ero negli schemi innaturali che mi impedivano di vivere dando retta all’istinto: il mio non era cattivo ma diversi pulpiti l’avevano demonizzato e reso malato proprio perché era sano.
Mi avevano indotto a cercare la donna della vita, la donna per sempre.
Solo verso i cinquanta anni ho compreso che questa per me non esiste. Ho sempre funzionato meglio con la donna precaria, la donna impossibile, la straniera estrema, o la moglie di un altro. Insomma la non sposabile.
Mi avrebbero aiutato i classici a capire, a rompere i serrami del carcere. Nel campo amoroso soprattutto Ovidio.
Quando vidi arrivare l’alba che biancheggiava tra gli alberi della grande foresta, smisi di rimuginare e mi addormentai.
Bologna 23 maggio 2025 ore 12 giovanni ghiselli
p. s.
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