martedì 20 maggio 2025

Omero Odissea, XX parte, terzo canto. L’identità esemplare dell’eroe.


 

L'identità di Telemaco.

Quindi Nestore riconosce in Telemaco il meglio di Ulisse, cioè la parola (vv. 124-125). Dicendo questo dà un forte aiuto al giovane in cerca di identità.

 "Telemaco non sa cosa fare, perché non sa chi è. Deve prima trovare la propria identità. Solo dopo può agire con forza e convinzione. E solo dopo, può incontrare il padre. Infatti per potere riconoscere Odisseo come genitore deve prima avere la certezza di esserne il figlio. Il poeta dell'Odissea lo ha capito.

Per tale ragione lascia che Atena spinga il giovane, che ha invano cercato di ottenere qualche lume nell'assemblea cittadina, a recarsi "all'estero". Se i capi delle case aristocratiche un tempo amiche del padre a Pilo (Nestore) e a Sparta (Menelao/Elena) non possono dirgli se Odisseo sia ancora vivo o meno, possono però svelargli quello che per lui è al momento la cosa più importante: se sia o no il figlio di Odisseo. Avendo essi conosciuto l'eroe, sono in grado di confrontare l'aspetto fisico di Telemaco e il suo carattere con quello di Odisseo. Questa è la prova convincente. Quando Telemaco ritorna, ha trovato la propria identità. Ha fiducia in sé ed è cresciuto. Adesso può diventare compagno del padre, quando questi ritornerà, quel compagno che non avrebbe mai potuto essere prima"[1].

 

 Nestore poi racconta che dopo la caduta di Troia, Zeus meditava un funesto ritorno per gli Argivi, siccome questi non erano tutti assennati né giusti ( v. 133- 134). Come si vede, all'alta considerazione dell'intelligenza si accompagna quella della giustizia. Atena era adirata e fece sorgere lite tra i due Atridi

Allora l'esercito si divise: una parte rimase con Agamennone che voleva fare sacre ecatombi per placare l'ira tremenda di Atena (vv. 144-145), l'altra partì, con Menelao, sul mare immenso spianato da un dio. Seguirono altre divisione dell'armata che si disperse. Nestore giunse a Pilo e successivamente ebbe notizie degli altri reduci. Bene tornarono il figlio di Achille con i Mirmìdoni, Filottète, e Idomenèo cretese, male Agamennone cui Egisto preparò una fine luttuosa (v. 194). Ma Oreste, il figlio, gliela fece pagare. La menzione di Egisto e Oreste è un'occasione per ripetere a Telemaco, e con le stesse parole, l'esortazione che già gli aveva dato Mente- Atena (I 301-302): "anche tu caro, infatti ti vedo molto bello e grande,/sii valoroso, affinché qualcuno dei posteri dica bene di te" (III, 199- 200). La dizione formulare comprende tali iterazioni.


 

Valore del paradigma nell'educazione.

Questa replica esatta (I 301-302; III, 199-200) fu atetizzata da Aristofane di Bisanzio e da Aristarco, mentre secondo Jaeger "Questa ripetizione, come è ovvio, è voluta.

Il richiamarsi al modello di eroi famosi e all'esempio della leggenda in genere e in ogni forma è per il poeta parte integrante d'ogni etica ed educazione aristocratica...anche per i Greci dei secoli ulteriori il paradigma ha sempre conservato la sua importanza quale categoria fondamentale della vita e del pensiero. Basti accennare all'uso che fa Pindaro degli esempi mitici, i quali costituiscono un elemento così cospicuo dei suoi inni trionfali. Errerebbe chi volesse interpretare quest'uso, passato in tutta la poesia e in parte anche nella prosa dei Greci, quale fenomeno meramente stilistico. Esso è strettamente legato all'essenza dell'etica aristocratica arcaica ed anche nella poesia, in origine, era ancora ben vivo nel suo significato educativo. In Pindaro, massimamente, si riaffaccia il genuino senso antico del paradigma mitico. E se, infine, si considera che tutto il pensiero di Platone è, per la sua più intima struttura, paradigmatico, e ch'egli qualifica la sua Idea "un paradigma, fondato sull'esistente"[2], allora è ben chiara l'origine di questa forma di pensiero. Appare ora come il "modello", di validità universale, dell'Idea filosofica del "Buono"[3], o per dir meglio dell'ajgaqovn, si trova sul prolungamento rettilineo della linea di sviluppo ideale che muove dall'idea dell'esempio dell'antica etica aristocratica dell'areté . Lo svolgimento della forma spirituale dalla cultura aristocratica omerica alla filosofia di Platone, che passa per Pindaro, è perfettamente organico, razionale e necessario. Non è "evoluzione" nel senso semi-naturalistico del termine, quale suole usarlo l'indagine storica, ma sviluppo sostanziale della forma originaria dello spirito greco, che nella sua struttura fondamentale rimane identico a se stesso attraverso tutte le fasi della propria storia"[4].

 

 

Platone   nella Repubblica fa dire a Socrate che non sono diversi dai ciechi quanti non hanno la conoscenza dell’ente quale essenzialmente è kai; mhde;n ejnarge;ς ejn th`/  yuch`/   e[conteς paravdeigma (494c), e non hanno nell’anima un chiaro modello.

 

 Anche Isocrate nel Filippo  indica la necessità  dell'imitazione del modello egregio a quanti hanno senno, e soprattutto al re di Macedonia che ha nella sua stessa famiglia un esempio come quello di Eracle:"  [Apanta" me;n ou\n crh; tou;" nou'n e[conta" to;n kravtiston uJposthsamevnou" peira'sqai givgnesqai toiouvtou", malista de; soi; proshvkei", 113, bisogna dunque che tutti coloro i quali hanno senno, preso come modello l'uomo ottimo cerchino di diventare tali, e soprattutto questo si addice a te.

 

Il paradigma mitico costituito da Odisseo viene relativizzato da Seneca poi ridicolizzato da Gozzano

Ercole e Ulisse sono i precedenti e i modelli di Annibale, eroi già indicati quali paradigmi dai filosofi stoici. Seneca nel ricordarlo del resto aggiunge e antepone a questi personaggi mitici e letterari Catone Uticense: “pro ipso quidem Catone securum te esse iussi: nullum enim sapientem nec iniuriam accipere nec contumeliam posse, Catonem certius exemplar sapientis viri nobis deos immortales dedisse quam Ulixen et Herculem prioribus saeculis. Hos enim Stoici nostri sapientes pronuntiaverunt, invictos laboribus et contemptores voluptatis et victores omnium terrorum” (De costantia sapientis, 2, 2), per Catone in persona ti invitai a stare sicuro: in effetti nessun saggio può ricevere ingiuria né offesa, e con Catone gli dèi immortali ci hanno dato un esempio di uomo saggio più reale di Ulisse ed Ercole per i secoli precedenti. Questi infatti i nostri Stoici hanno proclamato sapienti, invitti dalle fatiche e spregiatori del piacere e vincitori di tutti i terrori.

Il paradigma positivo costituito da Ulisse viene relativizzato da Seneca.

 

Guido Gozzano lo ridicolizza addirittura parodiando Dante: “Il re di Tempeste[5] era un tale/che diede col vivere scempio/un ben deplorevole esempio/d’infedeltà maritale,/che visse a bordo d’un yacht/toccando tra liete brigate/le spiagge più frequentate/dalle famose cocottes…/ Già vecchio, rivolte le vele/al tetto un giorno lasciato,/fu accolto e fu perdonato/dalla consorte fedele…/Poteva trascorrere i suoi/ultimi giorni sereni,/contento degli ultimi beni/come si vive tra noi…/Ma né dolcezza di figlio,/né lagrime, né la pietà/del padre, né il debito amore/per la sua dolce metà/li spensero dentro l’ardore/della speranza chimerica/e volse coi tardi compagni/cercando fortuna in America…/Non si può vivere senza/danari, molti danari…/Considerate, miei cari/compagni, la vostra semenza!” (L’ipotesi, vv. 11-138).  

 

 


 

 Telemaco dunque approva Oreste, ma egli non può imitarlo, se i numi non gli infondono altrettanta potenza ("tosshvnde...duvnamin", v. 205). I rapporti umani sono visti già in questa luce, e anche se la duvnami" non è un fatto soltanto terreno, ma viene concessa dagli dèi, è già chiaro che senza la forza bisogna comunque subire ("nu'n de; crh; tetlavmen e[mph"", v. 209) come afferma con rassegnazione Telemaco.

Nestore, dato che Telemaco ne ha fatto cenno, dice quello che sa della situazione di Itaca, poi domanda ciò che non sa, e augura al giovane la stessa benevolenza che, da parte di Atena, aveva suo padre : allora qualcuno di quelli scorderebbe le nozze (III, v. 224).

Telemaco risponde che non nutre più illusioni, ma Atena lo riprende poiché soltanto chi è morto, come Agamennone deve abbandonare le speranze. La morte neppure gli dèi possono allontanare da un uomo anche amato quando lo colga la Moira funesta di morte crudele (v.238)

 Abbiamo un frammento (11 Morel) dell'Odusia  di Livio Andronico che traduce oJppovte ken dhv-moi'r j ojlohv kaqevlh/si tanhlegevo" qanavtoio (vv. 237-238):"Quando dies adveniet quem profata Morta est ", quando arriverà il giorno che Morta ha predetto:"la divinità greca Moira  è resa con quella latina Morta , dal nome trasparente come tutte le divinità particolari dei Romani. Inoltre, il concetto generico del verso greco è tradotto con sensibilità romana, in cui viene sottolineata l'idea della morte intesa come un giorno che è stato già "pronunciato" (profata est : è la stessa radice di fatum )"[6]. 

 

 

Bologna 20 maggio 2025 ore 18, 37 giovanni ghiselli

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[1]Latacz, Omero , p.142.

[2]Pl. Theaet . 176e.

[3]Per l' idea platonica di Dio come paradigma nell'anima del reggitore filosofo, v. Resp. 472c, 484c, 500e, 540a e "Paideia" II, pp. 481-483.  “l’idea è per eccellenza realtà intelligibile, e quindi coglibile solo dall’intelligenza, e in quanto tale, nettamente distinta dalla realtà sensibile” (G. Reale, Autotestimonianze, p. 88.

[4]Jaeger, Paideia 1, pp. 82-83 e note 69-70.

[5] E’ una citazione parodica di D’Annunzio : « Odimi » io gridai/sul clamor dei cari compagni/ « odimi, o Re di tempeste !” (Maia, IV)

[6]M. Bettini, La letteratura latina , p. 122.

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